Questa è macchina contro le nostre mura
innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v'è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e più quand'offrono doni.
(Dall’Eneide di Virgilio)
Laocoonte, sacerdote di Poseidone, cercò di
dissuadere i troiani, che volevano portare il cavallo di legno progettato da
Ulisse nella città. Ma Atena, protettrice degli Achei, fece emergere dal mare
due serpenti marini che uccisero il veggente Laocoonte insieme ai suoi figli. I
troiani interpretarono tutto ciò come un soprannaturale ammonimento, e spinsero
il cavallo tra le loro mura.
Agesandro, Polidoro e Atanodoro da Rodi, Il Laocoonte (copia marmorea eseguita tra I secolo a.C. e I secolo d.C. da un originale bronzo) - Roma, Musei Vaticani.
LETTURA DELL’OPERA DI JOHANN JOACHIM WINCKELMANN
La clemenza di un potere divino che vigila anche sulla
distruzione delle opere d’arte, ha preservato, dopo la perdita di innumerevoli
monumenti di quei tempi di massima fioritura artistica, la statua del Laocoonte
a meraviglia del mondo intero e a testimonianza dello splendore di tanti capolavori
che più non esistono, ma di cui è tramandato il ricordo. Laocoonte insieme ai
due figli, opera di Agesandro, Apollodoro e Atanodoro da Rodi, risale con ogni
probabilità a questo periodo, ma non siamo tuttavia in grado di determinarlo e
di affermare, come alcuni hanno fatto, in quale Olimpiade questi artisti
fiorirono. Sappiamo però che già nell’antichità si volle anteporre quest’opera
a tutti i dipinti e a tutte le statue, e quindi presso i posteri – così
inferiori da non aver prodotto nulla nell’arte che regga il confronto – essa
merita un’attenzione e un’ammirazione maggiori. Il pensatore vi trova materia
di pensiero, l’artista materia di infinita istruzione, ed entrambi si
persuaderanno che in questa statua esistono più cose di quante l’occhio ne possa
scoprire e che l’intelletto dell’artista era molto superiore alla sua opera.
Il Laocoonte è la statua del più forte patimento, e ci
dà l’immagine d’un uomo che, per opporsi ad esso, tenta di raccogliere tutte le
forze dello spirito; e mentre il dolore gli gonfia i muscoli e gli tende i
nervi, mostra il suo coraggio sulla fronte corrugata. Il petto è sollevato
dalla respirazione impedita e dallo sforzo di reprimere il grido del dolore e
chiuderselo dentro. Il gemito soffocato ed il respiro trattenuto gli ritirano
il ventre e gli incavano i fianchi, così che ci sembra di vedere la contrazione
degli intestini. La pena propria pare lo preoccupi meno di quella dei figli che
fissano in lui lo sguardo chiedendogli soccorso; l’affetto paterno si rivela
negli occhi dolenti: su di essi stende la compassione come una cupa nebbia. Dal
volto si sprigiona un lamento, non un grido; lo sguardo implora l’assistenza
dal cielo. La bocca è piena d’angoscia, e il labbro inferiore ne è appesantito;
angoscia e dolore si mischiano invece sul labbro superiore contratto; dolore
che, assieme a un moto d’indignazione per un castigo indegno e non meritato,
appare anche nel naso rigonfio e nelle narici aperte e sollevate. Con grande
sapienza, concentrato in un solo punto sotto la fronte, è reso il contrasto tra
dolore e resistenza ad esso: poiché, mentre il dolore spinge in alto le
sopracciglia, la resistenza abbassa la parte carnosa sulle palpebre, così che
queste ne rimangono quasi interamente coperte. La natura che l’artista non poteva
abbellire è stata resa da lui con effetti più sviluppati, più tesi e più
potenti: nella parte che esprime il dolore maggiore ci mostra pure maggiore
bellezza. Il fianco sinistro, il cui serpente infonde il suo veleno con morso
furioso, è quello che per la sua prossimità al cuore deve più soffrire, e
infatti questa parte del corpo può considerarsi un prodigio dell’arte. Le gambe
vorrebbero sollevarsi per sottrarsi a tanta pena; nessuna parte è in riposo;
perfino i segni dello scalpello accentuano l’espressione dell’epidermide che
nella morte si agghiaccia.
© Giuseppe Lucio
Fragnoli
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