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mercoledì 24 marzo 2021

IL GRUPPO DEL LAOCOONTE commentato da JOHANN JOACHIM WINCKELMANN


Questa è macchina contro le nostre mura innalzata,
e spierà le case, e sulla città graverà:
un inganno v'è certo. Non vi fidate, Troiani.
Sia ciò che vuole, temo i Dànai, e più quand'offrono doni. 

(Dall’Eneide di Virgilio) 

Laocoonte, sacerdote di Poseidone, cercò di dissuadere i troiani, che volevano portare il cavallo di legno progettato da Ulisse nella città. Ma Atena, protettrice degli Achei, fece emergere dal mare due serpenti marini che uccisero il veggente Laocoonte insieme ai suoi figli. I troiani interpretarono tutto ciò come un soprannaturale ammonimento, e spinsero il cavallo tra le loro mura.

Agesandro, Polidoro e Atanodoro da Rodi, Il Laocoonte (copia marmorea eseguita tra I secolo a.C. e I secolo d.C. da un originale bronzo) - Roma, Musei Vaticani

                    LETTURA DELL’OPERA DI JOHANN JOACHIM WINCKELMANN

La clemenza di un potere divino che vigila anche sulla distruzione delle opere d’arte, ha preservato, dopo la perdita di innumerevoli monumenti di quei tempi di massima fioritura artistica, la statua del Laocoonte a meraviglia del mondo intero e a testimonianza dello splendore di tanti capolavori che più non esistono, ma di cui è tramandato il ricordo. Laocoonte insieme ai due figli, opera di Agesandro, Apollodoro e Atanodoro da Rodi, risale con ogni probabilità a questo periodo, ma non siamo tuttavia in grado di determinarlo e di affermare, come alcuni hanno fatto, in quale Olimpiade questi artisti fiorirono. Sappiamo però che già nell’antichità si volle anteporre quest’opera a tutti i dipinti e a tutte le statue, e quindi presso i posteri – così inferiori da non aver prodotto nulla nell’arte che regga il confronto – essa merita un’attenzione e un’ammirazione maggiori. Il pensatore vi trova materia di pensiero, l’artista materia di infinita istruzione, ed entrambi si persuaderanno che in questa statua esistono più cose di quante l’occhio ne possa scoprire e che l’intelletto dell’artista era molto superiore alla sua opera.

Il Laocoonte è la statua del più forte patimento, e ci dà l’immagine d’un uomo che, per opporsi ad esso, tenta di raccogliere tutte le forze dello spirito; e mentre il dolore gli gonfia i muscoli e gli tende i nervi, mostra il suo coraggio sulla fronte corrugata. Il petto è sollevato dalla respirazione impedita e dallo sforzo di reprimere il grido del dolore e chiuderselo dentro. Il gemito soffocato ed il respiro trattenuto gli ritirano il ventre e gli incavano i fianchi, così che ci sembra di vedere la contrazione degli intestini. La pena propria pare lo preoccupi meno di quella dei figli che fissano in lui lo sguardo chiedendogli soccorso; l’affetto paterno si rivela negli occhi dolenti: su di essi stende la compassione come una cupa nebbia. Dal volto si sprigiona un lamento, non un grido; lo sguardo implora l’assistenza dal cielo. La bocca è piena d’angoscia, e il labbro inferiore ne è appesantito; angoscia e dolore si mischiano invece sul labbro superiore contratto; dolore che, assieme a un moto d’indignazione per un castigo indegno e non meritato, appare anche nel naso rigonfio e nelle narici aperte e sollevate. Con grande sapienza, concentrato in un solo punto sotto la fronte, è reso il contrasto tra dolore e resistenza ad esso: poiché, mentre il dolore spinge in alto le sopracciglia, la resistenza abbassa la parte carnosa sulle palpebre, così che queste ne rimangono quasi interamente coperte. La natura che l’artista non poteva abbellire è stata resa da lui con effetti più sviluppati, più tesi e più potenti: nella parte che esprime il dolore maggiore ci mostra pure maggiore bellezza. Il fianco sinistro, il cui serpente infonde il suo veleno con morso furioso, è quello che per la sua prossimità al cuore deve più soffrire, e infatti questa parte del corpo può considerarsi un prodigio dell’arte. Le gambe vorrebbero sollevarsi per sottrarsi a tanta pena; nessuna parte è in riposo; perfino i segni dello scalpello accentuano l’espressione dell’epidermide che nella morte si agghiaccia.


© Giuseppe Lucio Fragnoli


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