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mercoledì 2 dicembre 2020

APOLLO E DAFNE di GIAN LORENZO BERNINI

 




Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne (1622 – 1625, marmo di Carrara, altezza 243 cm.), Roma, Galleria Borghese.

 

(Apollo e Dafne è una delle quattro sculture commissionate a Bernini dal Cardinale Scipione Borghese, raffinato collezionista di opere d’arte; le altre sono: Enea e Anchise, Ratto di Proserpina e David.)

 


ANALISI STILISTICA 

Nel gruppo marmoreo Apollo e Dafne, soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, Gian Lorenzo Bernini fissa in modo inequivocabile, i punti fondamentali del suo stile, straordinariamente innovativo, in cui i modelli e i temi classici in generale sono reinterpretati con assoluta libertà e fantasia.

Tali prerogative permettono all’artista, il gran Michelangelo del suo tempo, di realizzare un inedito sviluppo compositivo, in cui l’ideale di bellezza è raggiunto nell’armonia complessiva della bella forma, intesa in senso strettamente classicista, che si fonde con un accentuato senso del movimento e una ricercata eleganza dei gesti. È quello stile che caratterizzerà il Seicento e che verrà successivamente chiamato barocco, inteso come bizzarro, con significato spregiativo evidentemente. Anche se Bernini, come il Cortona e il Reni, come il Borromini del resto, non sapevano affatto di essere artefici barocchi.

In Apollo e Dafne, Bernini sceglie il momento fatale in cui la ninfa, inseguita dal profetico dio della musica, si sta trasformando in albero di alloro, per volere stesso di Dafne, e ad opera di suo padre, il dio fluviale Pèneo, per non soccombere all’odiato spasimante.

La metamorfosi si sta compiendo, le mani e i capelli della bellissima fanciulla, colta in un’espressione di dolore, si stanno trasformando in fronde, mentre le spuntano radici dai piedi e la corteccia inizia ad avvolgere il suo bellissimo corpo. Dafne è stata ormai raggiunta dal suo spasimante, che corre ancora e che la l’afferra in vita con una mano in una espressione di meraviglia, nel vedere la sua bramata fanciulla terminare la sua corsa in un moto attorcigliante in cui le braccia si levano in alto come rami e le radici ai piedi la stanno piantando alla terra, sotto l’impulso del sortilegio che si sta compiendo.

Le due figure, spinte in avanti, sono sospese in due posture sapientemente correlate, in un esatto e armonico sincronismo dei movimenti, elegantemente fluttuanti nello spazio, in un forte effetto di complessiva e raffinata coreografia, che richiama alla mente una garbata movenza di danza, che offre all’osservatore una spettacolare equivalenza di punti di vista, in una consapevole narrazione favolistica.

“Il modellato fluido e fremente fa sentire, insieme con i corpi, la luce e l’aria che li bagnano: la nostra immaginazione, guidata, ricompone il luogo, l’ora del fatto; si muove in quello spazio e in quel tempo mitici, dove alche il movimento diventa ritmo di danza” (Argan).

CONCLUSIONI.

 

L’Apollo e Dafne di Bernini ha una concreta affinità stilistica con Atalanta e Ippomene di Guido Reni. In entrambe le opere, di colto soggetto mitologico, l’una dipinta e l’altra scolpita, risplende evidente il risultato di una esegesi in senso dinamico e scenico del classicismo e dell’ellenismo. Entrambi sono gli interpreti di quello stile nuovo, erudito e sicuramente aulico, che verrà in seguito chiamato banalmente barocco. In senso alquanto spregiativo, ovviamente, come ho già detto. Cosa questa ordinaria nella valutazione a posteriori delle opere d’arte, osservate alla luce di tempi ed estetiche completamente differenti.

Nel Seicento il cosiddetto barocco fu la tendenza dominante. Vi fu in realtà un impeto di rinnovamento, che coinvolse tutte le arti, architettura pittura e scultura, sfociato in molti casi in trionfale retorica. Ma per il resto il Seicento fu un secolo lungo e complesso di fioritura artistica, come il Quattrocento e il Cinquecento. Nel caso di Roma, tanto per fare un esempio, si pensi al piano urbanistico voluto da Sisto V sul finire del Cinquecento, che inaugurò tutta una serie di ammirevoli realizzazioni, che continuò con i suoi successori, fino al tempo di Urbano VIII e pure oltre, con l’arrivo in città di riconosciuti maestri d’ogni parte d’Italia e persino d’oltralpe.

Il controverso secolo barocco fu in realtà un periodo di considerevoli invenzioni artistiche, non inferiori a quelle di periodi precedenti, che vide all’opera artefici come Poussin, i Carracci, Caravaggio, Rembrandt, Rubens, Vermeer, lo stesso Reni, Bernini, Borromini, Cortona, Velázquez, solo per fare qualche nome. Tutti singolari interpreti del loro tempo. Barocchi cosiddetti, classicisti e naturalisti antibarocchi, non fa differenza.

 

 

La triste storia di APOLLO e DAFNE

(Testo tratto da: Ovidio, Metamorfosi, 2015, Giulio Einaudi Editore s. p. a., Torino) 

 

Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo: amore non dovuto a caso fortuito, ma all’ira crudele di Cupido. Ancora tutto insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo aveva visto Cupido che piegava l’arco per agganciare la corda ai due estremi e gli aveva detto: «Che cosa vuoi fare, fanciullo smorfioso, con armi così grosse? Questa è roba che sta bene sulle spalle a me, a me che so assestare colpi infallibili alle belve, ai nemici, a me che poco fa che con infinite frecce ho steso il gonfio serpente, il quale col suo ventre pestifero spianava il suolo per tante miglia! Tu accontentati di fomentare con la tua fiaccola qualche amoruccio, e non competere con le mie prodezze!»

Il figlio di Venere gli rispose: «Il tuo arco trafiggerà tutto, o Febo, ma il mio trafigge te, e quando gli esseri terreni, tutti, sono inferiori a un dio, tanto minore è la tua gloria rispetto alla mia.»

Così disse, e svelto solcò l’aria sbattendo le ali, si fermò sulla cima ombrosa del Parnaso, e dalla faretra estrasse due frecce di opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore. Quella che lo suscita è dorata e ha la punta aguzza e splendente; quella che lo scaccia è spuntata e dentro l’asta ha del piombo. Con questa il dio trafisse la figlia di Peneo, mentre con l’altra colpì Apollo trapassandogli le ossa del midollo.

Subito lui s’innamora, lei invece non vuol neppure sentire la parola «amore» e gode del buio dei boschi e delle spoglie degli animali selvatici che prende, emula della vergine Diana: una semplice benda le raccoglie i capelli scomposti. Molti chiedono la sua mano, ma essa respinge i pretendenti e decisa a restare senza marito gira per il folto dei boschi e non le interessa sapere che cosa siano le nozze, l’amore, il connubio. Spesso il padre le dice: «Figliola, mi devi un genero»; spesso il padre le dice: «Figliola, mi devi dei nipoti». Lei, detestando come un delitto il matrimonio e la fiaccolata nuziale, col volto acceso da un verecondo rossore, si aggrappa con tenerezza al collo del padre e risponde: «Concedimi, carissimo genitore, di godere di una perpetua verginità. A Diana suo padre glielo ha concesso.»

E il padre, in verità acconsentirebbe. Ma è questa tua bellezza, o Dafne, che non permette che tu rimanga come tu vorresti, il tuo bell’aspetto non si concilia col tuo desiderio.

Febo è innamorato; ha visto Dafne e brama di unirsi a lei, e in quello che brama ci spera, benché si sbagli, proprio lui che è il dio degli oracoli. E come, levate le spighe, si bruciano le fragili stoppie, come le siepi si incendiano se per caso un viandante accosta troppo una torcia, o magari la butta stando ormai per far giorno, così il dio prende fuoco, così arde dappertutto nel petto, e alimenta con la speranza uno sterile amore. Guarda i capelli che le scendono scompigliati sul collo, e dice: «Pensa se li pettinasse!» Vede gli occhi che sfavillano simili a stelle, vede la boccuccia e non si stanca mai di contemplarla; loda le dita e le mani e gli avambracci e le braccia nude più che per metà; se qualche cosa è nascosta, immagina sia ancora meglio. Lei fugge, più svelta di un venticello leggero, e non si arresta quando lui cerca di trattenerla con queste parole:

«Ninfa, ti prego, figlia di Peneo, fermati! Non t’inseguo per farti del male. Aspetta, ninfa! Così l’agnella davanti al lupo, così la cerva davanti al leone, così le colombe con le ali trepidanti fuggono davanti all’aquila: così ciascuna davanti al suo nemico. Ma io t’inseguo per amore! Povero me, ho paura che tu inciampi e cada, o che i rovi ti graffino le gambe che non lo meritano, e che tu ti faccia male per colpa mia. Sono impervi, i luoghi per i quali vai così in fretta. Corri più adagio, ti prego, e rallenta la fuga! Anch’io ti seguirò più adagio. Rifletti però a chi è che piaci! Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; non sto qui a fare il rozzo guardiano di mandrie e di greggi. Non sai, sciocca, non sai chi fuggi, e per questo fuggi. Io sono il signore della terra di Delfi, e di Claro e di Tènedo e della regale Pàtara. Giove è mio padre! Io sono colui che rivela il futuro, il passato e il presente, sono colui che accorda il canto al suono della cetra. La mia freccia è infallibile, s’; una però è stata più infallibile della mia, quella che ha ferito il cuore sgombro. La medicina l’ho inventata io, e in tutto il mondo mi chiamano guaritore ed ho in mano i poteri delle erbe. Ahimè, però, che non c’è erba che guarisca l’amore, e la scienza che giova a tutti non giova al suo signore!»

Avrebbe detto di più, ma la figlia di Peneo continuò a scappare impaurita, lasciandolo lì col suo discorso a metà. Anche allora era bella vedersi. Il vento le denudava le membra, venendole incontro faceva vibrare la veste sospinta in avanti, e col suo soffio lieve le mandava indietro i capelli, sì che la bellezza era accresciuta da quella fuga.

Ma ormai il giovane dio non ha più la pazienza di perdersi in lusinghe, e come lo spinge a fare appunto l’amore, si mette a incalzarla da presso. Come quando un cane di Gallia scorge una lepre in un campo aperto, e scattano, uno per ghermire, l’altra per salvarsi, quello sembra già addosso, e già è quasi convinto di aver preso, e tallona col muso proteso, quella non sa se è già presa e fugge ai morsi all’ultimo istante, distanziando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla, lui veloce per bramosia, lei per paura. L’inseguitore però, aiutato dalle ali dell’amore, corre di più e non dà tregua ed è alle spalle della fuggitiva, ansimandole sui capelli sparsi sul collo. Stremata essa alla fine impallidisce, e vinta dalla fatica di quella corsa disperata, rivolta alle acque del fiume Peneo: «Aiutami padre – dice. – Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, trasformandola, questa figura per la quale son troppo piaciuta!»

Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato tra pigre radici, il volto svanisce in una cima. Conserva solo la lucentezza.

Anche così Febo la ama, e poggiata la mano sul tronco sente il petto trepidante ancora sotto la corteccia fresca, e stringe fra le sue braccia i rami, come fossero membra, e bacia il legno, ma il legno si sottrae ai suoi baci. E allora dice: «Poiché non puoi essere mia moglie, sarai almeno il mio albero. O alloro, sempre io ti porterò sulla mia chioma, sulla mia cetra, sulla mia faretra. Tu sarai con i condottieri latini quando liete voci intoneranno il canto del trionfo e il Campidoglio vedrà lunghi cortei. Tu starai pure, fedelissimo custode, ai lati della porta della dimora di Augusto, a guardia della corona di foglie di quercia. E come il mio capo è sempre giovanile con la chioma intensa, anche tu porta sempre, senza mai perderlo, l’ornamento delle fronde!»

Qui Febo tacque. L’alloro annuì coi rami appena formati, e agitò la cima, quasi assentisse col capo.   

 

 

John William Waterhouse, Apollo e Dafne (1908), collezione privata.

John William Waterhouse 1849 – 1917) è noto principalmente per i suoi soggetti mitologici e per le protagoniste femminili dei suoi dipinti, personificazioni di bellezza o donne fatali. Fu un pittore sostanzialmente simbolista e appartenente al movimento dei preraffaelliti.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

Cricco – Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Vol. II, 2012, Zanichelli, Bologna.

Ovidio, Metamorfosi (a cura di Pietro Bernardini Marzolla),2015, Giulio Einaudi Editore s. p. a., Torino.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI COME TESTO CRITICO AGGIUNTIVO MA OPZIONALE AL MANUALE IN USO). 

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

 

 

 

 

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