(Apollo
e Dafne è una delle quattro sculture commissionate a Bernini dal Cardinale
Scipione Borghese, raffinato collezionista di opere d’arte; le altre sono: Enea e Anchise, Ratto di Proserpina e David.)
ANALISI STILISTICA
Nel gruppo marmoreo Apollo e Dafne, soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, Gian Lorenzo Bernini fissa in modo
inequivocabile, i punti fondamentali del suo stile, straordinariamente
innovativo, in cui i modelli e i temi classici in generale sono reinterpretati
con assoluta libertà e fantasia.
Tali prerogative permettono all’artista, il gran
Michelangelo del suo tempo, di realizzare un inedito sviluppo compositivo,
in cui l’ideale di bellezza è raggiunto nell’armonia complessiva della bella
forma, intesa in senso strettamente classicista, che si fonde con un accentuato
senso del movimento e una ricercata eleganza dei gesti. È quello stile che
caratterizzerà il Seicento e che verrà successivamente chiamato barocco, inteso
come bizzarro, con significato
spregiativo evidentemente. Anche se Bernini, come il Cortona e il Reni, come il
Borromini del resto, non sapevano affatto di essere artefici barocchi.
In Apollo e Dafne, Bernini sceglie il momento fatale in cui la ninfa,
inseguita dal profetico dio della musica, si sta trasformando in albero di alloro,
per volere stesso di Dafne, e ad opera di suo padre, il dio fluviale Pèneo, per
non soccombere all’odiato spasimante.
La metamorfosi si sta compiendo,
le mani e i capelli della bellissima fanciulla, colta in un’espressione di
dolore, si stanno trasformando in fronde, mentre le spuntano radici dai piedi e
la corteccia inizia ad avvolgere il suo bellissimo corpo. Dafne è stata ormai
raggiunta dal suo spasimante, che corre ancora e che la l’afferra in vita con
una mano in una espressione di meraviglia, nel vedere la sua bramata fanciulla
terminare la sua corsa in un moto attorcigliante in cui le braccia si levano in
alto come rami e le radici ai piedi la stanno piantando alla terra, sotto
l’impulso del sortilegio che si sta compiendo.
Le due figure, spinte in avanti,
sono sospese in due posture sapientemente correlate, in un esatto e armonico
sincronismo dei movimenti, elegantemente fluttuanti nello spazio, in un forte
effetto di complessiva e raffinata coreografia, che richiama alla mente una
garbata movenza di danza, che offre all’osservatore una spettacolare
equivalenza di punti di vista, in una consapevole narrazione favolistica.
“Il modellato fluido e fremente
fa sentire, insieme con i corpi, la luce e l’aria che li bagnano: la nostra
immaginazione, guidata, ricompone il luogo, l’ora del fatto; si muove in quello
spazio e in quel tempo mitici, dove alche il movimento diventa ritmo di danza”
(Argan).
CONCLUSIONI.
L’Apollo e Dafne di Bernini ha una
concreta affinità stilistica con Atalanta
e Ippomene di Guido Reni. In entrambe le opere, di colto soggetto
mitologico, l’una dipinta e l’altra scolpita, risplende evidente il risultato
di una esegesi in senso dinamico e scenico del classicismo e dell’ellenismo.
Entrambi sono gli interpreti di quello stile nuovo, erudito e sicuramente
aulico, che verrà in seguito chiamato banalmente barocco. In senso alquanto spregiativo, ovviamente, come ho già
detto. Cosa questa ordinaria nella valutazione a posteriori delle opere d’arte, osservate alla luce di tempi ed
estetiche completamente differenti.
Nel
Seicento il cosiddetto barocco fu la tendenza dominante. Vi fu in realtà un
impeto di rinnovamento, che coinvolse tutte le arti, architettura pittura e
scultura, sfociato in molti casi in trionfale retorica. Ma per il resto il
Seicento fu un secolo lungo e complesso di fioritura artistica, come il
Quattrocento e il Cinquecento. Nel caso di Roma, tanto per fare un esempio, si
pensi al piano urbanistico voluto da Sisto V sul finire del Cinquecento, che
inaugurò tutta una serie di ammirevoli realizzazioni, che continuò con i suoi
successori, fino al tempo di Urbano VIII e pure oltre, con l’arrivo in città di
riconosciuti maestri d’ogni parte d’Italia e persino d’oltralpe.
Il
controverso secolo barocco fu in realtà un periodo di considerevoli invenzioni
artistiche, non inferiori a quelle di periodi precedenti, che vide all’opera
artefici come Poussin, i Carracci, Caravaggio, Rembrandt, Rubens, Vermeer, lo
stesso Reni, Bernini, Borromini, Cortona, Velázquez, solo per fare qualche
nome. Tutti singolari interpreti del loro tempo. Barocchi cosiddetti,
classicisti e naturalisti antibarocchi, non fa differenza.
La triste storia di APOLLO e DAFNE
(Testo tratto da: Ovidio, Metamorfosi,
2015, Giulio Einaudi Editore s. p. a., Torino)
Il primo amore di
Febo fu Dafne, figlia di Peneo: amore non dovuto a caso fortuito, ma all’ira
crudele di Cupido. Ancora tutto insuperbito per aver vinto il serpente, il dio
di Delo aveva visto Cupido che piegava l’arco per agganciare la corda ai due
estremi e gli aveva detto: «Che cosa vuoi fare,
fanciullo smorfioso, con armi così grosse? Questa è roba che sta bene sulle
spalle a me, a me che so assestare colpi infallibili alle belve, ai nemici, a
me che poco fa che con infinite frecce ho steso il gonfio serpente, il quale
col suo ventre pestifero spianava il suolo per tante miglia! Tu accontentati di
fomentare con la tua fiaccola qualche amoruccio, e non competere con le mie
prodezze!»
Il figlio di
Venere gli rispose: «Il tuo arco trafiggerà tutto, o Febo, ma il mio trafigge
te, e quando gli esseri terreni, tutti, sono inferiori a un dio, tanto minore è
la tua gloria rispetto alla mia.»
Così disse, e
svelto solcò l’aria sbattendo le ali, si fermò sulla cima ombrosa del Parnaso,
e dalla faretra estrasse due frecce di opposto potere: l’una scaccia, l’altra
suscita amore. Quella che lo suscita è dorata e ha la punta aguzza e
splendente; quella che lo scaccia è spuntata e dentro l’asta ha del piombo. Con
questa il dio trafisse la figlia di Peneo, mentre con l’altra colpì Apollo
trapassandogli le ossa del midollo.
Subito lui
s’innamora, lei invece non vuol neppure sentire la parola «amore» e gode del
buio dei boschi e delle spoglie degli animali selvatici che prende, emula della
vergine Diana: una semplice benda le raccoglie i capelli scomposti. Molti
chiedono la sua mano, ma essa respinge i pretendenti e decisa a restare senza
marito gira per il folto dei boschi e non le interessa sapere che cosa siano le
nozze, l’amore, il connubio. Spesso il padre le dice: «Figliola, mi devi un
genero»; spesso il padre le dice: «Figliola, mi devi dei nipoti». Lei,
detestando come un delitto il matrimonio e la fiaccolata nuziale, col volto
acceso da un verecondo rossore, si aggrappa con tenerezza al collo del padre e
risponde: «Concedimi, carissimo genitore, di godere di una perpetua verginità.
A Diana suo padre glielo ha concesso.»
E il padre, in
verità acconsentirebbe. Ma è questa tua bellezza, o Dafne, che non permette che
tu rimanga come tu vorresti, il tuo bell’aspetto non si concilia col tuo
desiderio.
Febo è innamorato;
ha visto Dafne e brama di unirsi a lei, e in quello che brama ci spera, benché
si sbagli, proprio lui che è il dio degli oracoli. E come, levate le spighe, si
bruciano le fragili stoppie, come le siepi si incendiano se per caso un
viandante accosta troppo una torcia, o magari la butta stando ormai per far
giorno, così il dio prende fuoco, così arde dappertutto nel petto, e alimenta
con la speranza uno sterile amore. Guarda i capelli che le scendono
scompigliati sul collo, e dice: «Pensa se li pettinasse!» Vede gli occhi che
sfavillano simili a stelle, vede la boccuccia e non si stanca mai di
contemplarla; loda le dita e le mani e gli avambracci e le braccia nude più che
per metà; se qualche cosa è nascosta, immagina sia ancora meglio. Lei fugge,
più svelta di un venticello leggero, e non si arresta quando lui cerca di
trattenerla con queste parole:
«Ninfa, ti prego,
figlia di Peneo, fermati! Non t’inseguo per farti del male. Aspetta, ninfa!
Così l’agnella davanti al lupo, così la cerva davanti al leone, così le colombe
con le ali trepidanti fuggono davanti all’aquila: così ciascuna davanti al suo
nemico. Ma io t’inseguo per amore! Povero me, ho paura che tu inciampi e cada, o
che i rovi ti graffino le gambe che non lo meritano, e che tu ti faccia male
per colpa mia. Sono impervi, i luoghi per i quali vai così in fretta. Corri più
adagio, ti prego, e rallenta la fuga! Anch’io ti seguirò più adagio. Rifletti
però a chi è che piaci! Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; non sto
qui a fare il rozzo guardiano di mandrie e di greggi. Non sai, sciocca, non sai
chi fuggi, e per questo fuggi. Io sono il signore della terra di Delfi, e di
Claro e di Tènedo e della regale Pàtara. Giove è mio padre! Io sono colui che
rivela il futuro, il passato e il presente, sono colui che accorda il canto al
suono della cetra. La mia freccia è infallibile, s’; una però è stata più
infallibile della mia, quella che ha ferito il cuore sgombro. La medicina l’ho
inventata io, e in tutto il mondo mi chiamano guaritore ed ho in mano i poteri
delle erbe. Ahimè, però, che non c’è erba che guarisca l’amore, e la scienza
che giova a tutti non giova al suo signore!»
Avrebbe detto di
più, ma la figlia di Peneo continuò a scappare impaurita, lasciandolo lì col
suo discorso a metà. Anche allora era bella vedersi. Il vento le denudava le
membra, venendole incontro faceva vibrare la veste sospinta in avanti, e col
suo soffio lieve le mandava indietro i capelli, sì che la bellezza era
accresciuta da quella fuga.
Ma ormai il
giovane dio non ha più la pazienza di perdersi in lusinghe, e come lo spinge a
fare appunto l’amore, si mette a incalzarla da presso. Come quando un cane di
Gallia scorge una lepre in un campo aperto, e scattano, uno per ghermire,
l’altra per salvarsi, quello sembra già addosso, e già è quasi convinto di aver
preso, e tallona col muso proteso, quella non sa se è già presa e fugge ai
morsi all’ultimo istante, distanziando la bocca che la sfiora: così il dio e la
fanciulla, lui veloce per bramosia, lei per paura. L’inseguitore però, aiutato
dalle ali dell’amore, corre di più e non dà tregua ed è alle spalle della
fuggitiva, ansimandole sui capelli sparsi sul collo. Stremata essa alla fine
impallidisce, e vinta dalla fatica di quella corsa disperata, rivolta alle
acque del fiume Peneo: «Aiutami padre – dice. – Se voi fiumi avete qualche
potere, dissolvi, trasformandola, questa figura per la quale son troppo
piaciuta!»
Ha appena finito
questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto
si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in
rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato tra pigre radici, il
volto svanisce in una cima. Conserva solo la lucentezza.
Anche così Febo la
ama, e poggiata la mano sul tronco sente il petto trepidante ancora sotto la
corteccia fresca, e stringe fra le sue braccia i rami, come fossero membra, e
bacia il legno, ma il legno si sottrae ai suoi baci. E allora dice: «Poiché non
puoi essere mia moglie, sarai almeno il mio albero. O alloro, sempre io ti
porterò sulla mia chioma, sulla mia cetra, sulla mia faretra. Tu sarai con i
condottieri latini quando liete voci intoneranno il canto del trionfo e il
Campidoglio vedrà lunghi cortei. Tu starai pure, fedelissimo custode, ai lati
della porta della dimora di Augusto, a guardia della corona di foglie di
quercia. E come il mio capo è sempre giovanile con la chioma intensa, anche tu
porta sempre, senza mai perderlo, l’ornamento delle fronde!»
Qui Febo tacque.
L’alloro annuì coi rami appena formati, e agitò la cima, quasi assentisse col
capo.
John William Waterhouse, Apollo
e Dafne (1908), collezione privata.
John William Waterhouse 1849 – 1917)
è noto principalmente per i suoi soggetti mitologici e per le protagoniste
femminili dei suoi dipinti, personificazioni di bellezza o donne fatali. Fu un
pittore sostanzialmente simbolista e appartenente al movimento dei
preraffaelliti.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE:
G. C.
Argan, Storia dell’arte italiana, Vol.
3°, 1993, Sansoni, Milano.
Cricco –
Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Vol.
II, 2012, Zanichelli, Bologna.
Ovidio, Metamorfosi (a cura di Pietro Bernardini
Marzolla),2015, Giulio Einaudi Editore s. p. a., Torino.
IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI COME TESTO CRITICO AGGIUNTIVO MA OPZIONALE AL MANUALE IN USO).
© G. LUCIO FRAGNOLI
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