Nicolas Poussin
(1594-1665), Trionfo di Flora
(1627,
olio su tela, 165 x 241 cm) Parigi, Museo del Luovre.
Nel Trionfo di Flora, Poussin elabora, in una grandiosa immagine, un
insieme di temi desunti da Le Metamorfosi
di Ovidio. Il maestro del classicismo francese fa sfilare, in un universo
dominato dalla bellezza, una rassegna di semidei che si muovono elegantemente,
sullo sfondo di una natura fiorita. I vari personaggi del mito diventano così
una sorta di attributo di Flora.
Federico
Zeri (1921-1998)
(Cento dipinti, Poussin, Trionfo di Flora, R.C.S. Rizzoli
Periodici, Milano, 1999.)
DESCRIZIONE
DELL’OPERA.
Ordinato
dal cardinale Sacchetti, il quadro fu realizzato nel 1627, e fu, molto
probabilmente, il pendant del Trionfo di Bacco del Cortona. In un
secondo momento passò nelle mani del cardinale Omodei, ed infine, nel 1684, ne
divenne proprietario Luigi XIV.
Con
un cromatismo ricco e vivace, che ricorda i grandi maestri veneziani – Tiziano soprattutto – Poussin rappresenta
Flora in trionfo su un carro dorato, trainato senza alcuno sforzo da due
fanciulli alati e imbellettati di coroncine di fiori intorno al petto e al capo.
Nella dilettevole consapevolezza di una rappresentazione del tutto favolistica,
Poussin inventa un pomposo corteo, ove la dea della lietezza e della primavera,
seduta in trono sul carro, è scortata da due graziosi amorini che la seguono a
piedi. Uno di essi, guardando all’insù, porge un cesto ripieno di petali
variopinti verso la bellissima divinità del rigenerarsi della natura, l’altro
si china a raccogliere fiori. Frattanto uno degli altri due amorini sospesi
nell’aria le cinge la testa con una corona. La dea, colta in una posa assai
aggraziata, con le braccia aperte, volge lo sguardo verso Aiace in armatura che
le offre i fiori riposti nello scudo, come pure il nudo Narciso, che precede
una leggiadra fanciulla con un canestro di fiori sul capo, le offre i fiori che
portano il suo nome.
Ma
nella fantasmagorica sfilata di personaggi, tra due amorini che le camminano di
fianco e di due altri che la seguono, innanzi a tutti avanza Venere, coronata
di rose bianche e rosse, con passo leggero, quasi danzante, sollevandosi le
vesti. La segue il suo Adone, pure coronato di fiori, il quale porta una cesta
di anemoni rossi, donandone alcuni a Giacinto, il quale si china verso un
amorino, che gli avvolge i capelli di giacinti azzurri.
Alle
loro spalle gioiose ninfe procedono ondeggiando, festeggiando come tutti gli
altri l’apoteosi di Flora, a cui una coppia di giovani seduti in terra, l’uno
nell’altro, in primissimo piano, assiste compiaciuta. Mentre davanti a loro,
messa sempre in primissimo piano, una leggiadra fanciulla, partecipa alla festa
cogliendo fiori.
Nella
straordinaria messinscena pittorica, acquista grande significato la sapiente
ambientazione in un primordiale ed idilliaco scorcio naturale, perfettamente
organizzato in rapporto alla briosa e affollata parata di personaggi, in cui è
impresso un efficace senso di moto e un bell’effetto di profondità.
La
luce è quella del mattino, che si propaga in un cielo splendente, penetrando
una coltre fantasiosa quanto suggestiva di vaporose nuvole, ben accordate con
il fitto e cotonato fogliame delle piante in secondo piano, appena dietro il
transito del codazzo.
CONSIDERAZIONI
STILISTICHE.
Il
dipinto, da un punto di vista strettamente stilistico, presenta un colorismo luminoso
ed esuberante, ma bilanciato, con le tinte che si alternano ritmicamente,
specialmente quelle dei panneggi, sempre ben modulati, per dare slancio e
volume ai corpi che avvolgono, con perfetto assorbimento della luce.
Il
contesto scenico, invece, è diviso in due parti: la prima è costituita dallo
scorcio che si ferma agli alberi frondosi dai fusti intrecciati, dentro cui
godono i personaggi, risolta con una gradevole gamma di tinte sfavillanti per i
panneggi e con toni chiari e luminosi per gli incarnati;
la
seconda è lo sfondo, il luminoso paesaggio di fantasia, realizzato in
prospettiva aerea, dal cielo vivamente rannuvolato, da dove sorge la luce, in
un effetto di discreta estensione spaziale.
La
struttura disegnativa risente della nuova interpretazione in senso dinamico dei
modelli classici, con la disposizione movimentata ma bilanciata dei personaggi
nella scena e nello spazio del quadro, con corporeità classicheggianti e
varietà di atteggiamenti, sempre funzionali al racconto pittorico,
perfettamente animati in funzione duplice: per il personaggio in sé e per
l’insieme dei personaggi. Questa attenzione disegnativa ha certamente per scopo
il raggiungimento di un’armonia complessiva dell’immagine in senso
squisitamente classicheggiante, ove tutto si deve corrispondere esattamente.
Nicolas
Poussin, a dispetto di come banalmente viene inventariato il suo secolo, è un
artista esclusivamente classico, un continuatore dell’ideale che fu di
Raffaello, alimentato però da una colta interpretazione del repertorio
mitologico e dei temi sacri. Vi è sempre in Poussin un’accurata ricerca
disegnativa di modelli anatomici e gestuali ideali, buoni per i temi sacri
quanto per i mitologici. Cosicché nel tema sacro sa esprimere il vero senso
dell’esistenza secondo le sacre scritture, come nel mito riesce ogni volta ad
esprimere il senso della favola, metafora paradossale e giocosa tra il
promiscuo intreccio tra divino e profano.
Una
tale studiata visione pittorica è tornata utile per il movimento rinnovatore
del Neoclassicismo, quando, rinnegata la capricciosità e la vacuità
illusionistica del tardo barocco e del roccocò, gli artefici del vero stile sono andati alla ricerca di
maestri di riferimento, trovando in Poussin un luminosissimo faro per definire
la loro rotta.
IL COMMENTO DEL BELLORI
(Da Le vite de’ pittori scultori et
architetti moderni, Roma, 1672).
IL
TRIONFO DI FLORA.
Segue il trionfo di Flora, la
quale assisa sul carro d’oro, vien seguita da gli Amorini, per concessione di
Venere, che accompagna il trionfo. Due giovinetti alati con serti di fiori al
petto tirano il carro, e su nell’aria un Amoretto incorona la Dea, Regina della
dolce Primavera, mentre scherzano li compagni in terra presso le ruote, con
panieri di fiori, celebrando la stagione lieta, e gioconda atta a gli amori.
Volgesi flora verso Aiace, e Narciso che a lei offeriscono tributo: Aiace
armato le porge nello scudo i propri fiori, Narciso giovinetto ignudo le
appresenta i suoi candidi narcisi. Avanti il carro prima di tutte va danzando
Venere con gli Amori coronata di bianche e di vermiglie rose tinte del suo sangue;
e qui l’ilarità della pittura fa obliare il duolo a Venere, accompagnata di
nuovo dal suo caro Adone, che la segue inghirlandato: con una mano egli tiene
un paniere dei suoi anemoni purpurei, e con l’altra, ne dona alquanti a
Giacinto inclinato ad un Amoretto, che lega alle sue chiome una corona di
cerulei fiori, che sono i nostri giacinti. Vi sono altre figure ignude a
sedere, altre in capo, e nelle mani portano panieri e serti, che danno
compimento all’immagine dipinta nei primi tempi per l’Eminentissimo Signore
Cardinale Aluigi Amodei.
BREVI
NOTE BIOGRAFICHE SU NICOLAS POUSSIN.
Nicolas
Pussin, di nobile famiglia, nasce a Les Andelys in Normandia. Studia a Parigi,
prima con Elle le Vieux e di Lallemand, poi a Fontainebleau.
Nel
1622 diviene amico del poeta Giovanbattista Marino, il quale lo invita a Roma.
Due
anni dopo Poussin è a Roma, dove conosce i cardinali Barberini e Sacchetti, e
Cassiano dal Pozzo, suo grande estimatore e mecenate. Nel 1625, muore il
Marino.
Tra
il 1626 e il 1630 dipinge il Martirio di
Sant’Erasmo, la Morte di Germanico,
la Peste di Azoth, il Regno di Flora. Nel 1631 sposa Anne Marie Dughet. Tra il 1636
e il 1640 lavora ai Baccanali,
commissionati da Richelieu, e ai Sette
Sacramenti, commissionati dal Cassiano, completando il Battesimo soltanto nel 1642.
Nel
1640 torna in Francia, su insistenza del re. Nel 1642 è di nuovo a Roma, da
dove non si muoverà più, anche lavorando per committenti francesi e per il re.
Nel
1644, per Chantelou, inizia il secondo ciclo dei Sette Sacramenti.
Tra
il 1645 e il 1648 esegue molti dipinti importantissimi, come i paesaggi
storico-filosofici. Tra il 1649 e il 1656 produce moltissime celebri tele. È il
periodo della maturità. Nel 1657 muore Cassiano dal Pozzo. Nel 1658 si ammala di
un fastidiosissimo morbo, nonostante il quale riesce a dipingere fondamentali
capolavori. Nel 1664 muore la moglie. Il 19 novembre del 1665 il grande artista
muore.
DIZIONARIO
MITOLOGICO.
FLORA. Antichissima divinità italica
della primavera, dei fiori, della gioventù, protettrice – insieme a Giunone
Lucina – delle partorienti. Era insomma il simbolo delle forze nuove della
natura. Il culto di Flora era diffuso presso i Latini, gli Oschi e i Sabini.
Questi ultimi lo introdussero a Roma, e re Numa istituì un flamine (flamen Floralis) al suo culto. A Roma le
erano dedicati due templi, uno sul Quirinale e l’altro presso il Circo Massimo,
e le feste floreali che si celebravano in primavera, durante le quali si
facevano giochi nel Circo Massimo, si adornavano le case con fiori e il popolo
vi partecipava con vesti variopinte e con il capo inghirlandato. Erano feste
alquanto libere; le fanciulle celebranti a un certo punto dovevano spogliarsi
nude.
Flora, che affettuosamente fu
chiamata mater, era generalmente raffigurata da una giovane donna col capo
coronato da fiori, ravvolta in una lunga veste, sulla quale cadeva un manto
carico di fiori, che la dea spargeva intorno a sé.
(Tratto
da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita
Editori, La Spezia, 1994.)
ADONE. Personaggio della mitologia
greca, benché, come lo dimostra il nome (adonai = signore) di origine semitica.
Adone è un giovane bellissimo intorno alla cui discendenza la tradizione è
assai discorde (…) Ovidio e molti altri come lui lo dice figlio incestuoso del
re Ciniro e di sua figlia Mirra. (…)
Fattosi adulto Adone divenne gran
cacciatore e destò una viva passione, la prima che ella mai provasse, in
Venere, ferita anch’essa a tradimento, dal suo petulante e malizioso figliolo
Amore. Quando Marte s’accorse d’avere un così pericoloso rivale, volle
vendicarsi di lui; e, prese le forme di un cinghiale, si avventò sopra Adone e
l’uccise. Venere, accorsa alla notizia, pianse tutte le sue lacrime, e tramutò
in anemone il suo bramato il quale, disceso poi nell’Ade, innamorò della sua
bellezza Proserpina. E così, quando Venere ebbe impetrato da Giove che Adone
fosse richiamato in vita, la regina dei morti si rifiutò di renderlo.
Finalmente, per consiglio della musa Calliope, fu convenuto fra le due
competitrici che il bellissimo dovesse trascorrere, con alterna vicenda, sei
mesi in terra e sei mesi nell’Ade; ma siccome, alla fine dei sei mesi, Venere
non osservò i patti, dovette intervenire, di nuovo, Giove, per metter pace tra
le due rivali. Egli stabilì allora che Adone dovesse esser libero – forse per
riposare – quattro mesi all’anno: e quattro ne passasse con Venere e gli altri
quattro con Proserpina. (…)
NARCISO. Figlio del dio fluviale Cefìso
e della ninfa Lirìope, una delle Oceanine, fu meravigliosamente bello, secondo
la leggenda, ma senza saperlo. La madre, avendo consultato l’indovino Tirèsia
sul destino di lui, ne ebbe questa ambigua risposta, ch’egli sarebbe vissuto
finché non si conoscesse. (…)
Narciso, che non si era mai
veduto, vinto dall’ammirazione per l’immagina riflessa (nell’acqua limpida di una fonte, n.d.r.), non trovò più la forza di
staccarsene, e morì consunto dal più ridicolo e vano amore, mutato dalla dea
vendicatrice nel fiore che conserva il suo nome (…).
(Tratto
da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita
Editori, La Spezia, 1994.)
GIACINTO. Figlio di re Àmicle, re di
Sparta, e di Diomeda, per la sua straordinaria bellezza fu amato
appassionatamente da Apollo e da Zèfiro il quale, geloso, un giorno che Apollo
e Giacinto giocavano insieme al lancio del disco, fece maliziosamente deviare
il disco d’Apollo in modo che colpisse il capo del compagno, uccidendolo.
Apollo non seoppe mai darsi pace della propria fatale imprudenza; e, per
rendere immortale il nome dell’amico perduto, lo convertì nel fiore delicato
che ne porta il nome.
(Tratto
da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita
Editori, La Spezia, 1994.)
VENERE,
o Afrodite, il cui nome deriva da aphor,
schiuma, con il chiaro riferimento alla sua nascita dalla schiuma del mare, è
la divinità greca dell’amore, identificata in seguito nella mitologia romana
come Venere. Ma la sua origine èindubbiamente fenicio-babilonese. Infatti, come
ci informa Erotodo, il primo santuario della dea Afrodite Urania era situato ad Ascalona in Fenicia, prima che a
Cipro, ove ne localizza la nascita e l’appartenenza Omero ed Esiodo, il quale
narra che la dea sarebbe nata nelle acque prospicienti l’isola.
Nell’area del Mediterraneo
occidente, il luogo di culto più importante della dea era sicuramente il
santuario punico di Tanit, dea
dell’amore e protettrice di Cartagine, cui si sacrificavano fanciulli. Esso si
trovava sul monte Erice in Sicilia.
Nel tempio si praticavano riti di fecondità e la prostituzione sacra. Dalla
Sicilia il culto della dea si diffuse fino a Roma, ove veniva adorata con il
nome di Venus Erycina.
In Grecia Afrodite, da dea
orientale della fecondità, si combina col culto di una antica divinità locale
legata piuttosto alla terra. In Omero Afrodite è figlia di Zeus e di Dione. Per Esiodo la dea appartiene completamente al
mondo greco. Infatti, egli racconta che Crono
recise il membro del dio del Cielo, Urano,
impegnato in un amplesso con la Terra. Il fallo mozzato, galleggiando sulle onde si
tramutò in candida spuma, da cui si generò la creatura divina.
Il racconto potrebbe continuare
coi versi di Omero (VI Inno):
…
La potenza di Zeffiro, l’umido stormitore,
duttile
la rapì dalle onde del mare che sempre scroscia.
Le
Ore dal diadema d’oro la ricoprirono di vesti
Immortali,
il capo le cinsero dal serto d’oro mirabilmente intrecciato…
Dove le Ore sono: Eunomia
(ordine), Dice (giustizia) e Irene (pace) sono figlie di Zeus e Temi ed erano preposte all’ordine della Natura nell’alternarsi
delle stagioni.
Giacché era nata dal mare,
Afrodite era venerata dai naviganti, non come Poseidone, ma come la divinità
che rende il mare calmo e navigabile. Ma Afrodite non tramuta bello e
tranquillo il mare soltanto, ma fa divenire bella e feconda anche la terra.
Ella, pertanto, è pure la dea della primavera e, come tale, sospinge all’amore,
venendo implicitamente associata al matrimonio, pur non rappresentando
propriamente l’unione coniugale, di cui è protettrice Giunone. Alla dea Afrodite,
o Venere, sono sacre il mirto, il melograno, la rosa, nonché la mela,
primordiale frutto dell’amore.
L’esatta iconografia della dea
corrisponde a quella di una fanciulla di straordinaria bellezza, col corpo
avvolto da rose e da ramoscelli di mirto, adagiata su di un carro trainato da
passeri, cigni e colombe. Ella è
fasciata da una cintola portentosa che rende irresistibilmente seducente
chiunque lo indossasse, dato che vi è intrecciato ogni incantesimo d’amore.
Afrodite è seguita dalle Grazie e dai geni della cupidigia e
della persuasione: Eros, Peito e Imeros. Come riferisce Esiodo, suoi erano il chiacchiericcio della fanciulla, l’inganno e la dolce voluttà,
l’amplesso e la carezza.
Afrodite è l’assoluta
personificazione della bellezza, cui Paride assegnò il famoso pomo lasciato
cadere dalla Discordia sulla mensa
nuziale di Peleo e Teti con sopra scritto “Alla
più bella”, prediligendola a Giunone e Minerva, seppur con la promessa
di avere in cambio l’amore di Elena.
Per imposizione di Zeus, Afrodite
sposò Vulcano, che tradì ben presto
con Marte da cui ebbe due figli: Eros (l’Amore) e Anteros (l’Amore corrisposto).
Oltre a Marte, molti altri dei
furono gli amanti di Afrodite: con Dionisio
ella concepì Imene e le Grazie, con Mercurio generò invece Ermafrodito,
ed anche da Poseidone avrebbe avuto
un figlio, Rodo, personificazione divina dell’isola di Rodi. Ma il suo amante
preferito fu Adone, che cadde
vittima della viscerale gelosia di Marte.
Da un suo abbraccio con l’ero troiano Anchise nacque il pio Enea,
nell’estensione romana delle sue gesta amorose. Ma Venere era anche considerata
dea della fortuna, tanto che se ne invocava spesso l’intervento benevolo nel
gioco dei dati.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE:
GIO.
PIETRO BELLORI, Le vite de’ pittori,
scultori et architetti moderni, Ristampa dell’edizione romana del 1672, A. Forni
Editore, S. Bolognese,1977.
FEDERICO
ZERI, Cento dipinti, Poussin, Trionfo di
Flora, R.C.S. Rizzoli Periodici, Milano, 1999.
IL
POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO
(DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.
©
G. LUCIO FRAGNOLI
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