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mercoledì 2 dicembre 2020

IL TRIONFO DI FLORA di NICOLAS POUSSIN

 

Nicolas Poussin (1594-1665), Trionfo di Flora (1627, olio su tela, 165 x 241 cm) Parigi, Museo del Luovre.

 

Nel Trionfo di Flora, Poussin elabora, in una grandiosa immagine, un insieme di temi desunti da Le Metamorfosi di Ovidio. Il maestro del classicismo francese fa sfilare, in un universo dominato dalla bellezza, una rassegna di semidei che si muovono elegantemente, sullo sfondo di una natura fiorita. I vari personaggi del mito diventano così una sorta di attributo di Flora.

Federico Zeri (1921-1998)

(Cento dipinti, Poussin, Trionfo di Flora, R.C.S. Rizzoli Periodici, Milano, 1999.)

 

 

DESCRIZIONE DELL’OPERA.

 

Ordinato dal cardinale Sacchetti, il quadro fu realizzato nel 1627, e fu, molto probabilmente, il pendant del Trionfo di Bacco del Cortona. In un secondo momento passò nelle mani del cardinale Omodei, ed infine, nel 1684, ne divenne proprietario Luigi XIV.

 

Con un cromatismo ricco e vivace, che ricorda i grandi maestri veneziani –  Tiziano soprattutto – Poussin rappresenta Flora in trionfo su un carro dorato, trainato senza alcuno sforzo da due fanciulli alati e imbellettati di coroncine di fiori intorno al petto e al capo. Nella dilettevole consapevolezza di una rappresentazione del tutto favolistica, Poussin inventa un pomposo corteo, ove la dea della lietezza e della primavera, seduta in trono sul carro, è scortata da due graziosi amorini che la seguono a piedi. Uno di essi, guardando all’insù, porge un cesto ripieno di petali variopinti verso la bellissima divinità del rigenerarsi della natura, l’altro si china a raccogliere fiori. Frattanto uno degli altri due amorini sospesi nell’aria le cinge la testa con una corona. La dea, colta in una posa assai aggraziata, con le braccia aperte, volge lo sguardo verso Aiace in armatura che le offre i fiori riposti nello scudo, come pure il nudo Narciso, che precede una leggiadra fanciulla con un canestro di fiori sul capo, le offre i fiori che portano il suo nome.

Ma nella fantasmagorica sfilata di personaggi, tra due amorini che le camminano di fianco e di due altri che la seguono, innanzi a tutti avanza Venere, coronata di rose bianche e rosse, con passo leggero, quasi danzante, sollevandosi le vesti. La segue il suo Adone, pure coronato di fiori, il quale porta una cesta di anemoni rossi, donandone alcuni a Giacinto, il quale si china verso un amorino, che gli avvolge i capelli di giacinti azzurri.

Alle loro spalle gioiose ninfe procedono ondeggiando, festeggiando come tutti gli altri l’apoteosi di Flora, a cui una coppia di giovani seduti in terra, l’uno nell’altro, in primissimo piano, assiste compiaciuta. Mentre davanti a loro, messa sempre in primissimo piano, una leggiadra fanciulla, partecipa alla festa cogliendo fiori.

Nella straordinaria messinscena pittorica, acquista grande significato la sapiente ambientazione in un primordiale ed idilliaco scorcio naturale, perfettamente organizzato in rapporto alla briosa e affollata parata di personaggi, in cui è impresso un efficace senso di moto e un bell’effetto di profondità.   

La luce è quella del mattino, che si propaga in un cielo splendente, penetrando una coltre fantasiosa quanto suggestiva di vaporose nuvole, ben accordate con il fitto e cotonato fogliame delle piante in secondo piano, appena dietro il transito del codazzo.

 

CONSIDERAZIONI STILISTICHE.

 

Il dipinto, da un punto di vista strettamente stilistico, presenta un colorismo luminoso ed esuberante, ma bilanciato, con le tinte che si alternano ritmicamente, specialmente quelle dei panneggi, sempre ben modulati, per dare slancio e volume ai corpi che avvolgono, con perfetto assorbimento della luce.

Il contesto scenico, invece, è diviso in due parti: la prima è costituita dallo scorcio che si ferma agli alberi frondosi dai fusti intrecciati, dentro cui godono i personaggi, risolta con una gradevole gamma di tinte sfavillanti per i panneggi e con toni chiari e luminosi per gli incarnati;

la seconda è lo sfondo, il luminoso paesaggio di fantasia, realizzato in prospettiva aerea, dal cielo vivamente rannuvolato, da dove sorge la luce, in un effetto di discreta estensione spaziale.

La struttura disegnativa risente della nuova interpretazione in senso dinamico dei modelli classici, con la disposizione movimentata ma bilanciata dei personaggi nella scena e nello spazio del quadro, con corporeità classicheggianti e varietà di atteggiamenti, sempre funzionali al racconto pittorico, perfettamente animati in funzione duplice: per il personaggio in sé e per l’insieme dei personaggi. Questa attenzione disegnativa ha certamente per scopo il raggiungimento di un’armonia complessiva dell’immagine in senso squisitamente classicheggiante, ove tutto si deve corrispondere esattamente.

Nicolas Poussin, a dispetto di come banalmente viene inventariato il suo secolo, è un artista esclusivamente classico, un continuatore dell’ideale che fu di Raffaello, alimentato però da una colta interpretazione del repertorio mitologico e dei temi sacri. Vi è sempre in Poussin un’accurata ricerca disegnativa di modelli anatomici e gestuali ideali, buoni per i temi sacri quanto per i mitologici. Cosicché nel tema sacro sa esprimere il vero senso dell’esistenza secondo le sacre scritture, come nel mito riesce ogni volta ad esprimere il senso della favola, metafora paradossale e giocosa tra il promiscuo intreccio tra divino e profano.    

Una tale studiata visione pittorica è tornata utile per il movimento rinnovatore del Neoclassicismo, quando, rinnegata la capricciosità e la vacuità illusionistica del tardo barocco e del roccocò, gli artefici del vero stile sono andati alla ricerca di maestri di riferimento, trovando in Poussin un luminosissimo faro per definire la loro rotta. 

 

 

IL COMMENTO DEL BELLORI

(Da Le vite de’ pittori scultori et architetti moderni, Roma, 1672).

 

IL TRIONFO DI FLORA.

 

Segue il trionfo di Flora, la quale assisa sul carro d’oro, vien seguita da gli Amorini, per concessione di Venere, che accompagna il trionfo. Due giovinetti alati con serti di fiori al petto tirano il carro, e su nell’aria un Amoretto incorona la Dea, Regina della dolce Primavera, mentre scherzano li compagni in terra presso le ruote, con panieri di fiori, celebrando la stagione lieta, e gioconda atta a gli amori. Volgesi flora verso Aiace, e Narciso che a lei offeriscono tributo: Aiace armato le porge nello scudo i propri fiori, Narciso giovinetto ignudo le appresenta i suoi candidi narcisi. Avanti il carro prima di tutte va danzando Venere con gli Amori coronata di bianche e di vermiglie rose tinte del suo sangue; e qui l’ilarità della pittura fa obliare il duolo a Venere, accompagnata di nuovo dal suo caro Adone, che la segue inghirlandato: con una mano egli tiene un paniere dei suoi anemoni purpurei, e con l’altra, ne dona alquanti a Giacinto inclinato ad un Amoretto, che lega alle sue chiome una corona di cerulei fiori, che sono i nostri giacinti. Vi sono altre figure ignude a sedere, altre in capo, e nelle mani portano panieri e serti, che danno compimento all’immagine dipinta nei primi tempi per l’Eminentissimo Signore Cardinale Aluigi Amodei.    

 

 

BREVI NOTE BIOGRAFICHE SU NICOLAS POUSSIN.

 

Nicolas Pussin, di nobile famiglia, nasce a Les Andelys in Normandia. Studia a Parigi, prima con Elle le Vieux e di Lallemand, poi a Fontainebleau.

Nel 1622 diviene amico del poeta Giovanbattista Marino, il quale lo invita a Roma.

Due anni dopo Poussin è a Roma, dove conosce i cardinali Barberini e Sacchetti, e Cassiano dal Pozzo, suo grande estimatore e mecenate. Nel 1625, muore il Marino.

Tra il 1626 e il 1630 dipinge il Martirio di Sant’Erasmo, la Morte di Germanico, la Peste di Azoth, il Regno di Flora.  Nel 1631 sposa Anne Marie Dughet. Tra il 1636 e il 1640 lavora ai Baccanali, commissionati da Richelieu, e ai Sette Sacramenti, commissionati dal Cassiano, completando il Battesimo soltanto nel 1642.

Nel 1640 torna in Francia, su insistenza del re. Nel 1642 è di nuovo a Roma, da dove non si muoverà più, anche lavorando per committenti francesi e per il re.

Nel 1644, per Chantelou, inizia il secondo ciclo dei Sette Sacramenti.

Tra il 1645 e il 1648 esegue molti dipinti importantissimi, come i paesaggi storico-filosofici. Tra il 1649 e il 1656 produce moltissime celebri tele. È il periodo della maturità. Nel 1657 muore Cassiano dal Pozzo. Nel 1658 si ammala di un fastidiosissimo morbo, nonostante il quale riesce a dipingere fondamentali capolavori. Nel 1664 muore la moglie. Il 19 novembre del 1665 il grande artista muore. 

 

DIZIONARIO MITOLOGICO.

 

FLORA. Antichissima divinità italica della primavera, dei fiori, della gioventù, protettrice – insieme a Giunone Lucina – delle partorienti. Era insomma il simbolo delle forze nuove della natura. Il culto di Flora era diffuso presso i Latini, gli Oschi e i Sabini. Questi ultimi lo introdussero a Roma, e re Numa istituì un flamine (flamen Floralis) al suo culto. A Roma le erano dedicati due templi, uno sul Quirinale e l’altro presso il Circo Massimo, e le feste floreali che si celebravano in primavera, durante le quali si facevano giochi nel Circo Massimo, si adornavano le case con fiori e il popolo vi partecipava con vesti variopinte e con il capo inghirlandato. Erano feste alquanto libere; le fanciulle celebranti a un certo punto dovevano spogliarsi nude.

Flora, che affettuosamente fu chiamata mater, era generalmente raffigurata da una giovane donna col capo coronato da fiori, ravvolta in una lunga veste, sulla quale cadeva un manto carico di fiori, che la dea spargeva intorno a sé. 

(Tratto da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1994.)

 

ADONE. Personaggio della mitologia greca, benché, come lo dimostra il nome (adonai = signore) di origine semitica. Adone è un giovane bellissimo intorno alla cui discendenza la tradizione è assai discorde (…) Ovidio e molti altri come lui lo dice figlio incestuoso del re Ciniro e di sua figlia Mirra. (…)

Fattosi adulto Adone divenne gran cacciatore e destò una viva passione, la prima che ella mai provasse, in Venere, ferita anch’essa a tradimento, dal suo petulante e malizioso figliolo Amore. Quando Marte s’accorse d’avere un così pericoloso rivale, volle vendicarsi di lui; e, prese le forme di un cinghiale, si avventò sopra Adone e l’uccise. Venere, accorsa alla notizia, pianse tutte le sue lacrime, e tramutò in anemone il suo bramato il quale, disceso poi nell’Ade, innamorò della sua bellezza Proserpina. E così, quando Venere ebbe impetrato da Giove che Adone fosse richiamato in vita, la regina dei morti si rifiutò di renderlo. Finalmente, per consiglio della musa Calliope, fu convenuto fra le due competitrici che il bellissimo dovesse trascorrere, con alterna vicenda, sei mesi in terra e sei mesi nell’Ade; ma siccome, alla fine dei sei mesi, Venere non osservò i patti, dovette intervenire, di nuovo, Giove, per metter pace tra le due rivali. Egli stabilì allora che Adone dovesse esser libero – forse per riposare – quattro mesi all’anno: e quattro ne passasse con Venere e gli altri quattro con Proserpina. (…)    

(Tratto da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1994.)

 

NARCISO. Figlio del dio fluviale Cefìso e della ninfa Lirìope, una delle Oceanine, fu meravigliosamente bello, secondo la leggenda, ma senza saperlo. La madre, avendo consultato l’indovino Tirèsia sul destino di lui, ne ebbe questa ambigua risposta, ch’egli sarebbe vissuto finché non si conoscesse. (…)

Narciso, che non si era mai veduto, vinto dall’ammirazione per l’immagina riflessa (nell’acqua limpida di una fonte, n.d.r.), non trovò più la forza di staccarsene, e morì consunto dal più ridicolo e vano amore, mutato dalla dea vendicatrice nel fiore che conserva il suo nome (…).

(Tratto da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1994.)

 

GIACINTO. Figlio di re Àmicle, re di Sparta, e di Diomeda, per la sua straordinaria bellezza fu amato appassionatamente da Apollo e da Zèfiro il quale, geloso, un giorno che Apollo e Giacinto giocavano insieme al lancio del disco, fece maliziosamente deviare il disco d’Apollo in modo che colpisse il capo del compagno, uccidendolo. Apollo non seoppe mai darsi pace della propria fatale imprudenza; e, per rendere immortale il nome dell’amico perduto, lo convertì nel fiore delicato che ne porta il nome.

(Tratto da: A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1994.)

 

VENERE, o Afrodite, il cui nome deriva da aphor, schiuma, con il chiaro riferimento alla sua nascita dalla schiuma del mare, è la divinità greca dell’amore, identificata in seguito nella mitologia romana come Venere. Ma la sua origine èindubbiamente fenicio-babilonese. Infatti, come ci informa Erotodo, il primo santuario della dea Afrodite Urania era situato ad Ascalona in Fenicia, prima che a Cipro, ove ne localizza la nascita e l’appartenenza Omero ed Esiodo, il quale narra che la dea sarebbe nata nelle acque prospicienti l’isola.    

Nell’area del Mediterraneo occidente, il luogo di culto più importante della dea era sicuramente il santuario punico di Tanit, dea dell’amore e protettrice di Cartagine, cui si sacrificavano fanciulli. Esso si trovava sul monte Erice in Sicilia. Nel tempio si praticavano riti di fecondità e la prostituzione sacra. Dalla Sicilia il culto della dea si diffuse fino a Roma, ove veniva adorata con il nome di Venus Erycina.

In Grecia Afrodite, da dea orientale della fecondità, si combina col culto di una antica divinità locale legata piuttosto alla terra. In Omero Afrodite è figlia di Zeus e di Dione.  Per Esiodo la dea appartiene completamente al mondo greco. Infatti, egli racconta che Crono recise il membro del dio del Cielo, Urano, impegnato in un amplesso con la Terra.  Il fallo mozzato, galleggiando sulle onde si tramutò in candida spuma, da cui si generò la creatura divina.

Il racconto potrebbe continuare coi versi di Omero (VI Inno):

 

… La potenza di Zeffiro, l’umido stormitore,

duttile la rapì dalle onde del mare che sempre scroscia.

Le Ore dal diadema d’oro la ricoprirono di vesti

Immortali, il capo le cinsero dal serto d’oro mirabilmente intrecciato…  

 

Dove le Ore sono: Eunomia (ordine), Dice (giustizia) e Irene (pace) sono figlie di Zeus e Temi ed erano preposte all’ordine della Natura nell’alternarsi delle stagioni.

Giacché era nata dal mare, Afrodite era venerata dai naviganti, non come Poseidone, ma come la divinità che rende il mare calmo e navigabile. Ma Afrodite non tramuta bello e tranquillo il mare soltanto, ma fa divenire bella e feconda anche la terra. Ella, pertanto, è pure la dea della primavera e, come tale, sospinge all’amore, venendo implicitamente associata al matrimonio, pur non rappresentando propriamente l’unione coniugale, di cui è protettrice Giunone.  Alla dea Afrodite, o Venere, sono sacre il mirto, il melograno, la rosa, nonché la mela, primordiale frutto dell’amore.

L’esatta iconografia della dea corrisponde a quella di una fanciulla di straordinaria bellezza, col corpo avvolto da rose e da ramoscelli di mirto, adagiata su di un carro trainato da passeri, cigni e colombe.  Ella è fasciata da una cintola portentosa che rende irresistibilmente seducente chiunque lo indossasse, dato che vi è intrecciato ogni incantesimo d’amore.

Afrodite è seguita dalle Grazie e dai geni della cupidigia e della persuasione: Eros, Peito e Imeros. Come riferisce Esiodo, suoi erano il chiacchiericcio della fanciulla, l’inganno e la dolce voluttà, l’amplesso e la carezza. 

Afrodite è l’assoluta personificazione della bellezza, cui Paride assegnò il famoso pomo lasciato cadere dalla Discordia sulla mensa nuziale di Peleo e Teti con sopra scritto “Alla più bella”, prediligendola a Giunone e Minerva, seppur con la promessa di avere in cambio l’amore di Elena.

Per imposizione di Zeus, Afrodite sposò Vulcano, che tradì ben presto con Marte da cui ebbe due figli: Eros (l’Amore) e Anteros (l’Amore corrisposto). 

Oltre a Marte, molti altri dei furono gli amanti di Afrodite: con Dionisio ella concepì Imene e le Grazie, con Mercurio generò invece Ermafrodito, ed anche da Poseidone avrebbe avuto un figlio, Rodo, personificazione divina dell’isola di Rodi. Ma il suo amante preferito fu Adone, che cadde vittima della viscerale gelosia di Marte.  Da un suo abbraccio con l’ero troiano Anchise nacque il pio Enea, nell’estensione romana delle sue gesta amorose. Ma Venere era anche considerata dea della fortuna, tanto che se ne invocava spesso l’intervento benevolo nel gioco dei dati.  

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

GIO. PIETRO BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Ristampa dell’edizione romana del 1672, A. Forni Editore, S. Bolognese,1977.

FEDERICO ZERI, Cento dipinti, Poussin, Trionfo di Flora, R.C.S. Rizzoli Periodici, Milano, 1999.

A. MORELLI, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1994.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.  

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

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