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mercoledì 2 dicembre 2020

ATELIER DEL PITTORE di GUSTAVE COURBET

 

Gustave Courbet, Atelier del pittore (1855); olio su tela (359 x 598) Parigi, Musée d’Orsay.

 

Tra le tele che Courbet dipinge per l’Esposizione Universale di Belle Arti del 1855, vi è l’Atelier del pittore, che viene scartato da una apposita giuria, incaricata di selezionare le opere migliori. In forte contrasto con gli organizzatori e con l’aiuto dell’appassionato e mecenate Bruyais, inaugura nella stessa strada ove ha luogo l’evento il Padiglione del Realismo. 

Contro i critici che si irritarono per la volgarità del soggetto, Delacroix nel suo diario commentò: “Ho scoperto un capolavoro nel suo dipinto rifiutato; non potevo staccarmi da quella vista… È stata rifiutata una delle opere più singolari di questo momento, ma un uomo coraggioso non si scoraggia per così poco.”

 

LETTURA DELL’OPERA

 

L’opera, cui Courbet stesso dà il lunghissimo titolo di Atelier del pittore, allegoria reale che determina una fase di sette anni della mia vita artistica, è realizzata in grandissimo formato, in chiara polemica con le gigantesche composizioni di artefici accademici del tempo, ispirate a spettacolose vicende storiche o mitologiche.

In essa il maestro si rappresenta all’interno di un vasto ambiente stinto e disadorno: il suo studio, ricavato in un vetusto granaio donatogli dal padre, in cui si affollano tutta una serie di personaggi. Egli è seduto davanti al cavalletto, intento a dipingere su un’ampia tela un paesaggio della natia Ornans. Accanto alla sua robusta figura vi sono quelle di una donna nuda e di un bambino malvestito, mentre ai suoi piedi un gatto bianco si stira pigro e sonnacchioso. La florida giovane svestita, che in un naturale istinto di pudore si copre il ventre con un largo panno bianco, simboleggia la verità, unica e veridica musa ispiratrice dell’artista, affermando così l’identità tra la pittura e la verità. Il ragazzetto che osserva, stupito e insieme incuriosito il pittore al lavoro, impersona invece la semplicità e il candore con cui ci si deve avvicinare alla verità.

Alla sinistra di chi osserva vi sono raffigurati tutta una serie di personaggi, che l’autore identifica come coloro che conducono un’esistenza banale, il popolo, la miseria, la povertà, la ricchezza, gli sfruttati, gli sfruttatori, le persone che vivono della morte altrui. Tra di essi si riconosce un bracconiere, un prete, un pagliaccio, un becchino, una prostituta, una popolana che allatta, un banchiere ebreo, un mendicante, un falciatore, cui si aggiunge un teschio sopra un giornale, un San Sebastiano, mesta metafora dell’arte accademica.

Alla sinistra del riguardante vi sono, all'opposto e stando a ciò che lo stesso artista spiega, la gente che mi aiuta e mi sostiene nella mia idea e partecipa alla mia azione: Baudelaire, emblema della Poesia, Proudhon che simboleggia la Filosofia sociale, Bouchon che personifica la Poesia realista, Promayet che rappresenta la musica, Champfleury, simbolo della Prosa, e Bruyas, Mecenate della pittura realista.

Il dipinto…

 

 

Quando nel 1861, all’apice della sua carriera artistica, venne chiesto a Courbet di fare un corso di pittura in uno studio parigino, a beneficio dei suoi allievi, egli fece scrivere sulle pareti quattro semplici regole da rispettare: I. Non fare ciò che faccio io. II. Non face quello che fanno gli altri. III. Anche se tu facessi quello che fece Raffaello, non esisteresti: è un suicidio. IV. Fai quello che vedi, che senti, che vuoi.  Ma ben presto Courbet, compresa l’inutilità della sua scuola, scrisse una lettera di congedo ai suoi allievi in cui annotò: “Non ci possono essere scuole, ci sono solo pittori.  

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.


© G. LUCIO FRAGNOLI

 

 

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