Gustave Courbet, Atelier del pittore
(1855); olio su tela (359 x 598) Parigi, Musée d’Orsay.
Tra le tele che
Courbet dipinge per l’Esposizione Universale di Belle Arti del 1855, vi è l’Atelier del pittore, che viene
scartato da una apposita giuria, incaricata di selezionare le opere migliori.
In forte contrasto con gli organizzatori e con l’aiuto dell’appassionato e
mecenate Bruyais, inaugura nella stessa strada ove ha luogo l’evento il
Padiglione del Realismo.
Contro i critici che
si irritarono per la volgarità del soggetto, Delacroix nel suo diario commentò:
“Ho scoperto un capolavoro nel suo
dipinto rifiutato; non potevo staccarmi da quella vista… È stata rifiutata una
delle opere più singolari di questo momento, ma un uomo coraggioso non si
scoraggia per così poco.”
LETTURA DELL’OPERA
L’opera, cui Courbet
stesso dà il lunghissimo titolo di Atelier del pittore, allegoria reale che
determina una fase di sette anni della mia vita artistica, è realizzata in
grandissimo formato, in chiara polemica con le gigantesche composizioni di artefici
accademici del tempo, ispirate a spettacolose vicende storiche o mitologiche.
In essa il maestro
si rappresenta all’interno di un vasto ambiente stinto e disadorno: il suo
studio, ricavato in un vetusto granaio donatogli dal padre, in cui si affollano
tutta una serie di personaggi. Egli è seduto davanti al cavalletto, intento a
dipingere su un’ampia tela un paesaggio della natia Ornans. Accanto alla sua robusta
figura vi sono quelle di una donna nuda e di un bambino malvestito, mentre ai
suoi piedi un gatto bianco si stira pigro e sonnacchioso. La florida giovane
svestita, che in un naturale istinto di pudore si copre il ventre con un largo
panno bianco, simboleggia la verità, unica e veridica musa ispiratrice
dell’artista, affermando così l’identità tra la pittura e la verità. Il
ragazzetto che osserva, stupito e insieme incuriosito il pittore al lavoro,
impersona invece la semplicità e il candore con cui ci si deve avvicinare alla
verità.
Alla sinistra di chi
osserva vi sono raffigurati tutta una serie di personaggi, che l’autore
identifica come coloro che conducono
un’esistenza banale, il popolo, la miseria, la povertà, la ricchezza, gli
sfruttati, gli sfruttatori, le persone che vivono della morte altrui. Tra
di essi si riconosce un bracconiere, un prete, un pagliaccio, un becchino, una
prostituta, una popolana che allatta, un banchiere ebreo, un mendicante, un
falciatore, cui si aggiunge un teschio sopra un giornale, un San Sebastiano, mesta
metafora dell’arte accademica.
Alla sinistra del
riguardante vi sono, all'opposto e stando a ciò che lo stesso artista spiega, la gente che mi aiuta e mi sostiene nella
mia idea e partecipa alla mia azione: Baudelaire, emblema della Poesia,
Proudhon che simboleggia la Filosofia sociale, Bouchon che personifica la
Poesia realista, Promayet che rappresenta la musica, Champfleury, simbolo della
Prosa, e Bruyas, Mecenate della pittura realista.
Il dipinto…
Quando nel 1861, all’apice
della sua carriera artistica, venne chiesto a Courbet di fare un corso di
pittura in uno studio parigino, a beneficio dei suoi allievi, egli fece
scrivere sulle pareti quattro semplici regole da rispettare: I. Non fare ciò che faccio io. II. Non face
quello che fanno gli altri. III. Anche se tu facessi quello che fece Raffaello,
non esisteresti: è un suicidio. IV. Fai quello che vedi, che senti, che vuoi. Ma ben presto Courbet, compresa l’inutilità
della sua scuola, scrisse una lettera di congedo ai suoi allievi in cui annotò:
“Non ci possono essere scuole, ci sono solo pittori.
IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.
© G. LUCIO FRAGNOLI
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