Guido Reni, Atalanta e
Ippomene (1618 – 1619, olio su tela, 206 x 297 cm.), Madrid, Museo del
Prado.
La pericolosa storia d’amore tra ATALANTA e IPPOMENE
Atalanta,
figlia di Schenèo, re di Sciro – o, secondo una differente versione della
leggenda, di Giasone e Climène – fu allevata da un’orsa, divenendo formidabile
nella caccia e insuperabile nella corsa, tanto che nessuno riusciva a batterla.
Rispettando
la profezia dell’oracolo – Tu non hai
bisogno di un marito, Atalanta. Evita l’esperienza coniugale. E tuttavia non vi
sfuggirai e, viva non sarai più te! (Ovidio, Metamorfosi) – per liberarsi delle irritanti insistenze dei suoi
pretendenti alla sua mano, dispose che sarebbe andata in sposa soltanto a colui
che l’avrebbe sconfitta nella corsa. Ma ammonì pure i suoi spasimanti che li
avrebbe uccisi con le frecce del suo arco, se non fossero riusciti a
raggiungerla e a sorpassarla: «Nessuno
potrà avermi se prima non mi vincerà nella corsa. Misuratevi con me: chi sarà
veloce abbastanza, mi avrà in premio come sposa: i lenti pagheranno con la
morte. Questa è la regola della gara.» (Ovidio, Metamorfosi) –.
Ciò
nonostante, la tale feroce condizione non bastò a far desistere i pretendenti.
Più di uno si misurò con lei e trovò la morte. Un giorno, presso il luogo delle
fatali gare, giunse Ippomene che, stregato dalla bellezza di Atalanta, volle
sfidarla per averla in sposa. La fanciulla restò altrettanto rapita dal
bellissimo aspetto del giovane, di modo che amaramente considerò: «Ah, povero Ippomene, come vorrei che tu non
mi avessi mai vista! Tu meritavi di vivere, e se io ero più fortunata, se uno
sciagurato destino non mi proibiva di sposarmi, eri l’unico con cui avrei
voluto condividere il letto.» (Ovidio, Metamorfosi).
Ippomene
poteva contare sull’aiuto di Venere, che la sapeva molto lunga sulle femminili
debolezze. Non a caso la dea gli aveva dato tre meravigliose mele d’oro,
indicandogli nondimeno l’uso che avrebbe dovuto farne.
Iniziata
la corsa, Ippomene si proiettò all’inseguimento di Atalanta, lanciando, uno
dopo l’altro, i tre graziosissimi pomi dorati, che attrassero inevitabilmente
la curiosità della fanciulla, e che avidamente si chinò a raccoglierli,
perdendo tempo prezioso e parecchio terreno, permettendo all’innamorato
sfidante di superarla e di tagliare per primo il traguardo.
Ma
vediamo come si svolse esattamente la macchinazione delle tre mele d’oro: Allora il discendente di Nettuno si decise a
lasciar cadere uno dei tre frutti. Si stupì, la Vergine, e incantata dal pomo
luccicante deviò e raccolse la sfera d’oro che rotolava. Ippomene la sorpassa;
dalle tribune uno scroscio d’applausi. Lei recupera con corsa veloce il tempo
perduto, e di nuovo lascia il giovane alle spalle. Rimasta indietro un’altra
volta al lancio del secondo pomo, un’altra volta lo insegue e lo supera. Ormai
c’era da correre solo l’ultimo tratto. «Ora assistimi» disse lui «o dea che mi
hai fatto tanto dono» e con vigore lanciò splendente in linea obliqua verso il
bordo della pista, perché essa ci mettesse più tempo a tornare. (Ovidio, Metamorfosi).
A
dispetto di tutta la sua scaltrezza, il giovane non riusciva purtroppo ad avere
la meglio sulla sua avversaria. Dovette intervenire quindi la sua protettrice,
la quale così se ne vanta, superbamente novellando della circostanza: La vergine fu incerta se andarlo a prendere
o no. Io la costrinsi a raccoglierlo, e quando lo ebbe preso, io ne accrebbi il
peso e così la ostacolai anche col carico, oltre che con la sosta. Perché il
mio racconto non sia più lungo della corsa stessa: la vergine fu sorpassata: il
vincitore se la prese, in premio, in moglie. (Ovidio, Metamorfosi).
La gioia
di Ippomene era talmente grande, che nemmeno si degnò di omaggiare la dea che
lo aveva favorito, suscitando in lei lo sdegno. Dimodoché Venere abbandonò i
due sposi al loro destino. Per aver profanato con troppa leggerezza il tempio
di Cibèle, furono dalla stessa madre degli dèi trasformati chi in leone e chi
in leonessa.
Tutto
questo ce lo racconta sempre la stessa Venere: Dimenticatosi di me, né mi ringraziò né mi offrì incenso. Mi piglia
allora un senso d’ira, e impermalita per quello spregio, per non farmi spregiare
da altri in avvenire, provvedo a dare esempio, istigando me stessa verso tutti
e due. Essi passavano davanti al tempio che un giorno il nobile Echíone, per
sciogliere un voto aveva eretto alla madre degli dèi, un tempio nascosto nella
foresta; il lungo cammino li invogliò a riposarsi. Lì Ippomene vien preso da
una improvvisa quanto inopportuna brama di accoppiarsi, suscitata dal mio
divino potere. C’era, vicino al tempio, una cella dove la luce filtrava appena,
simile a una grotta, con una volta naturale di pomice e sacra da tempo
immemorabile; il sacerdote vi aveva radunato molte statue di legno di antichi
dèi. Ippomene vi entra e profana il luogo con l’atto proibito. Le sacre
immagini voltarono gli occhi per non vedere, e la Madre dal capo incoronato di
torri fu incerta se affogare i colpevoli nell’onda dello Stige. La pena gli
parve leggera. E così, ecco che invece fulve criniere velano i colli prima
lisci, le dita s’incurvano in artigli, le spalle diventano attaccature di
zampe, tutto il peso del corpo si sposta in avanti, nel petto, e con la coda
spazzano la sabbia. La faccia si corruccia, invece di parole emettono
brontolii, invece che in case vivono e si accoppiano nelle foreste, e, temibili
per gli altri, serrano tra i denti il morso, aggiogati al carro di Cibèle,
leoni. (Ovidio, Metamorfosi).
ANALISI DELL’OPERA.
Il
dipinto del Prado, come la seconda e quasi identica versione del 1620 – 1625,
ora al Museo di Capodimonte di Napoli, rappresenta il momento in cui Ippomene lancia
sulla pista sterrata il secondo frutto d’oro. Atalanta, che ha già in mano il
primo pomo, arrestando la sua corsa, si china a raccoglierlo.
Le due
figure sono sospese in un esatto e armonico sincronismo dei movimenti, con Ippomene
che ha appena gettato in terra la mela d’oro e corre in avanti, teso verso la
sinistra del dipinto, e con Atalanta piegata ad afferrarla, allungata verso
destra, in un moto divergente, ma equilibrato e pressoché simmetrico, assai
simile a uno studiatissimo passo di danza, leggero e nello stesso tempo perfettamente
riuscito.
Ippomene,
per dirlo con le parole del Brandi, è come un Apollo del Belvedere in azione,
mentre Atalanta soffonde nel dipinto
un’aura di giovinezza perenne e suadente, il gusto dell’idillio classico più che
della tenzone sportiva.
Difatti
nell’impostazione della messinscena pittorica, fedelmente tratta dal poema
ovidiano, i due personaggi, che dovrebbero essere impegnati in una eccezionale
quanto tremenda competizione, creano invece una delicata ed elegante coreografia,
nella quale i loro corpi si allungano in due posture conseguenziali, unite in
un equilibrio complessivo classicheggiante e in un bilanciamento di moto che
appare inequivocabilmente, ma squisitamente teatrale.
I
personaggi, posti in primissimo piano, occupano quasi completamente lo spazio
del quadro, in una sapiente corrispondenza dei gesti: Atalanta, dalla florida eppure
slanciata fisionomia, pur di prendere il pomo buttato da Ippomene, rallenta la
sua corsa, ignorando che lo sfidante nasconde nella mano piegata dietro la
schiena il terzo frutto dell’inganno, come ad anticipare l’esito imprevisto
della perigliosa gara. Due svolazzanti e leggeri panneggi avvolgono i chiari
incarnati dei due antagonisti, coprendo i loro sessi, in un casto e raffinato accorgimento
compositivo.
I due
giovani protagonisti sono illuminati da un bastevole flusso di luce, che
proviene innaturalmente dall’alto a sinistra, per dar loro volume e morbidezza
plastica, traendoli fuori dalle ombre del crepuscolo calate sul paesaggio,
prima terroso e poi grigiastro, desolato fino all’orizzonte, appena rischiarato
da una luce opalina, entro il quale due gruppi equivalenti di appassionati
spettatori, lontanissimi, si distinguono appena.
Nel
pregiatissimo dipinto, secondo il compianto Giulio Carlo Argan, Reni iscrive le due figure in corsa in una
precisa, astratta geometria di diagonali: i moti fisici, come i morali, debbono
contenersi nei limiti di una norma accettata a priori.
Guido
Reni, Atalanta e Ippomene (1620 – 1625,
olio su tela, 192 x 264 cm.), Napoli, Museo di Capodimonte.
CONCLUSIONI.
Il gran quadro
del Prado, così come la replica di Capodimonte, rispecchia assolutamente la
secentesca visione barocca, per il bell’effetto scenico, studiatamente
dinamico, efficace e garbato nei gesti, sottilmente teatrale nell’insieme. Esso
ha una concreta affinità stilistica con l’Apollo
e Dafne di Bernini. In entrambe le opere, di colto soggetto mitologico,
l’una dipinta e l’altra scolpita, risplende evidente il risultato di una
esegesi in senso dinamico e scenico del classicismo, di quello stile nuovo, erudito
e sicuramente aulico, che verrà in seguito chiamato banalmente barocco. In
senso alquanto spregiativo, ovviamente. Cosa questa ordinaria nella valutazione
a posteriori delle opere d’arte,
osservate alla luce di tempi ed estetiche completamente differenti.
Nel
Seicento il cosiddetto barocco fu la tendenza dominante. Vi fu in realtà un
impeto di rinnovamento, che coinvolse tutte le arti, architettura pittura e scultura,
sfociato in qualche caso in trionfale retorica. Ma per il resto il Seicento fu
un secolo lungo e complesso di fioritura artistica, come il Quattrocento e il
Cinquecento. Nel caso di Roma, tanto per fare un esempio, si pensi al piano
urbanistico voluto da Sisto V, che inaugurò tutta una serie di ammirevoli
realizzazioni, che continuò con i suoi successori, fino al tempo di Urbano VIII
e pure oltre, con l’arrivo in città di riconosciuti maestri d’ogni parte
d’Italia e persino d’oltralpe.
Il
controverso secolo barocco fu in realtà un periodo di considerevoli invenzioni
artistiche, non inferiori a quelle di periodi precedenti, che vide all’opera
artefici come Poussin, i Carracci, Caravaggio, Rembrandt, Rubens, Vermeer, lo
stesso Reni, Bernini, Borromini, Cortona, Velázquez, solo per fare qualche
nome. Tutti singolari interpreti del loro tempo. Barocchi cosiddetti,
classicisti e naturalisti antibarocchi, non fa differenza. Il problema è che
gli sperimentalisti artisti barocchi non sapevano nemmeno cosa fosse il
barocco.
Tra
tutti, come sostiene Argan, il Reni è il
pittore del sentimento morale, a lui la società eletta del Secolo deve gran
parte della sua educazione dei sentimenti. Entro i limiti della ragione e del
dovere il sentimento, che non trova sfogo nell’azione, si compiace di sé, delle
proprie gradazioni e sfumature, di quelle segrete, sottili ragioni che Pascal
chiamerà “ragioni del cuore”. Le esprime non soltanto nelle armoniche cadenze
compositive e negli atteggiamenti patetici dei personaggi, ma nella scelta
squisita, nelle infinite trasparenze e sfumature dei colori. Poiché il suo
ideale è la moderazione, non soltanto geometrizza la mimica icastica del
Caravaggio, ma evita gli estremi opposti dei suoi valori di luce ed ombra:
sviluppa invece quei toni intermedi, che il Caravaggio annullava. Il chiaro e
lo scuro si traducono in una vibrazione tenue di gamme grigio-argento, che
rimane la base di tutti i colori, la nota dominante del suo tonalismo chiaro,
trasparente, freddo.
Atalanta e Ippomene (replica), Museo di Capodimonte, Napoli.
VITA DI
GUIDO RENI IN BREVE.
1575.
Guido Reni nasce a Bologna, il 4 novembre.
1584.
Entra nella bottega del fiammingo Calvaert, rimanendovi fino al 1593.
1595. Comincia
a frequentare l’Accademia degli Incamminati, fondata da Ludovico, Agostino ed
Annibale Carracci.
1596 –
1597. In palazzo Zani realizza La caduta
di Fetonte.
1599.
Viene eletto nel Consiglio della congregazione dei pittori bolognesi.
1601 –
1609. È a Roma dove realizza il Martirio
di Santa Cecilia, il Martirio di San
Pietro., il Martirio di Sant’Andrea.
Decora il soffitto della Sala delle Nozze
Aldobrandini, la Cappella di Santa Silvia
in San Gregorio al Celio e la Cappella
dell’Annunciata del Palazzo del Quirinale.
1610.
Riceve il primo acconto per dei dipinti nella Cappella di Paolo V in Santa
Maria Maggiore.
1610 –
1611. Torna a Bologna.
1612.
Ritorna a Roma, chiamatovi dal papa.
1614.
Dipinge l’Aurora per il cardinale
Borghese.
1617.
Invia al duca di Mantova l’Ercole sul
rogo, la prima delle quattro tele dedicate alle fatiche di Ercole.
1619.
Contratta la decorazione per la Cappella
del Tesoro di San Gennaro a Napoli.
1622.
Tra l’aprile e il maggio è a Napoli, da dove parte all’improvviso per Roma.
1625.
Esegue la Trinità per la chiesa dei
Pellegrini a Roma.
1627.
Parte per Bologna.
1631. Il
Senato di Bologna lo incarica, per la fine di una pestilenza, di dipingere la Pala della peste.
1636.
Completa il Trionfo di Giobbe.
1640. Il
re di Polonia, cui aveva inviato il Ratto
d’Europa, gli scrive una lettera di ringraziamento.
1642.
Muore, il 18 di agosto, a Bologna, ed è sepolto nella Chiesa di San Domenico.
DIZIONARIO
MITOLOGICO:
Chiòne. Figlia di Dedalione e, successivamente, sposa di Apollo e di Mercurio.
Da Mercurio ebbe come figlio Autolico, ladro famosissimo da cui discendeva
Ulisse.
Cibèle. Personificazione della madre terra. Lucrezio, nel De rerum naturae, così la descrive: Due leoni aggiogati guida, seduta su un
cocchio, nel cielo, a volo, per dire che sta sospesa l’immensa terra, e
poggiare sulla terra non può la terra.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE:
G. C.
Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni,
Milano.
Cricco –
Di Teodoro, Itinerario nell’arte,
Volume II, Zanichelli, Bologna.
A. Morelli,
Dei e miti, Melita Editori, La
Spezia.
A.
Emilani, Guido Reni, Art Dossier,
Giunti, Firenze.
© Giuseppe Lucio Fragnoli
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