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giovedì 3 dicembre 2020

GANIMEDE E L'AQUILA di BERTEL THORVALSEN

 

(1817 89.6 x 119.3 x 48.8 cm - Copenaghen, Thorvaldsen Museum)

 

Il mito di Ganimede 

Ganimede, bellissimo figlio di Tròo e di Calliroe, secondo la tradizione mitologica, fu rapito da un’aquila mandata da Giove, o più probabilmente dallo stesso padre degli dei, tramutatosi in una meravigliosa aquila, per assegnare al giovane la mansione di coppiere alla sua mensa, già riservata alla graziosa Ebe. Cosa questa che suscitò il risentimento di Giunone –  che di Ebe era madre –.

Ma il motivo vero dell’irritazione della dea poteva più sicuramente essere rapportato al fatto che il singolare rapimento del leggiadro giovane era stato condotto per ben diverso ed inconfessabile scopo.

In ogni caso, Giove non mancò poi di risarcire Tròo, per il torto che gli aveva arrecato, facendogli recapitare da Mercurio un vitigno d’oro e due cavalli velocissimi.         

Il riprovevole mito di Ganimede fu utilizzato soprattutto come discreto e quasi necessario alibi per legittimare l’imperversante omosessualità nel mondo greco antico.

 

(…)

de’ mortali il più bello, e degli Dei

rapito in cielo, perché fosse a Giove

di coppa mescitor per sua beltade,

ed abitasse con gli eterni.

(Iliade, XX)

 

Lettura dell’opera

L’opera rappresenta il bel Ganimede che porge, servizievole e sottomesso al volere del suo padrone, ancora celato sotto le spoglie dell’aquila che lo ha appena rapito, una coppa ricolma di vino per abbeverarlo, anticipando così il suo destino di coppiere alla mensa degli dei e di condiscendente concubino.

Tutto il mito è dunque perfettamente narrato in una sola figurazione in cui, parafrasando l’Iliade, il più bello “de’ mortali” si abbassa in una postura ossequiosa ma sobria, perfettamente naturale, di fronte al fiero volatile, per porgergli con una mano una coppa dello squisito nettare, appena versato dalla brocca che tiene nell’altra mano. Il suo volto ed il suo sguardo incolpevole sono rivolti verso la coppa da cui beve il suo signore, trasmettendo una sensazione di paziente attesa e condiscendenza.

Nella scultura del “Fidia danese”, si riflettono tutti i principi neoclassici. Ed infatti le espressioni sono contenute e pacate, e si accompagnano ad una straordinaria purezza formale, ove lo scultore persegue un’idea di bellezza suprema, antica e perenne. Il suo ideale di bello rimanda direttamente alle stilizzazioni canoviane e alle osservazioni estetiche di Winckelmann, che vede nell’antichità classica la via maestra che porta alla modernità, al vero stile.

 

Brevi notizie sulla vita

Bertel Thorvaldsen (Copenaghen 1770 - 1844) è universalmente considerato uno dei maggiori esponenti del neoclassicismo.

Visse ed operò soprattutto a Roma, dove svolse un serio studio sull’arte antica e dei modelli scultorei greci e romani, affermandosi subito come artista colto e di talento,  ottenendo numerosissime commissioni.

Le opere più rappresentative sono Il Giasone (1803), Ganimede e l’aquila (1817), Cristo e gli Apostoli (1821-27), Monumento a Pio VII.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.

GIUSEPPE LUCIO FRAGNOLI

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