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domenica 27 dicembre 2020

NOIR NAPOLETANO, uno straordinario romanzo di GIUSEPPE LUCIO FRAGNOLI

 

Lo straordinario romanzo di Giuseppe Lucio Fragnoli, Noir napoletano, ISBN 978 88 249 18909, è stato pubblicato nell’agosto del 2018 da BOOKSPRINT EDIZIONI, la giovanissima e fenomenale casa editrice di Vito Pacelli. Si tratta di un noir, ovviamente, ambientato a Napoli e dintorni, che sicuramente stupirà i lettori per la particolarità dei personaggi, per l'originalità delle situazioni narrate e per i contesti dentro cui si dipana la trama.

SINOSSI DI NOIR NAPOLETANO 

Il ritrovamento del cadavere di un noto penalista dà inizio a una tenebrosa vicenda, intasata di contrattempi e di colpi di scena. Che si susseguono confusamente in una Napoli mirabolante e in luoghi ad essa perfettamente concatenati.

Nei convulsi sviluppi del pasticciaccio − una spietata e infinita faida malavitosa − capitano per caso due investigatori privati. Che si avventurano in un pericolosissimo gioco, ordito ad arte da un folle e sanguinario personaggio, per cercare di averne in fine un tornaconto, muovendosi affannosamente dentro uno scombinato scenario affollato di insidie e di foschi figuranti.  


Noir Napoletano si può leggere gratuitamente su Google Libri, ed è disponibile in eBook (€ 4.90) e in formato cartaceo (€ 17.90). È acquistabile on line su Amazon e sui siti commerciali delle maggiori case editrici italiane. 


RECENSIONE di NOIR NAPOLETANO di MICHELE GRAZIOSETTO.

 

Caro Lucio,

voglio esprimerti le mie riflessioni sul tuo romanzo Noir Napoletano. Innanzitutto il genere poliziesco da te proposto mi ha intrigato, anche se non sei nuovo a questa scrittura.

I miei ultimi colloqui letterari con il compianto Giuseppe Petronio, lo storico della letteratura italiana che amò la sociologia e l’applicò come chiave di lettura nelle analisi delle varie opere del panorama culturale europeo, riguardavano proprio il filone poliziesco. Lui stesso era presidente – dalle parti di Trieste – di un premio letterario che giudicava opere esclusivamente poliziesche. Anche noi da ragazzi abbiamo consumato valigie dei cosiddetti “gialli” e in particolare di quelli americani. D’altra parte in Italia questo genere si è fatto gradatamente strada, anche se la tradizione critica del Novecento non l’ha molto amato, anzi. Oserei dire che lo ha snobbato. Tra questi – mutatis mutandi e se è lecito aggregarmi alla cosiddetta critica militante – anche io ho sempre nutrito una sorta di rifiuto a far rientrare il giallo nel novero della grande tradizione letteraria. Proprio di ciò si discuteva con Petronio: se è opportuno riammettere tra le forme letterarie anche il romanzo a sfondo poliziesco. Egli – Petronio – allargando le braccia, mi chiedeva che cosa in Italia – tranne pochissime eccezioni – ha prodotto la letteratura, sia nel genere del romanzo tradizionale, sia in poesia. Egli parlava di desolazione, di avvilente silenzio, di tradimento culturale, tanto più se si pensa che le case editrici stabiliscono il numero delle pagine (non più di cento, centocinquanta). Come se un’opera fosse espressione della chimica farmaceutica!

Addio fantasia dello scrittore, addio ricerca della parola, insomma addio a molte antiche cose dal sapore moderno e contemporaneo! E citava per tutti – Giuseppe petronio – i casi letterari di Verga nell’Ottocento e di Tomasi di Lampedusa nel Novecento. La loro fortuna non venne subito, anzi. Si dovette attendere non poco!

La colpa è di certa società nuova, che nel momento in cui essa si forma, per mania di originalità, cerca di spazzare via i fili della memoria, quelli che ci tengono legati al passato, se è vero che la nostra aridità è la nuova condizione esistenziale, allora bisogna fare i conti con ciò che abbiamo innanzi, cioè la ricca fioritura del giallo che, vuoi o non vuoi, è e rimane scrittura, e con questa bisogna confrontarsi. Di fronte a così grande maestro non ho potuto che zittire, non per timidezza reverenziale, né per pochezza di argomentazioni, ma proprio per quel richiamo alla scrittura, che ci avvolge e ci deve condizionare nel giudizio. Altrimenti di che cosa si deve occupare la letteratura?

Perciò, caro Lucio, ho letto il tuo romanzo ripensando all’indimenticabile petronio e per questo te ne ringrazio, perché è stata un’ulteriore occasione per continuare con lui un non interrotto colloquio. Chi ascolta e sa che cosa vuol dire incontrare un maestro mi capirà benissimo.

Ma veniamo al romanzo. Ti dico subito che l’ingegno inventivo non manca affatto, anzi sei una sorta di locomotiva a vapore in grado di macinare metri e metri di rotaie senza fermarti mai. Sei capace di far divertire il lettore, di distrarlo e di rimetterlo nella carreggiata. A volte fai il lezioso con qualche elegante citazione, scuci qualche bella immagine degna del migliore Edgar Allan Poe, riesci a tritare linguaggi misti (dal napoletano al romano, all’aulico volgare) e sei in grado di scendere fino agli ultimi gironi del degrado linguistico e a risalire la china con la massima disinvoltura. Non potevi fare diversamente per legare la tua trama poliziesca a quell’inferno che è il sottobosco malavitoso napoletano, fatto di ignoranza, di guapperia, di aspirazione ad un benessere illusorio e mai appagante. D’altra parte gli ammazzamenti a cui ci fai assistere in varie soluzioni pirotecniche (sparatorie, bombe, accoltellamenti vari) sono quotidianamente sotto i nostri occhi ad ogni apertura di telegiornale, così come le modalità organizzative della camorra, con i suoi capetti, sicari, capi clan, spioni, traditori, eccetera.

Certo, per questo scenario bestiale non avevi altra scelta che un linguaggio truculento e volutamente volgare. Ma quella che mi è senz’altro piaciuta è la doppia linea narrativa: da una parte, la quotidianità di due giovani che si arrabattano per tirare avanti, appoggiandosi a qualche amico per avere commesse sulle “corna altrui”, dall’altra, la storia del tesoro malavitoso nascosto.

La trama, con qualche sforbiciata qua e là, non è male, anzi nella seconda parte, quando lo scenario si fa più chiaro, diventa avvincente.

Quello che non sempre torna, a mio parere, sono le continue fughe dell’autore nell’inventare brevi gag, quasi volutamente, per distrarre il lettore. Insomma, per vedere se il lettore, momentaneamente distratto dalla nuova storia, si precipita nelle pagine successive per riannodare il filo del discorso. Tra le varie scenette quella di Reginella è la più spassosa: sa di disperazione napoletana, sa di donna che a tutti i costi deve avere un merlo (o pollo che sia) al suo fianco, altrimenti gli spacca “’i cosse a quatte piezze” se osa abbandonarla.

Anche la scena della trasmissione televisiva di Reginella è una bella trovata, con i commenti casalinghi delle brave donne di famiglia che, commosse e convinte dalle lacrime della giovane, ammazzerebbero quel giovinastro che l’ha piantata, cioè proprio Doc che è lì davanti a loro, ammutolito se non stizzito dalla sceneggiata napoletana. Anche le due esperienze con la baronessa Ustinova e la bella ostessa da parte di Joe hanno un buon impasto, e devo dire che l’autore scrivendo mi è parso lui stesso divertirsi. Non è raro che uno scrittore fa compiere ai suoi personaggi immaginari quello che lui stesso nella realtà vorrebbe fare, ma senza riuscirvi. Perciò la fantasia si sfrena e la penna corre senza fermarsi, anche quando sarebbe necessario. Non mancano anche momenti moralistici: perché la camorra? Perché il malaffare? Perché la televisione spazzatura? Perché insomma tanta zozzeria nella società napoletana, che ha nel sangue tradizioni di millenaria cultura e bellezza?

Ci sono alcuni slarghi paesaggistici anche piacevoli, degni della migliore Napoli ed ogni tanto qualche apertura sul territorio – Scauri e Sperlonga per esempio – con il suo mare reso quasi muto d’inverno. Ma con quanta poesia senza le orde estive che trasformano la quieta cittadina in un brutto surrogato della peggiore Napoli!

Infine l’arabesco della mappa del tesoro – in alcuni punti un po’ forzata – alla fine tiene uniti tutti i pezzi e promette ai due giovani – grazie all’ingegno e alla voglia di affermarsi – di pervenire alla vincita che altro non è che il caffè pagato del pazzo signor Cavallo (più di dieci miliardi) alla genialità di chi è stato in grado di seguire il suo gioco pericoloso.

Speriamo che tu, Lucio, nel prossimo romanzo ripulisca le storie che a lui possano sembrare tali, che mitighi qua e là il linguaggio, consapevole che si può anche gridare meno per farsi ascoltare e apprezzare.


L'autore G. Lucio Fragnoli

Noir Napoletano è la rivisitazione di Nero Napoletano, pubblicato nel 2003 con Edizioni Emmegì e poi ripubblicato nel 2008 col titolo Una balorda faccenda di camorra, sempre con Edizioni Emmegì. Nel 2008 è stato finalista al Premio Sebastiani Il Minturno, ricevendo infine una speciale menzione.  


RECENSIONE di NOIR NAPOLETANO di FILIPPO GIULIANO.

Ho letto tutti i romanzi di Lucio e, come spesso accade, quando ami un autore, apprezzi ogni suo scritto. Ma, non è dato di sapere il come e il perché, qualche opera ti cattura in modo particolare e ti lascia dentro radici profonde.

A me è capitato con La festa dei cani e Miracolo al bar, nei quali ho riscontrato molte affinità di pensiero, di sentimenti e frammenti di vita, che possono essere accostati, senza ombra di dubbio, ai miei.

Ho provato le stesse sensazioni e lo stesso trasporto emotivo leggendo Noir napoletano. Come ogni giallo, la vicenda si apre con un assassinio, letale e perverso, di un noto penalista, l’avvocato della camorra, Clemente Fazzolino, il cadavere del quale viene rinvenuto in un’auto abbandonata in uno squallido anfratto della campagna campana, nei pressi della foce del fiume Garigliano.

Nei momenti che ave­vano pre­ceduto il suo tra­gico ad­dio alla vita si era pure pisciato sotto, dato che nella vettura persisteva un residuo sentore di urina. Gli avevano sparato in bocca, come si capiva dal ri­volo di sangue raf­fermo che sorgeva da dietro la nuca, da sotto la posticcia capi­gliatura, e dalle dense colate rossa­stre che fluivano dalla bocca spalancata. Un colpo solo. Una sola ma­ledettissima pal­lottola partita dalla rivol­tella di un uomo parec­chio freddo e spietato.

Il morto indossa reggiseno e mutande di pizzo da donna, calze a rete, e una parrucca di capelli nero corvino. L’assassino ha volutamente lasciato nella Volvo station wagon 940 Finke alcuni indizi che farebbero pensare a un delitto legato alla viziosità del Fazzolino.

Ma dietro un tale agghiacciante assassinio si cela una vicenda intrigata e tremenda, nella quale vengono coinvolti i detective privati della Falco & Lasco Investigation, Doc e Joe, astuti e capaci, dai trascorsi alquanto sfortunati, i quali, per sbarcare il lunario, si arrangiano come possono, adoperandosi in indagini di poco conto, storie di corna soprattutto. A Joe e Doc non manca però il coraggio e la spregiudicatezza che li porta ad avventurarsi in una situazione pericolosissima, dai contorni quasi surreali.

Tutti i personaggi coinvolti nella singolare narrazione, perfettamente caratterizzati, si muovono in una Napoli viva e brulicante, dai vicoli chiassosi e confusionari ai locali affollati da un’umanità imponderabile, continuamente affaccendata nella lotta della sopravvivenza.

La città stessa, dai quartieri affollati e chiassosi, mostra la sua vera anima, comica e terribile insieme.

La realtà napoletana, perfettamente controversa, con una faccia violenta e disgraziata e una faccia intrisa di umanità traspare da ogni pagina del libro: quando i protagonisti mangiano in trattoria, attorniati da altri abituali avventori, personaggi soltanto abbozzati dalla sapiente penna dello scrittore, i quali però assumono una rilevanza quasi teatrale; o quando i due detectives vanno al bar per il solito espresso, lasciandone uno pagato per gli squattrinati di passaggio.

Insomma, dal romanzo, non in sordina, ma alla pari dei principali attori della storia, emerge quella Napoli rumorosa, ciarlona, impicciona ed altrettanto umana, che solo chi conosce bene può apprezzare. Non a caso, ieri Leopardi e Goethe, oggi Arbore, Dalla e molti altri sono divertiti napoletani d’adozione. Lo stesso autore, in Noir Napoletano, mettendo in scena la realtà napoletana in modo veridico quanto particolareggiato, ci appare come un figlio adottivo di questa città, talvolta odiata, e infinitamente amata.  


MARIO TIEGHI intervista l’autore.

 

Il  giornalista prof. Mario Tieghi


Qual è la differenza di umore tra Noir napoletano e gli altri romanzi che hai scritto?

 Rispetto ai miei precedenti libri, in Noir napoletano c’è, forse, un maggiore pessimismo, riscontrabile nel susseguirsi degli eventi delinquen­ziali che si compiono scelleratamente, ed in modo inesorabile. Senza che alcuna forza esterna ad essi possa modificarli o porvi fine.  Sono io, di­silluso, che guardo il mondo “dal buco della serra­tura,” per dirla alla De­gas. Ma c’è anche una parte di me, che è rima­sta ferma a La festa dei Cani e a Miracolo al bar, che rimane inguaribil­mente ottimista e fiduciosa verso una buona fetta di umanità, sensibile al bene comune, amante delle cose che gira loro intorno. Infatti, i protagoni­sti del romanzo, che sono delle amabili canaglie, persino dei bonaccioni in certi frangenti, troveranno prima il tesoro e infine se stessi…

Mafia, camorra, malaffare: Quanto c’è di reale nelle pagine dell’ultimo romanzo?

Poco invero, per quanto riguarda la storia. Che è letteralmente inven­tata di sana pianta, ma con alcuni voluti riferimenti a qualche trovata di Sergio Leone, come, per esempio, il luogo dov’è sepolto il malloppo, ossia il camposanto. Questo lo considero un omaggio al grande regista scom­parso, un maestro per tutti, sotto ogni punto di vista. C’è poi la ri­presa del tema a me caro del doppio, sviluppata per la prima volta in let­teratura da Stevenson. Per il resto, tranne qualche altro doveroso atto di ossequio al padre del giallo Edgar Allan Poe, agli spaventevoli Beckford e Stoker, all’insuperato Dumas padre, posso tranquillamente affermare che l’indicazione dei luoghi e i nomi dei personaggi, e nondimeno la sostanza dei fatti narrati, sono del tutto casuali. Naturalmente vi sono degli episodi, come il ritrovamento di cadaveri pistolettati o carbonizzati, o lo sterminio completo di una famiglia nemica, che fanno parte dell’abituale agire dei clan malavitosi campani. Ne sono piene le pagine di cronaca dei quoti­diani locali, ai quali ho sommariamente attinto. La risolutezza, l’efferatezza e la teatralità di certi crimini sono proprie soprattutto della camorra, che con tali turpi bravate si propone di trasmettere un preciso messaggio di terrore alle popolazioni. La camorra, a differenza della ma­fia, non ha un’organizzazione piramidale, ed il controllo del territorio è assai frammentato e duramente conteso da una moltitudine di clan, spesso in perenne lotta tra di loro. Ne consegue che di tutte le confraternite cri­minose la camorra è senz’altro la più sanguinaria e pe­ricolosa.

Il Papa di Napoli. Quanti effetti simbolici esprime il personaggio?        

Il Papa di Napoli è un’invenzione di un personaggio del romanzo, lo scrittore Ciro Mazzone, il quale, tramite la sua balzana fantasia, vuole ri­filare al popolo un’autorità fittizia, un feticcio plebeo e triviale, al disopra del bene e del male, che sia di giustificazione all’ignavia e all’indolenza dei partenopei. Per me che, per mezzo del visionario scrittore, l’ho tirato in ballo, il Papa napoletano è pressappoco la stessa cosa: è il simbolo di una città che ha smarrito le ragioni della sua millenaria cultura, che ar­ranca in un carnevale tragico, aggrappandosi ad una maschera dissacra­trice, per esorcizzare le proprie sventure: il giogo della malavita, la cronica miseria degli strati sociali più deboli, l’impotenza di poter cambiare le cose.

Quale modello di scrittura ha maggiormente influenzato questo cam­biamento di genere dell’autore Fragnoli?

Non mi sono rifatto ad un preciso modello di scrittura, piuttosto ho adattato il mio  stile, che risente di quello di alcuni narratori nordameri­cani, tipo Paul Auster o Jack Kerouac, tanto per fare qualche nome, a delle reminiscenze di alcune opere scritte in un italiano “napoletanizzato” da autori come Starnone, De Crescenzo, Rea, che usano il verbo tenere al posto del verbo avere. Insomma, c’è qualcosa di tutto questo in Noir na­poletano, specialmente in alcuni dialoghi o in certi grotteschi battibecchi da osteria. Ebbene, accanto alla normale e torva cronaca odierna, ho im­messo nella mia storia qualche frammento di quella Napoli sparita dei film del dopoguerra. Il cambiamento di genere sembra esserne la conse­guenza, si passa dalla divertita ironia de La Festa dei cani e di Miracolo al bar all’ humour nero. In realtà questo cambiamento era già in parte avve­nuto con Tutta colpa di Capuozzo

Anno 1999, primo romanzo; 2003, sesto lavoro librario. Quali sono le novità e le attese per uno scrittore cresciuto nella terra pontina?

Quando scrissi e pubblicai La festa dei cani, con qualche sacrificio economico invero, ma con un grandissimo entusiasmo, capii presto, ma solo in quel preciso momento, che la strada sarebbe stata tutta in salita, sebbene il libro avesse un insperato successo. Ne feci stampare più di sei­cento copie, che andarono a ruba nel giro di un paio di mesi o poco più. Merito dei miei alunni del Liceo L. B. Alberti, probabilmente, che ne fecero incetta, pubblicizzandolo anche, in maniera commovente. Merito anche del Preside, Michele Graziosetto, persona di grande spessore umano e in­tellettuale. Poi scrissi Quell’impicciatissima vicenda…, pubblicato da Fi­renze Libri, che registrò, lo dico senza falsa modestia, lo stesso successo di pubblico. Con Miracolo al bar, breve romanzo faticosamente auto pro­dotto con miseri mezzi, editato non bene in realtà, ma un buon libro, scritto col cuore, riscontrai amaramente una viscida ostilità da parte di cri­tici locali dell’ultima ora. Scrissi Ottocento e Tutta colpa di Capuozzo, con l’aiuto di qualche amico che contribuì alle spese. Per il resto, niente. Mai un congruo aiuto pubblico. Una fatica tremenda, pure per un artico­letto di giornale. Cosa mi aspetto? Non molto. Scrivo per passione…  

Noir napoletano può essere reso a rappresentazione filmica della vita?

 Certamente, visto che il contenuto complessivo ha a che fare con l’imprevedibilità e la complessità dell’esistenza. In Noir napoletano, ri­spetto agli altri miei libri, c’è sostanzialmente la consapevolezza della stu­pidità del male. Il male che, però, finisce per avere sempre il sopravvento, col suo non so che, che esercita sempre un suo discreto fascino nella vita d’ogni individuo, e finanche nella mente suggestionabile di un narratore.

Quali parti ha inteso assegnare ai personaggi ed alla società in genere il regista Fragnoli?

Alcuni personaggi come il dottor Frate, Ciro Mazzone, Raffaelle Ca­vallo, sono tutti pervasi da una vena di follia, e soltanto nella follia concre­tizzano le loro aspirazioni. Altri personaggi, come donna Sofia, il dottor Maccarone, donna Titina, eccetera, si realizzano nel tradimento. In­somma, nessuno sembra essere contento della propria condizione e se ne sdoppia o, almeno, tenta. Altri si improvvisano cacciatori di tesori, come Ciccio Quaranta e i nostri eroi Joe e Doc. Ma tutti, nessuno escluso, an­che la disincantata baronessa Ustinova, lottano per dare un senso alla loro esistenza, per godere di una qualche particolare ed eccitante impresa o per realizzare un sogno. Vivere alla grande è la parola d’ordine di tutti, non­dimeno dei truculenti malavitosi, che lo fanno sul sudore e sul sangue dei propri simili: una tragicommedia umana.

Nel testo appaiono pagine drammatiche ed ironiche, quale dei due sentimenti è più vicino al tuo pensiero di scrittore e perché?

Entrambi, per questo ho cercato di fonderli insieme. Volevo ottenere una specie di grottesca e paradossale miscela, con variazioni di umore e cambiamenti di scena, per sorprendere il più possibile il lettore. Beninteso che al dramma preferisco l’ironia. Dicono che l’ironia sia il sale della sag­gezza.

Ti sei mai chiesto, mentre buttavi giù le pagine di questo romanzo, a quali persone ti stavi rivolgendo? Donne, uomini, giovani o chi altro?

A tutti, indistintamente, ma in particolare ai giovani. Il mio lettore ideale, quello che immagino nella mia testa, è persona abbastanza colta, giovanile, per niente bacchettona e al passo coi tempi, informata e vivace di spirito: un lettore scafato, non condizionato culturalmente e ideologi­camente. 

In che modo un romanzo come Noir napoletano può contribuire a ri­svegliare la voglia di leggere?  

Il problema è assai complesso. Ma da persona molto franca, dico que­sto: per rinfocolare l’amore per la lettura bisogna proporre al lettore dei bei libri, con storie ben scritte, intriganti ed attualizzate, che lo coinvolgano il più possibile. Noir napoletano è una storia di questo tipo.   

Tu, che conosci, mediante una cultura adeguata i diversi generi narra­tivi, in che maniera il tuo nuovo romanzo può aprire verso una strada nuova di interpretazione letteraria? 

Noir napoletano non appartiene ad un genere definito: è insieme un noir e una favolaccia. Rappresenta un tentativo di mettere insieme generi diversi: è una sorta di cocktail letterario, che, ho già detto, si avvale pure di “ricordi” cinematografici.

Non possiamo nascondere che Giuseppe Lucio Fragnoli è un artista della penna, le sue storie le vive all’interno e le sa trasmettere a chi legge, ma ti sei mai chiesto i tuoi traguardi futuri?   

Spesso. Io penso che molto nella vita dipenda dalla fortuna. Quando scrivo, però, mi preoccupo soprattutto di creare una storia divertente e nello stesso tempo interessante. Chi scrive, secondo me, è bravo se sa dire le cose. I traguardi che uno può raggiungere dipendono da questo.  Penso che chi si applica seriamente, prima o poi sarà premiato. Quando scrissi La festa dei cani riuscii a caratterizzare i personaggi con pochi dialoghi, ma, secondo il mio modesto pensiero, alquanto indovinati. Impostai il li­bro sulla lingua parlata, copiando certe espressioni da persone che avevo incontrato. Ne risulta che il libro ha una sua accattivante vitalità, su que­sto tutti sono stati d’accordo. In Tutta colpa di Capuozzo ho fatto altret­tanto, ricopiando di sana pianta una volgarotta corrispondenza tra due giovani, scritta su un muro della stazione ferroviaria di Minturno. Dovevo fare così se volevo dare verità alla storia, se la volevo rendere attuale. Uno che scrive deve avere coraggio: è la qualità di cui ha più bisogno.     

 

●●● L’intervista è stata da me realizzata per essere pubblicata sul periodico d’informazione pontino Sabaudiain.it NEWS (redazione @ sabaudiain.it), di cui sono Direttore, prima che il libro andasse in stampa. Ritengo che attraverso di essa, e meglio che tramite la solita prefazione, si possa davvero co­gliere lo spirito con il quale l’autore ha concepito i suoi precedenti romanzi e questo in particolare. Ne è scaturito un dialogo vivace, con battute e risposte piene dell’humour solito dello scrittore do­cente Giuseppe Lucio Fragnoli.

 MARIO TIEGHI


domenica 13 dicembre 2020

LA CALUNNIA DI APELLE di SANDRO BOTTICELLI

 

Alessandro Filipepi detto “Botticelli”, La Calunnia di Apelle (1496, tempera su tavola, 62 x 91cm.), Firenze, Galleria degli Uffizi.


DESCRIZIONE ED ANALISI STILISTICA 

Con la Calunnia di Apelle, Botticelli replica il colto soggetto elaborato dal grande pittore greco, ricreandolo dalla descrizione che de ne fa Luciano di Samosata, ma esposta sinteticamente anche da Leon Battista nel De Pictura, a dimostrazione della conoscenza dei testi antichi e della sua ammirazione per la cultura classica.

Il dipinto ripropone quindi, oltre al tema, gli stessi personaggi, rappresentati ovviamente secondo la fantasia, le esigenze stilistiche ed il pensiero dell’artista fiorentino, che ambienta la scena in uno spazio prezioso e solenne, chiuso da un loggiato con tre grandi arcate, decorato con scene e figure bibliche, solo in parte riconoscibili. La vista è perfettamente frontale, con la linea dell’orizzonte studiatamente sistemata per un effetto di discreta profondità e di grandiosa solidità della struttura dipinta, oltre cui si distingue un paesaggio luminoso ed essenziale, composto dal lido, dal mare e dal cielo.

Lo scorcio marino dietro gli archi dell’austera architettura ha un forte senso d’astrazione, quasi metafisico, in cui lido, mare, cielo sono ricondotti a pure e primordiali entità, a terra, acqua e aria – un po’ come lo sfondo del quadro picassiano Poveri in riva al mare –. Come del resto gli archi del porticato rimandano molto vagamente alle arcate di certe silenti e mentali composizioni di De Chirico.

Ma questa evidente connotazione di trascendentalità, unita ad una ricerca di assoluta coerenza formale e di bellezza superiore, è propria dell’intera messinscena pittorica, che va osservata partendo da destra verso sinistra.

Assiso in trono, su un alto basamento vi è il cattivo giudice, il Re Mida dalle orecchie asinine, istigato dalle figure allegoriche del Sospetto e dell’Ignoranza. Di fronte a loro, in panni scuri e laceri, avanza il Livore, con un braccio teso, in senso accusatorio, il quale conduce per mano la figura della Calunnia. Che impugna la fiaccola che non fa luce, emblema di falsa conoscenza. Così, tenendolo per i capelli, trascina il calunniato che, nudo inerme e con le mani giunte, implora pietà. Intanto le due figure femminili che simboleggiano l’Invidia e la Frode, le intrecciano i capelli con fiori e nastri.

Poco distante, una vecchia rinsecchita, vestita di bianco e di nero, simbolo di Penitenza e Rimorso, si volge verso una giovane donna nuda, dalla figura elegante e slanciata, la Nuda Veritas, la Verità, che indica il cielo, a significare come l’unica fonte di verità consista nella divina giustizia.   


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

G. C. Argan, Botticelli, Vol. 3°, 1989, Newton Compton editori s.r.l., Roma.

F. Zeri, Botticelli - La Primavera,

Cricco – Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Vol. III, 2012, Zanichelli, Bologna.

Ovidio, Metamorfosi (a cura di Pietro Bernardini Marzolla),2015, Giulio Einaudi Editore s. p. a., Torino.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI. 

 


© G. LUCIO FRAGNOLI

DOPOPRANZO A ORNANS di GUSTAVE COURBET

 


Gustave Courbet (1819-1877), Dopopranzo a Ornans (1849); Lille, Palais des Beaux-Arts.


ANALISI DELL’OPERA

L’opera, riproduce una classica scena di genere ambientata in una locanda della Francia rurale ottocentesca. Nel luogo dipinto vi è un’aria rustica e familiare, dalla luce calda ma tenue, proveniente da destra, da una bassa finestra verosimilmente, posta fuori dello spazio del quadro. La tiepida luce illumina gli oggetti e i personaggi bastevolmente, per farne emergere dalla penombra la forma ed il senso materico, con ogni sua propria connotazione, quasi che l’artista volesse farci avvertire oltre alla vecchiezza del legno delle sedie e lo spessore della tovaglia, gli odori persistenti delle vivande cucinate e delle restanti cose.  I tre personaggi seduti intorno al tavolo hanno appena finito di desinare e se ne stanno quieti, sazi e soddisfatti ad ascoltare una musica suonata da un violinista, accomodato alla bisogna di fronte a loro. Tra di essi si riconosce il padre di Courbet, nel personaggio con le gambe accavallate a capotavola, e lo stesso autore, nell’uomo con la barba sullo sfondo. Sono evidenti i riferimenti ai suoi ideali maestri naturalisti secenteschi, ma soprattutto a Caravaggio. Ed infatti l’impostazione generale della composizione è chiaramente ripresa dalla Vocazione di San Matteo, e ne costituisce un omaggio ed allo stesso tempo un riconoscimento per la geniale interpretazione del fatto evangelico in chiave realistica ed attualizzata.  

 

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI. 

mercoledì 9 dicembre 2020

GIASONE di BERTEL THORVALDSEN

 



Bertel Thorvaldsen, Giasone (1803) - Copenaghen, Thorvaldsens Museum.

Analisi stilistica 

Nel Giasone, commissionato dal collezionista Thomas Hope, Bertel Thorvaldsen si ispira all'Apollo del Belvedere, copia romana da originale bronzeo attribuito a Leocare, come modello ideale per il nudo maschile, ma soprattutto al Doriforo di Policleto, di cui ripete la studiata postura. 

Infatti, nel Doriforo, conosciuto solo attraverso riproduzioni marmoree romane, il grande Policleto di Argo, straordinario bronzista ed esteta perfezionista, universalmente considerato il padre della scultura classica, aveva riassunto il suo ideale di bellezza, il cosiddetto bello naturale, nonché i suoi principi sulle proporzioni del corpo umano, da lui enunciati in un trattato tecnico ed estetico, il Canone, di cui ci sono pervenuti solo pochi frammenti.

Il Giasone di Thorvaldsen ripete quindi, con qualche lieve variazione, l’idea policletea di rompere la rigidezza della frontalità, in favore di un senso di moto del personaggio, che gravita sulla gamba destra, mossa naturalmente in avanti e su cui poggia il peso del corpo, mentre l’altra gamba è flessa ma più rilassata e spinta all’indietro. Allo sforzo della gamba destra corrisponde la tensione del braccio sinistro che regge il vello d’oro, così come alla flessione e rilassamento della gamba sinistra corrisponde la posizione di riposo del braccio destro, nella cui mano il mitico personaggio impugna mollemente una lancia. Le parti in tensione, come quelle distese, si corrispondono secondo uno schema ad X, come nell’opera dell’esteta Policleto, da cui Thorvaldsen riprende, ed in modo molto più evidente, la torsione del capo.

Giasone è raffigurato come vincitore, di ritorno dalla Colchide dove, a capo dei suoi argonauti, ha annientato il drago che custodiva il vello d’oro, il prodigioso talismano in cambio del quale riavrà indietro il regno di Iolco, usurpato a suo padre Alcimède dal dispotico zio Pèlia.

Il valore dell’eroe e la portata  della interminabile impresa che egli ha portato a compimento sono completamente riassunti nel portamento nobile e solenne in cui non tradisce alcuna espressione, mentre sorregge col braccio sinistro la pelle di montone a testimonianza del felice epilogo delle sue avventure.

Il personaggio non mostra né orgoglio né compiacimento, in senso completamente neoclassico, in un’aurea di severa e misurata catarsi dei sentimenti umani, cosicché egli ci mostra di sé solo la sua risolutezza, fondamentale virtù che gli ha fatto realizzare perfettamente il proprio destino.   


Altre opere importanti: Cristo e gli Apostoli (1821-27, Copenaghen, Fruekirke); monumento a Pio VII (1831) in S. Pietro; Ganimede e l’aquila di Zeus (1817, Copenaghen, Thorvaldsens Museum).

 

BREVISSIME NOTE BIOGRAFICHE

Thorvaldsen (1770-1844) era figlio di un intagliatore di legno islandese e dal 1781 studiò all'accademia di Copenaghen. Visse  in Italia dal 1796 al 1838, fatta eccezione per  qualche soggiorno in patria, in Germania e in Polonia. A Roma ebbe modo si di dedicarsi allo studio della statuaria antica e delle opere di A. Canova, assimilando le teorie di Winckelmann e Quatremère de Quincy. Dal 1811 insegnò scultura all'Accademia di San Luca. Morì a Copenaghen nel 1844.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.


Giuseppe Lucio Fragnoli


 


giovedì 3 dicembre 2020

TRE DONNE INTORNO AL COR… un romanzo di MICHELE GRAZIOSETTO


 


Premetto che ho cercato di essere il più conciso possibile nel commentare del romanzo di Michele Graziosetto, “Tre donne intorno al cor...”, pubblicato con Guida di Napoli, sforzandomi comunque di fornire una completa analisi critica dell’opera, per quanto personalissima. E mi sembra logico iniziare dalla trama. 
Telemaco è un affermato professionista, non più giovanissimo, che sta portando avanti, con l’aiuto della sua segretaria, Giusy, il progetto di ricostruzione della «cittadella» distrutta dalla guerra, nell’idea più ampia di riqualificazione dei luoghi circostanti, con un conseguente rilancio turistico e le ovvie ricadute occupazionali. 
Egli si muove quindi tra pastoie burocratiche, richieste di finanziamenti e approvazioni da parte delle varie associazioni legate al territorio. La sua giornata è piena di impegnative riunioni ed altre incombenze. 
Nelle pause di lavoro si pone mille domande sulla sua vita precedente, cui non riesce a dare risposte ammissibili. Il suo passato riaffiora di continuo nel presente, come una sorta di mondo parallelo, nel quale rivede ansiosamente le fasi più significative della sua vita, fino alla separazione da Thania da cui ha avuto un figlio. 
Tra tutto ciò, il protagonista della storia trova il tempo di vivere una serie di peripezie amorose. Nello spazio di una sola, interminabile giornata. Mentre ripensa con nostalgia e rabbia ora a Thania, ora a Darly, conturbante protagonista di un altro amore finito, causa il progetto di ricostruzione della Cittadella, incontra una stravolgente segretaria, Roberta, cui non può fare a meno di inviare delle rose gialle. 
In un simile altalenarsi e di ricordi legati a momenti felici o amari, compare all’improvviso Darly, emersa dal suo passato come per l’effetto inesorabile della stravagante teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche. 
Darly e Telemaco si danno appuntamento in un caffè. Mentre Telemaco aspetta Darly, che stranamente non si presenta, conosce Milena, appassionata di letteratura, che lo invita a casa sua e lo seduce nella sua preziosa biblioteca, dopo una dotta disquisizione sulla letteratura erotica. Telemaco, al contrario di Milena, esprime un giudizio diverso, opposto, sul romanzo Porci con le ali, valutandolo rispetto al tempo in cui è stato scritto. 
Cosa che io condivido pienamente. Infatti ritengo che un’opera letteraria debba soprattutto rappresentare il proprio tempo. Sono d’accordo con Milan Kundera quando afferma che niente meglio della letteratura può farci capire lo spirito di un popolo o di un paese. Specialmente in un determinato periodo storico.
Ma a questo punto il valzer degli incontri si complica parecchio. Roberta telefona al nostro protagonista è gli dà un appuntamento nel pomeriggio e anche Milena lo chiama, sempre per un incontro pomeridiano. Poi gli telefona Darly, per un appuntamento in serata. Infine gli telefona Thania, che lo vuole vedere per parlargli. 
C’è poco da fare, il gioco si fa duro per il nostro Telemaco! Che a un certo punto, sul finire del racconto, pare penetrare in una dimensione assolutamente surreale, alla Magritte per capirci, dove tutto sembra maledettamente vero ma impossibile. 
Darly, Roberta, Thania, Milena divengono in questa finale di irrealtà come spettri oppressivi per la mente di Telemaco, smarrito nelle proprie indecisioni. E qui mi fermo, per non svelare altro sulla conclusione della vicenda, per non togliere al futuro lettore il gusto di scoprirlo da sé. 
I luoghi della narrazione sono pochi, essenziali ed imprecisati, fatta eccezione per la veloce escursione nella campagna circostante, nel casolare di Roberta, la visita a Darly nell’appartamento con vista sul fiume e nella casa biblioteca di Milena. 
Gran parte della storia si svolge nello studio di Telemaco, o nella caffetteria all’angolo. Ne La strana giornata del dottor Telemaco Pidora, titolo che io avrei dato al racconto, i tempi della narrazione appaiono dilatati, sia per l’uso costante dei dialoghi, speso prolungati, le descrizioni accurate e il continuo ricorso da parte del protagonista all’introspezione. Ma tutto questo è chiaramente funzionale alla trama. Nondimeno, si notano alcuni sfumati modelli di riferimento: Joice vagamente, Svevo forse, il D’Annunzio de Il piacere probabilmente, pure se l’autore non può fare a meno di dichiarare il suo amore per la storia con una veloce trattazione, svolta in forma colloquiale, intorno alle faccende dei governi dell’Italia unita e delle varie leggi elettorali che si sono susseguite nel tempo. 
Le parole sono quelle del nostro tempo, con l’utilizzo di espressioni legate alla lingua parlata come per il verbo bypassare, ma con delle ricercatezze usate specialmente nelle fasi descrittive di luoghi, nelle situazioni passionali e nella rappresentazione degli stati d’animo. 
Mi ha incuriosito molto l’utilizzo del verbo almanaccare, usato una sola volta nell’intero scritto, allo stesso modo del Manzoni, che pure lo usa una sola volta ne I promessi sposi. Nell’intero scritto, improntato ad una certa pulizia formale, si incontra una sola parolaccia alla pagina 143, scappata dalla bocca di Carlo, proprietario della caffetteria. «Che stronzi farabutti» dice parlando di certi figli di papà. Nessuna critica negativa al romanzo – che, se all’inizio sembra un po’ lento, sul finire diventa avvincente - tranne l’utilizzazione dell’espediente del manoscritto ritrovato per caso che è un accorgimento già troppo usato (da Manzoni a Eco). 
Io, è risaputo, predilgo una narrazione più veloce ed avrei snellito un pochino il testo, dandovi una dimensione, se così si può dire, cinematografica. 
Ma questa è soltanto una mia considerazione, fin troppo soggettiva. L’autore, invece, e secondo il mio pensiero, usa i tempi e le movenze del teatro, con le donne che sono le vere padrone della scena. Che accerchiano il protagonista e lo braccandolo come una preda predestinata alla sconfitta. 
Voraci, bellissime, tentatrici, esseri diabolici spediti sulla terra dal profondo dell’inferno a stravolgere la vita di Telemaco, pure lui un po’ vampiro, attratto dai profumi ingannevoli e dalle plastiche forme femminili, predisposto purtroppo ad abboccare. Milena, Roberta, Darly, Thania, quattro in effetti le donne intorno al cor, sono sicuramente loro a calamitare la spontanea morbosità del lettore. 
Sembrano far parte di una infida confraternita, che implacabilmente porta a compimento il loro piano, come nel teatro dell’assurdo, in una illogica concatenazione dei fatti. Bene, concludo ricordandovi il componimento in rima citato dall’autore nel titolo dell’opera.

Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore:
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute
che ’l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
e cui vertute né beltà non vale.

(…)

Dante Alighieri, Tre donne intorno al cor mi son venute (Rime) 1302-1304 circa.

 

 

2020 © Giuseppe Lucio Fragnoli

GANIMEDE E L'AQUILA di BERTEL THORVALSEN

 

(1817 89.6 x 119.3 x 48.8 cm - Copenaghen, Thorvaldsen Museum)

 

Il mito di Ganimede 

Ganimede, bellissimo figlio di Tròo e di Calliroe, secondo la tradizione mitologica, fu rapito da un’aquila mandata da Giove, o più probabilmente dallo stesso padre degli dei, tramutatosi in una meravigliosa aquila, per assegnare al giovane la mansione di coppiere alla sua mensa, già riservata alla graziosa Ebe. Cosa questa che suscitò il risentimento di Giunone –  che di Ebe era madre –.

Ma il motivo vero dell’irritazione della dea poteva più sicuramente essere rapportato al fatto che il singolare rapimento del leggiadro giovane era stato condotto per ben diverso ed inconfessabile scopo.

In ogni caso, Giove non mancò poi di risarcire Tròo, per il torto che gli aveva arrecato, facendogli recapitare da Mercurio un vitigno d’oro e due cavalli velocissimi.         

Il riprovevole mito di Ganimede fu utilizzato soprattutto come discreto e quasi necessario alibi per legittimare l’imperversante omosessualità nel mondo greco antico.

 

(…)

de’ mortali il più bello, e degli Dei

rapito in cielo, perché fosse a Giove

di coppa mescitor per sua beltade,

ed abitasse con gli eterni.

(Iliade, XX)

 

Lettura dell’opera

L’opera rappresenta il bel Ganimede che porge, servizievole e sottomesso al volere del suo padrone, ancora celato sotto le spoglie dell’aquila che lo ha appena rapito, una coppa ricolma di vino per abbeverarlo, anticipando così il suo destino di coppiere alla mensa degli dei e di condiscendente concubino.

Tutto il mito è dunque perfettamente narrato in una sola figurazione in cui, parafrasando l’Iliade, il più bello “de’ mortali” si abbassa in una postura ossequiosa ma sobria, perfettamente naturale, di fronte al fiero volatile, per porgergli con una mano una coppa dello squisito nettare, appena versato dalla brocca che tiene nell’altra mano. Il suo volto ed il suo sguardo incolpevole sono rivolti verso la coppa da cui beve il suo signore, trasmettendo una sensazione di paziente attesa e condiscendenza.

Nella scultura del “Fidia danese”, si riflettono tutti i principi neoclassici. Ed infatti le espressioni sono contenute e pacate, e si accompagnano ad una straordinaria purezza formale, ove lo scultore persegue un’idea di bellezza suprema, antica e perenne. Il suo ideale di bello rimanda direttamente alle stilizzazioni canoviane e alle osservazioni estetiche di Winckelmann, che vede nell’antichità classica la via maestra che porta alla modernità, al vero stile.

 

Brevi notizie sulla vita

Bertel Thorvaldsen (Copenaghen 1770 - 1844) è universalmente considerato uno dei maggiori esponenti del neoclassicismo.

Visse ed operò soprattutto a Roma, dove svolse un serio studio sull’arte antica e dei modelli scultorei greci e romani, affermandosi subito come artista colto e di talento,  ottenendo numerosissime commissioni.

Le opere più rappresentative sono Il Giasone (1803), Ganimede e l’aquila (1817), Cristo e gli Apostoli (1821-27), Monumento a Pio VII.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.

GIUSEPPE LUCIO FRAGNOLI

L'ORGOGLIO DEL PAGLIACCIO, il nuovo romanzo di G. Lucio Fragnoli

La vendetta.  Era l’unica possibilità che mi avevano lasciato gli “assassini” della mia anima e i “ladri” della mia pubblica onorabilità. An...