Lo straordinario romanzo di Giuseppe Lucio Fragnoli, Noir napoletano, ISBN 978 88 249 18909, è stato pubblicato nell’agosto del 2018 da BOOKSPRINT EDIZIONI, la giovanissima e fenomenale casa editrice di Vito Pacelli. Si tratta di un noir, ovviamente, ambientato a Napoli e dintorni, che sicuramente stupirà i lettori per la particolarità dei personaggi, per l'originalità delle situazioni narrate e per i contesti dentro cui si dipana la trama.
SINOSSI DI NOIR NAPOLETANO
Il ritrovamento del cadavere di un noto penalista dà inizio a una tenebrosa vicenda, intasata di contrattempi e di colpi di scena. Che si susseguono confusamente in una Napoli mirabolante e in luoghi ad essa perfettamente concatenati.
Nei convulsi sviluppi del pasticciaccio − una spietata e infinita faida malavitosa − capitano per caso due investigatori privati. Che si avventurano in un pericolosissimo gioco, ordito ad arte da un folle e sanguinario personaggio, per cercare di averne in fine un tornaconto, muovendosi affannosamente dentro uno scombinato scenario affollato di insidie e di foschi figuranti.
Noir Napoletano si può leggere gratuitamente su Google Libri, ed è disponibile in eBook (€ 4.90) e in formato cartaceo (€ 17.90). È acquistabile on line su Amazon e sui siti commerciali delle maggiori case editrici italiane.
RECENSIONE di NOIR
NAPOLETANO di MICHELE GRAZIOSETTO.
Caro Lucio,
voglio esprimerti le
mie riflessioni sul tuo romanzo Noir Napoletano. Innanzitutto il genere
poliziesco da te proposto mi ha intrigato, anche se non sei nuovo a questa
scrittura.
I miei ultimi colloqui
letterari con il compianto Giuseppe Petronio, lo storico della letteratura
italiana che amò la sociologia e l’applicò come chiave di lettura nelle analisi
delle varie opere del panorama culturale europeo, riguardavano proprio il
filone poliziesco. Lui stesso era presidente – dalle parti di Trieste – di un
premio letterario che giudicava opere esclusivamente poliziesche. Anche noi da
ragazzi abbiamo consumato valigie dei cosiddetti “gialli” e in particolare di
quelli americani. D’altra parte in Italia questo genere si è fatto gradatamente
strada, anche se la tradizione critica del Novecento non l’ha molto amato,
anzi. Oserei dire che lo ha snobbato. Tra questi – mutatis mutandi e se è lecito aggregarmi alla cosiddetta critica
militante – anche io ho sempre nutrito una sorta di rifiuto a far rientrare il
giallo nel novero della grande tradizione letteraria. Proprio di ciò si
discuteva con Petronio: se è opportuno riammettere tra le forme letterarie
anche il romanzo a sfondo poliziesco. Egli – Petronio – allargando le braccia,
mi chiedeva che cosa in Italia – tranne pochissime eccezioni – ha prodotto la
letteratura, sia nel genere del romanzo tradizionale, sia in poesia. Egli
parlava di desolazione, di avvilente silenzio, di tradimento culturale, tanto
più se si pensa che le case editrici stabiliscono il numero delle pagine (non
più di cento, centocinquanta). Come se un’opera fosse espressione della chimica
farmaceutica!
Addio fantasia dello
scrittore, addio ricerca della parola, insomma addio a molte antiche cose dal
sapore moderno e contemporaneo! E citava per tutti – Giuseppe petronio – i casi
letterari di Verga nell’Ottocento e di Tomasi di Lampedusa nel Novecento. La
loro fortuna non venne subito, anzi. Si dovette attendere non poco!
La colpa è di certa
società nuova, che nel momento in cui essa si forma, per mania di originalità,
cerca di spazzare via i fili della memoria, quelli che ci tengono legati al
passato, se è vero che la nostra aridità è la nuova condizione esistenziale,
allora bisogna fare i conti con ciò che abbiamo innanzi, cioè la ricca
fioritura del giallo che, vuoi o non vuoi, è e rimane scrittura, e con questa
bisogna confrontarsi. Di fronte a così grande maestro non ho potuto che
zittire, non per timidezza reverenziale, né per pochezza di argomentazioni, ma
proprio per quel richiamo alla scrittura, che ci avvolge e ci deve condizionare
nel giudizio. Altrimenti di che cosa si deve occupare la letteratura?
Perciò, caro Lucio, ho
letto il tuo romanzo ripensando all’indimenticabile petronio e per questo te ne
ringrazio, perché è stata un’ulteriore occasione per continuare con lui un non
interrotto colloquio. Chi ascolta e sa che cosa vuol dire incontrare un maestro
mi capirà benissimo.
Ma veniamo al romanzo.
Ti dico subito che l’ingegno inventivo non manca affatto, anzi sei una sorta di
locomotiva a vapore in grado di macinare metri e metri di rotaie senza fermarti
mai. Sei capace di far divertire il lettore, di distrarlo e di rimetterlo nella
carreggiata. A volte fai il lezioso con qualche elegante citazione, scuci
qualche bella immagine degna del migliore Edgar Allan Poe, riesci a tritare
linguaggi misti (dal napoletano al romano, all’aulico volgare) e sei in grado
di scendere fino agli ultimi gironi del degrado linguistico e a risalire la
china con la massima disinvoltura. Non potevi fare diversamente per legare la
tua trama poliziesca a quell’inferno che è il sottobosco malavitoso napoletano,
fatto di ignoranza, di guapperia, di aspirazione ad un benessere illusorio e
mai appagante. D’altra parte gli ammazzamenti a cui ci fai assistere in varie
soluzioni pirotecniche (sparatorie, bombe, accoltellamenti vari) sono
quotidianamente sotto i nostri occhi ad ogni apertura di telegiornale, così
come le modalità organizzative della camorra, con i suoi capetti, sicari, capi
clan, spioni, traditori, eccetera.
Certo, per questo
scenario bestiale non avevi altra scelta che un linguaggio truculento e
volutamente volgare. Ma quella che mi è senz’altro piaciuta è la doppia linea
narrativa: da una parte, la quotidianità di due giovani che si arrabattano per
tirare avanti, appoggiandosi a qualche amico per avere commesse sulle “corna
altrui”, dall’altra, la storia del tesoro malavitoso nascosto.
La trama, con qualche
sforbiciata qua e là, non è male, anzi nella seconda parte, quando lo scenario
si fa più chiaro, diventa avvincente.
Quello che non sempre
torna, a mio parere, sono le continue fughe dell’autore nell’inventare brevi
gag, quasi volutamente, per distrarre il lettore. Insomma, per vedere se il
lettore, momentaneamente distratto dalla nuova storia, si precipita nelle
pagine successive per riannodare il filo del discorso. Tra le varie scenette quella
di Reginella è la più spassosa: sa di disperazione napoletana, sa di donna che
a tutti i costi deve avere un merlo (o pollo che sia) al suo fianco, altrimenti
gli spacca “’i cosse a quatte piezze” se osa abbandonarla.
Anche la scena della
trasmissione televisiva di Reginella è una bella trovata, con i commenti
casalinghi delle brave donne di famiglia che, commosse e convinte dalle lacrime
della giovane, ammazzerebbero quel giovinastro che l’ha piantata, cioè proprio
Doc che è lì davanti a loro, ammutolito se non stizzito dalla sceneggiata
napoletana. Anche le due esperienze con la baronessa Ustinova e la bella
ostessa da parte di Joe hanno un buon impasto, e devo dire che l’autore
scrivendo mi è parso lui stesso divertirsi. Non è raro che uno scrittore fa
compiere ai suoi personaggi immaginari quello che lui stesso nella realtà
vorrebbe fare, ma senza riuscirvi. Perciò la fantasia si sfrena e la penna
corre senza fermarsi, anche quando sarebbe necessario. Non mancano anche
momenti moralistici: perché la camorra? Perché il malaffare? Perché la
televisione spazzatura? Perché insomma tanta zozzeria nella società napoletana,
che ha nel sangue tradizioni di millenaria cultura e bellezza?
Ci sono alcuni slarghi
paesaggistici anche piacevoli, degni della migliore Napoli ed ogni tanto
qualche apertura sul territorio – Scauri e Sperlonga per esempio – con il suo
mare reso quasi muto d’inverno. Ma con quanta poesia senza le orde estive che
trasformano la quieta cittadina in un brutto surrogato della peggiore Napoli!
Infine l’arabesco della
mappa del tesoro – in alcuni punti un po’ forzata – alla fine tiene uniti tutti
i pezzi e promette ai due giovani – grazie all’ingegno e alla voglia di
affermarsi – di pervenire alla vincita che altro non è che il caffè pagato del
pazzo signor Cavallo (più di dieci miliardi) alla genialità di chi è stato in
grado di seguire il suo gioco pericoloso.
Speriamo che tu, Lucio,
nel prossimo romanzo ripulisca le storie che a lui possano sembrare tali, che
mitighi qua e là il linguaggio, consapevole che si può anche gridare meno per
farsi ascoltare e apprezzare.
RECENSIONE di NOIR NAPOLETANO di
FILIPPO GIULIANO.
Ho letto
tutti i romanzi di Lucio e, come spesso accade, quando ami un autore, apprezzi
ogni suo scritto. Ma, non è dato di sapere il come e il perché, qualche opera
ti cattura in modo particolare e ti lascia dentro radici profonde.
A me è
capitato con La festa dei cani e Miracolo al bar, nei
quali ho riscontrato molte affinità di pensiero, di sentimenti e frammenti di
vita, che possono essere accostati, senza ombra di dubbio, ai miei.
Ho
provato le stesse sensazioni e lo stesso trasporto emotivo leggendo Noir
napoletano. Come ogni giallo, la vicenda si apre con un assassinio, letale e
perverso, di un noto penalista, l’avvocato della camorra, Clemente
Fazzolino, il cadavere del quale viene rinvenuto in un’auto abbandonata in uno
squallido anfratto della campagna campana, nei pressi della foce del fiume Garigliano.
Nei
momenti che avevano preceduto il suo tragico addio alla vita si era pure
pisciato sotto, dato che nella vettura persisteva un residuo sentore di urina.
Gli avevano sparato in bocca, come si capiva dal rivolo di sangue raffermo
che sorgeva da dietro la nuca, da sotto la posticcia capigliatura, e dalle
dense colate rossastre che fluivano dalla bocca spalancata. Un colpo solo. Una
sola maledettissima pallottola partita dalla rivoltella di un uomo parecchio
freddo e spietato.
Il morto
indossa reggiseno e mutande di pizzo da donna, calze a rete, e una parrucca di
capelli nero corvino. L’assassino ha volutamente lasciato nella Volvo station
wagon 940 Finke alcuni indizi che farebbero pensare a un delitto legato
alla viziosità del Fazzolino.
Ma
dietro un tale agghiacciante assassinio si cela una vicenda intrigata e
tremenda, nella quale vengono coinvolti i detective privati della Falco
& Lasco Investigation, Doc e Joe, astuti e capaci, dai trascorsi
alquanto sfortunati, i quali, per sbarcare il lunario, si arrangiano come
possono, adoperandosi in indagini di poco conto, storie di corna soprattutto. A
Joe e Doc non manca però il coraggio e la spregiudicatezza che li porta ad
avventurarsi in una situazione pericolosissima, dai contorni quasi surreali.
Tutti i
personaggi coinvolti nella singolare narrazione, perfettamente caratterizzati,
si muovono in una Napoli viva e brulicante, dai vicoli chiassosi e confusionari
ai locali affollati da un’umanità imponderabile, continuamente affaccendata nella
lotta della sopravvivenza.
La città
stessa, dai quartieri affollati e chiassosi, mostra la sua vera anima, comica e
terribile insieme.
La
realtà napoletana, perfettamente controversa, con una faccia violenta e
disgraziata e una faccia intrisa di umanità traspare da ogni pagina del libro:
quando i protagonisti mangiano in trattoria, attorniati da altri abituali
avventori, personaggi soltanto abbozzati dalla sapiente penna dello scrittore,
i quali però assumono una rilevanza quasi teatrale; o quando i due detectives
vanno al bar per il solito espresso, lasciandone uno pagato per gli
squattrinati di passaggio.
Insomma, dal romanzo, non in sordina, ma alla pari dei principali attori della storia, emerge quella Napoli rumorosa, ciarlona, impicciona ed altrettanto umana, che solo chi conosce bene può apprezzare. Non a caso, ieri Leopardi e Goethe, oggi Arbore, Dalla e molti altri sono divertiti napoletani d’adozione. Lo stesso autore, in Noir Napoletano, mettendo in scena la realtà napoletana in modo veridico quanto particolareggiato, ci appare come un figlio adottivo di questa città, talvolta odiata, e infinitamente amata.
MARIO TIEGHI
intervista l’autore.
Il giornalista prof. Mario Tieghi
Qual è
la differenza di umore tra Noir napoletano e gli altri
romanzi che hai scritto?
Rispetto ai miei precedenti
libri, in Noir napoletano c’è, forse, un maggiore pessimismo,
riscontrabile nel susseguirsi degli eventi delinquenziali che si compiono
scelleratamente, ed in modo inesorabile. Senza che alcuna forza esterna ad essi
possa modificarli o porvi fine. Sono io,
disilluso, che guardo il mondo “dal buco della serratura,” per dirla alla Degas.
Ma c’è anche una parte di me, che è rimasta ferma a La festa dei Cani e
a Miracolo al bar, che rimane inguaribilmente ottimista e fiduciosa
verso una buona fetta di umanità, sensibile al bene comune, amante delle cose
che gira loro intorno. Infatti, i protagonisti del romanzo, che sono delle amabili
canaglie, persino dei bonaccioni in certi frangenti, troveranno prima il tesoro
e infine se stessi…
Mafia,
camorra, malaffare: Quanto c’è di reale nelle pagine dell’ultimo romanzo?
Poco
invero, per quanto riguarda la storia. Che è letteralmente inventata di sana
pianta, ma con alcuni voluti riferimenti a qualche trovata di Sergio Leone,
come, per esempio, il luogo dov’è sepolto il malloppo, ossia il camposanto.
Questo lo considero un omaggio al grande regista scomparso, un maestro per
tutti, sotto ogni punto di vista. C’è poi la ripresa del tema a me caro del
doppio, sviluppata per la prima volta in letteratura da Stevenson. Per il
resto, tranne qualche altro doveroso atto di ossequio al padre del giallo Edgar
Allan Poe, agli spaventevoli Beckford e Stoker, all’insuperato Dumas padre,
posso tranquillamente affermare che l’indicazione dei luoghi e i nomi dei
personaggi, e nondimeno la sostanza dei fatti narrati, sono del tutto casuali.
Naturalmente vi sono degli episodi, come il ritrovamento di cadaveri
pistolettati o carbonizzati, o lo sterminio completo di una famiglia
nemica, che fanno parte dell’abituale agire dei clan malavitosi campani. Ne
sono piene le pagine di cronaca dei quotidiani locali, ai quali ho
sommariamente attinto. La risolutezza, l’efferatezza e la teatralità di certi
crimini sono proprie soprattutto della camorra, che con tali turpi bravate si
propone di trasmettere un preciso messaggio di terrore alle popolazioni. La
camorra, a differenza della mafia, non ha un’organizzazione piramidale, ed il
controllo del territorio è assai frammentato e duramente conteso da una
moltitudine di clan, spesso in perenne lotta tra di loro. Ne consegue che di
tutte le confraternite criminose la camorra è senz’altro la più sanguinaria e
pericolosa.
Il Papa
di Napoli. Quanti effetti simbolici esprime il personaggio?
Il Papa
di Napoli è un’invenzione di un personaggio del romanzo, lo scrittore Ciro
Mazzone, il quale, tramite la sua balzana fantasia, vuole rifilare al popolo
un’autorità fittizia, un feticcio plebeo e triviale, al disopra del bene e del
male, che sia di giustificazione all’ignavia e all’indolenza dei partenopei.
Per me che, per mezzo del visionario scrittore, l’ho tirato in ballo, il Papa
napoletano è pressappoco la stessa cosa: è il simbolo di una città che ha
smarrito le ragioni della sua millenaria cultura, che arranca in un carnevale
tragico, aggrappandosi ad una maschera dissacratrice, per esorcizzare le
proprie sventure: il giogo della malavita, la cronica miseria degli strati
sociali più deboli, l’impotenza di poter cambiare le cose.
Quale
modello di scrittura ha maggiormente influenzato questo cambiamento di genere
dell’autore Fragnoli?
Non mi
sono rifatto ad un preciso modello di scrittura, piuttosto ho adattato il mio stile, che risente di quello di alcuni
narratori nordamericani, tipo Paul Auster o Jack Kerouac, tanto per fare
qualche nome, a delle reminiscenze di alcune opere scritte in un italiano
“napoletanizzato” da autori come Starnone, De Crescenzo, Rea, che usano il
verbo tenere al posto del verbo avere. Insomma, c’è qualcosa di
tutto questo in Noir napoletano, specialmente in alcuni dialoghi o in
certi grotteschi battibecchi da osteria. Ebbene, accanto alla normale e torva
cronaca odierna, ho immesso nella mia storia qualche frammento di quella
Napoli sparita dei film del dopoguerra. Il cambiamento di genere sembra esserne
la conseguenza, si passa dalla divertita ironia de La Festa dei cani e
di Miracolo al bar all’ humour nero. In realtà questo cambiamento era
già in parte avvenuto con Tutta colpa di Capuozzo…
Anno
1999, primo romanzo; 2003, sesto lavoro librario. Quali sono le novità e le
attese per uno scrittore cresciuto nella terra pontina?
Quando
scrissi e pubblicai La festa dei cani, con qualche sacrificio economico
invero, ma con un grandissimo entusiasmo, capii presto, ma solo in quel preciso
momento, che la strada sarebbe stata tutta in salita, sebbene il libro avesse
un insperato successo. Ne feci stampare più di seicento copie, che andarono a
ruba nel giro di un paio di mesi o poco più. Merito dei miei alunni del Liceo
L. B. Alberti, probabilmente, che ne fecero incetta, pubblicizzandolo
anche, in maniera commovente. Merito anche del Preside, Michele Graziosetto,
persona di grande spessore umano e intellettuale. Poi scrissi Quell’impicciatissima
vicenda…, pubblicato da Firenze Libri, che registrò, lo dico senza
falsa modestia, lo stesso successo di pubblico. Con Miracolo al bar,
breve romanzo faticosamente auto prodotto con miseri mezzi, editato non bene
in realtà, ma un buon libro, scritto col cuore, riscontrai amaramente una
viscida ostilità da parte di critici locali dell’ultima ora. Scrissi Ottocento
e Tutta colpa di Capuozzo, con l’aiuto di qualche amico che contribuì
alle spese. Per il resto, niente. Mai un congruo aiuto pubblico. Una fatica
tremenda, pure per un articoletto di giornale. Cosa mi aspetto? Non molto.
Scrivo per passione…
Noir
napoletano può essere reso a rappresentazione filmica della vita?
Certamente, visto che il
contenuto complessivo ha a che fare con l’imprevedibilità e la complessità
dell’esistenza. In Noir napoletano, rispetto agli altri miei libri, c’è
sostanzialmente la consapevolezza della stupidità del male. Il male che, però,
finisce per avere sempre il sopravvento, col suo non so che, che
esercita sempre un suo discreto fascino nella vita d’ogni individuo, e finanche
nella mente suggestionabile di un narratore.
Quali
parti ha inteso assegnare ai personaggi ed alla società in genere il regista Fragnoli?
Alcuni
personaggi come il dottor Frate, Ciro Mazzone, Raffaelle Cavallo, sono tutti
pervasi da una vena di follia, e soltanto nella follia concretizzano le loro
aspirazioni. Altri personaggi, come donna Sofia, il dottor Maccarone, donna
Titina, eccetera, si realizzano nel tradimento. Insomma, nessuno sembra essere
contento della propria condizione e se ne sdoppia o, almeno, tenta. Altri si
improvvisano cacciatori di tesori, come Ciccio Quaranta e i nostri eroi Joe e
Doc. Ma tutti, nessuno escluso, anche la disincantata baronessa Ustinova,
lottano per dare un senso alla loro esistenza, per godere di una qualche
particolare ed eccitante impresa o per realizzare un sogno. Vivere alla
grande è la parola d’ordine di tutti, nondimeno dei truculenti malavitosi,
che lo fanno sul sudore e sul sangue dei propri simili: una tragicommedia
umana.
Nel
testo appaiono pagine drammatiche ed ironiche, quale dei due sentimenti è più
vicino al tuo pensiero di scrittore e perché?
Entrambi,
per questo ho cercato di fonderli insieme. Volevo ottenere una specie di
grottesca e paradossale miscela, con variazioni di umore e cambiamenti di
scena, per sorprendere il più possibile il lettore. Beninteso che al dramma
preferisco l’ironia. Dicono che l’ironia sia il sale della saggezza.
Ti sei
mai chiesto, mentre buttavi giù le pagine di questo romanzo, a quali persone ti
stavi rivolgendo? Donne, uomini, giovani o chi altro?
A tutti,
indistintamente, ma in particolare ai giovani. Il mio lettore ideale, quello
che immagino nella mia testa, è persona abbastanza colta, giovanile, per niente
bacchettona e al passo coi tempi, informata e vivace di spirito: un lettore
scafato, non condizionato culturalmente e ideologicamente.
In che
modo un romanzo come Noir napoletano può contribuire
a risvegliare la voglia di leggere?
Il
problema è assai complesso. Ma da persona molto franca, dico questo: per
rinfocolare l’amore per la lettura bisogna proporre al lettore dei bei libri,
con storie ben scritte, intriganti ed attualizzate, che lo coinvolgano il più
possibile. Noir napoletano è una storia di questo tipo.
Tu, che
conosci, mediante una cultura adeguata i diversi generi narrativi, in che
maniera il tuo nuovo romanzo può aprire verso una strada nuova di
interpretazione letteraria?
Noir
napoletano non appartiene ad un genere definito: è insieme
un noir e una favolaccia. Rappresenta un tentativo di mettere insieme generi
diversi: è una sorta di cocktail letterario, che, ho già detto, si avvale pure
di “ricordi” cinematografici.
Non
possiamo nascondere che Giuseppe Lucio Fragnoli è un artista della penna, le
sue storie le vive all’interno e le sa trasmettere a chi legge, ma ti sei mai
chiesto i tuoi traguardi futuri?
Spesso.
Io penso che molto nella vita dipenda dalla fortuna. Quando scrivo, però, mi
preoccupo soprattutto di creare una storia divertente e nello stesso tempo
interessante. Chi scrive, secondo me, è bravo se sa dire le cose. I
traguardi che uno può raggiungere dipendono da questo. Penso che chi si applica seriamente, prima o
poi sarà premiato. Quando scrissi La festa dei cani riuscii a
caratterizzare i personaggi con pochi dialoghi, ma, secondo il mio modesto
pensiero, alquanto indovinati. Impostai il libro sulla lingua parlata,
copiando certe espressioni da persone che avevo incontrato. Ne risulta che il
libro ha una sua accattivante vitalità, su questo tutti sono stati d’accordo.
In Tutta colpa di Capuozzo ho fatto altrettanto, ricopiando di sana
pianta una volgarotta corrispondenza tra due giovani, scritta su un muro della
stazione ferroviaria di Minturno. Dovevo fare così se volevo dare verità alla
storia, se la volevo rendere attuale. Uno che scrive deve avere coraggio: è la
qualità di cui ha più bisogno.
●●● L’intervista
è stata da me realizzata per essere pubblicata sul periodico d’informazione
pontino Sabaudiain.it NEWS (redazione @ sabaudiain.it), di
cui sono Direttore, prima che il libro andasse in stampa. Ritengo che
attraverso di essa, e meglio che tramite la solita prefazione, si possa davvero
cogliere lo spirito con il quale l’autore ha concepito i suoi precedenti
romanzi e questo in particolare. Ne è scaturito un dialogo vivace, con battute
e risposte piene dell’humour solito dello scrittore docente Giuseppe Lucio
Fragnoli.