Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Giuditta e Oloferne (1599, olio su tela, 145 x 195 cm) Roma, Galleria d’Arte Antica.
DESCRIZIONE
DELL’OPERA.
Si
tratta di un’opera assolutamente anticonvenzionale per l’epoca, data la
crudezza della rappresentazione cui, tra l’altro il Caravaggio non era nuovo, eppure
per l’originalità di interpretazione del tema sacro, con un’avvenente popolana nei
panni dell’eroina ebraica, pettinata e vestita secondo la moda del tempo.
Difatti,
la modella utilizzata dal Merisi per la sua Giuditta, secondo Roberto
Longhi, è la stessa della Santa Caterina, della Fillide e della Marta
e Maddalena, ossia la bella Caterina Campani, moglie dell’architetto Onorio
Longhi.
Sappiamo
che la singolare storia di Giuditta è narrata in un libro della Bibbia a lei
interamente dedicato. Si tratta però di un libro teologico, non storico, in cui
la protagonista incarna l’intero popolo d’Israele salvato da Dio, seppure per
mano umana. Giuditta, animata da una grande fede nel Signore, restò vedova del
marito Menasse, morto a causa di una insolazione.
Nella
Bibbia si dice: «Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona, inoltre
suo marito Menasse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti
e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Ma nessuno poteva dire una
parola maligna al suo riguardo, perché temeva molto Dio.»
Ebbene,
la città di Betulia era assediata dall’esercito di Oloferne, generale di Nabucodonosor,
con gli abitanti stremati dalla fame e dalla sete, rassegnati a capitolare.
Giuditta si offrì allora di salvarli, recandosi nell’accampamento nemico in
compagnia di un’ancella, con lo scopo di sedurre e uccidere il comandante degli
assiri, spacciandosi per traditrice del suo popolo e pronta a mettersi al
servizio del nemico. Entrata nelle grazie del generale, che l’aveva accolta e
ospitata per tre giorni, dato che la bramava dal primo istante che l’aveva
vista, Giuditta il quarto giorno, quando si fece buio, riuscì a restare da sola
con Oloferne nella tenda del guerriero, con lui buttato sul divano, ubriaco
fradicio, sotto un baldacchino intessuto di porpora, d’oro e di gemme.
Nella
Bibbia è scritto: «Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del
capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostandosi al letto,
afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele,
in questo momento.” E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte
al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal
giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la
testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri
e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il
campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e
giunsero alle porte della città.»
Bene,
dell’intera e lunga narrazione, che fa parte delle quattro salvazioni d’Israele,
l’artista lombardo sceglie il momento più cruento e drammatico, il momento in
cui l’assassinio si sta consumando, pur se per una nobile ragione e per l’inoppugnabile
volontà di Dio. Sicuramente il pittore conosce per intero il racconto biblico e
sceglie lo sgozzamento, ma, come già fatto da altri – Vasari per esempio – opera
una sintesi, inserendo l’ancella nella scena del crimine, allestendo in tal
modo la messinscena pittorica con un personaggio in più rispetto alla versione
originale della vicenda, in cui il ricco baldacchino porporino si riduce a una
tenda avvoltolata per aria.
L’eroina
ebraica è in piedi, quasi al centro della scena, e sta scannando il generale
ubriaco fradicio con la sua stessa scimitarra. Siamo al primo colpo fatale che recide
il collo, da cui sgorga un abbondante fiotto di sangue. Oloferne si dimena convulsamente
mentre sul suo volto gli si imprime una disperata maschera di terrore, con l’urlo
disperato strozzato in gola e con gli occhi vitrei rivolti verso la carnefice. Evidente
è la trasposizione della figura scolpita di Laocoonte in quella di Oloferne,
coi dovuti aggiustamenti. Giuditta impugna con forza l’arma del delitto con la
mano destra, mentre afferra per i capelli la sua vittima con la sinistra. I suoi
lineamenti sono tirati, i suoi occhi sono fissi sulla contorsione e sul grido soffocato
di Oloferne, in uno strisciante compiacimento che esclude la pietà. Al suo
fianco la vecchia serva assiste all’uccisione con gli occhi pieni d’odio, in un
ghigno sdegnoso, reso persino malvagio dalla sua bruttezza. L’oscurità, che
avvolge l’interno della tenda del generale, unita al fascio di luce irreale che
proviene da sinistra, quasi orizzontalmente, crea un forte senso di volume di
cose e personaggi, riverberando sul corpetto bianco dell’assassina, della
cuffia della vecchia e sugli incarnati, realizzando un senso di orizzontalità bilanciato
da tre larghe zone di colore. È una luce irreale, come sempre in Caravaggio,
una sorta di lampo improvviso che rischiara sinistramente la scena, alludendo
anche all’intervento divino che infonde forza e coraggio nell’animo della bella
giustiziera. Giuditta ha una bellezza vera, per niente ideale, propria di molte
fanciulle nel fiore degli anni. Piuttosto la vecchia appare di una bruttezza costruita,
caricaturale, sgradevole.
Perché,
mi sono chiesto varie volte, l’arguto Caravaggio, si appassiona così tanto alla
rappresentazione del brutto? E nel termine brutto includo ovviamente l’orrido,
il macabro, il fetido e lo sporco. Perché?
Vi
racconto un aneddoto accadutomi molto tempo fa, nel 1992 precisamente. Avendo letto
molte cose riguardo al Caravaggio, comprese alcune conclusioni, alquanto
controcorrente, espresse dal compianto professor Federico Zeri. Volendo scrivere
qualcosa pure io al riguardo, decisi di telefonargli.
La
cosa non fu facile, credetemi, perché il professor Zeri dedicava solo un’ora al
giorno alle telefonate, dalle 7 alle 8 del mattino.
Ebbene,
quando riuscii a parlargli, e gli chiesi del Caravaggio. Lui mi rispose che lo
trovava un pittore odioso e non mi permise di incontrarlo per approfondire il
discorso. Certe volte penso che non aveva proprio tutti i torti, perché trovo
anche io “antipatico” il continuo ricorso al brutto che si nota delle opere del
grande lombardo. Ma di questo mi occuperò seriamente un’altra volta.
BREVE
STORIA DELL’OPERA.
Il
dipinto con Giuditta che taglia la testa di Oloferne, che si conservava,
nel corso di tutto il Settecento, al Palazzo Zambeccari di Bologna,
descritto come opera del Caravaggio da alcuni visitatori del Palazzo, come
Charles de Brosses (1739), Joseph De Lalande (1765), e Lady Anne Miller (1770 –
1771) era in realtà una versione molto variata della Giuditta
caravaggesca, eseguita da Artemisia Gentileschi.
Ciò
è provato, oltre che da documenti sui quali non voglio soffermarmi, proprio e
soprattutto dalla descrizione del quadro fornita da Lady Miller:
“Questo
dipinto è troppo ben fatto e ne rimasi fortemente impressionata; doveva essere
fatto dal vivo. L’idea mi fece tremare e star molto male; produsse gli stessi
effetti che avrei forse avvertito davanti a una vera esecuzione: la separazione
del collo, il sangue che scaturisce dalle arterie spezzate, la forza di
Giuditta e la sua espressione mentre distoglie lo sguardo dall’orrendo compito
che svolge, manifestando tuttavia una ferocia e una sorta di coraggio che poco
si addice a una donna, insieme con il serpeggiare convulso del corpo di
Oloferne, rendono questo quadro ben poco adatto allo sguardo di chi possiede un
minimo di sensibilità: è opera di Michelangelo da Caravaggio.”
La
storia del dipinto caravaggesco è stata chiarita (così come è stato definitivamente
chiarito l’equivoco tra il quadro della Gentileschi e quello del Merisi) quando
il fenomenale Spezzaferro ha scoperto gli inventari del collezionista Ottavio
Costa, patrizio genovese e banchiere dei papi, dell’anno 1632, che conteneva
particolari disposizioni per evitare la vendita di tutte le opere a firma del
Caravaggio facenti parte della collezione, e in modo particolare della Giuditta,
che nell’inventario post mortem della dimora romana del Costa viene
citata come Un quadro grande con l’immagine di Judit fatto da Michelangelo
Caravaggio con la sua cornice di taffetà dinnanzi.
Tutto
ciò conferma quanto riportato da Giovanni Baglione, secondo il quale il Caravaggio
colorì una Giuditta che taglia la testa di Oloferne per li Signori Costi.
Tale informazione aveva fatto individuare al Mahon il committente dell’opera
con Ottavio Costa. La Giuditta è restata sempre a Roma ed è stata, dopo
i Costa, sempre di proprietà di privati fino al 1971, quando è stata acquistata
dallo Stato italiano.
Del
quadro sono state fatte copie di bella fattura eppure molto interessanti, come
quella di Valentino de Boulogne e quella di Adamo Elsheimer, e anche le due
versioni di due caravaggeschi come Bartolomeo Manfredi e Carlo Saraceni, andata
purtroppo perduta.
Giovanni Pietro Bellori alla fine della vita del Caravaggio dedica due pagine a quei pittori che imitarono la sua maniera nel colorire dal naturale, chiamati perciò naturalisti e che sono il Ribeira, il Valentino, Gherardo delle notti, Bartolomeo Manfredi e Carlo Saraceni, di cui, sempre il Bellori, riferisce un curiosissimo aneddoto che mi piace riportare: Soleva Carlo nelli suoi componimenti introdurre eunuchi, e teste rase senza barbe, né solo imitava il maestro nel dipingere, ma ancona nell’altre cose, e perché il Caravaggio aveva un cane nero chiamato Barbone, ammaestrato a far giuochi, anch’egli ne trovò uno simile e gli pose nome Barbone, conducendolo seco a far giuochi nelle conversazioni.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE:
Giovanni Pietro Bellori, Le
vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma: Mascardi, 1672.
Bernard Berenson, Caravaggio,
a cura di Luisa Vertova, Milano: Leonardo, 1994.
Maurizio Calvesi, La
realtà del Caravaggio, Torino: Einaudi, 1990.
Maurizio calvesi, Caravaggio, Art Dossier (aprile 1996),
Firenze, Giunti.
Roberto Longhi, Caravaggio,
a cura di Giovanni Previtali, Roma: Editori Riuniti, 1982.
Maurizio Marini, Caravaggio: Michelangelo Merisi da Caravaggio “pictor praestantissimus”, Roma: Newton Compton, 1987.
©
G. LUCIO FRAGNOLI
IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.
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