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martedì 27 aprile 2021

LA GIOGONDA COI BAFFI di MARCEL DUCHAMP

Marcel Duchamp (1887-1968), L.H.O.O.Q. (1919), Ready-Made rettificato: la Gioconda coi Baffi (cm. 19,7 x cm. 12,4) New York, Collezione Privata.

 


La Gioconda coi baffi di Duchamp è null’altro che una foto-riproduzione della ben più famosa Monna Lisa leonardesca, alla quale l’autore si è limitato ad aggiungere un paio di sottilissimi baffi ed un pizzetto, nonché l’iscrizione L.H.O.O.Q. in una striscia bianca al di sotto dell’immagine - che è il titolo dell’opera - e che, se sillabata in lingua francese, dà la locuzione: Elle a chaud au culLei ha caldo al culo.

Si tratta di quel modo astruso di “produrre comunque arte” in senso tutto dadaista chiamato  ready-made, che significa letteralmente “pronto all’uso” oppure “prefabbricato.” Ma in questo caso l’autore è intervenuto sull’oggetto, già pronto per l’uso, con delle rettifiche, realizzando quindi un’opera di prefabbricazione modificata.

Nella Gioconda coi baffi è chiara la volontà di Duchamp di demistificare un modello culturale, un simbolo stesso del genio umano e del suo potere creativo, in un eccitante gesto intellettuale con cui egli annuncia la “morte di Dio” anche nell’arte. Non vi è, come si potrebbe pensare, nell’autore una volontà distruttrice dell’icona leonardesca, ma piuttosto l’intento di contestarne la diffusa banalità evocativa, costringendo il pubblico a ripensare l’immagine in una dimensione non mercificata e non retorica, sottratta così ai luoghi comuni.

Eppure la Gioconda coi baffi, che di fatto costituisce il sigillo dissacratorio del Dada, di palese irriverenza verso millenari parametri del fare arte, finisce anche essa, inesorabilmente, nei parametri ordinari dell’arte, dato che essa: è stata prodotta nell'ambito definito di una posizione intellettuale e politica; è stata consapevolmente concepita per un fine (e non importa in quanto tempo ed in quali condizioni); ma soprattutto essa costituisce, come la Monna Lisa di Leonardo, un riferimento culturale imprescindibile per la comprensione dell’arte moderna e contemporanea, specialmente alla luce di quel movimento ideologico di cui l’autore è protagonista: il Dadaismo.

Così, mentre la trasfigura, Duchamp ne riconosce implicitamente la valenza quantomeno storica, incrementandone consapevolmente il valore aggiunto, ulteriormente dimostrando che ad ogni immagine corrispondono infinite varianti.

I lavori di Marcel Duchamp sono tutti realizzati con una semplice sequenza di passaggi, spesso dettati dal non senso delle cose e dalla legge del caso, come la decontestualizzazione di un oggetto ed il suo successivo riuso con diverso e improbabile significato, oppure l’uso di un oggetto già provvisto di un significato (prefabbricato), ma criticamente alterato, come nel caso di Elle a chaud au cul. Le intuizioni di Duchamp preludono a quelle di De Chirico, che ispireranno il surrealismo di Magritte.



Marcel Duchamp (1887-1968), Fontana (1916), Ready-Made: orinatoio in porcellana (altezza cm. 51), Londra, Tate Gallery. Replica del 1964.

 

Nel caso della famosa Fontana, un orinatoio smontato da un gabinetto, quindi decontestualizzato e riproposto con un diverso significato, fu riutilizzato come opera d’arte ed esposto come tale dall’autore, che si avvalse dello pseudonimo di R. Mutt

L’opera andò perduta durante un trasloco, dato che gli operai pensarono che fosse un orinatoio rimosso nel corso di una ristrutturazione e quindi da buttare. Ritornato nel proprio contesto l’oggetto aveva perso la connotazione di opera d’arte ed era ridiventato quello che era in origine: un normalissimo pisciatoio.

 

 

IL DADAISMO

 

Il Dadaismo è un movimento di idee che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916, per volontà di un gruppo di intellettuali europei che vi si rifugiano, evitando di partecipare al folle massacro della prima guerra mondiale.

Il gruppo è formato dal pittore e scultore Hans Arp, dal poeta rumeno Tristan Tzara, dallo scrittore tedesco Hugo Ball, i quali aprono il Cabaret Voltaire, un circolo culturale nel quale organizzano manifestazioni originali quanto sconcertanti, tese a demitizzare i tradizionali e secolari assiomi culturali.

Il nome Dada è illogico e accessorio, trovato aprendo a caso un vocabolario. Dada è ribellione contro ogni civiltà: passata, presente e futura, reagisce quindi anche contro correnti artistiche e letterarie come il futurismo, l’espressionismo e il cubismo. È un movimento ideologico e artistico che non ha un’estetica, che paradossalmente nega l’arte: è un controsenso in termini. Obbiettivo principale del dadaismo è quello di distruggere l’arte. Dada allora rifiuta ogni posizione razionalistica, facendo del rifiuto della razionalità un uso provocatorio per abbattere i riduttivi schemi borghesi che attanagliano l’arte.




© G. LUCIO FRAGNOLI   


IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

LA NASCITA DI VENERE di SANDRO BOTTICELLI

 

Sandro Botticelli (1445-1510), La Nascita di Venere (1484-86), tempera su tela (184,5 x 285,5 cm.), Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

 LETTURA DELL'OPERA

 

Il nome del committente della tela, citata nelle collezioni medicee soltanto dal 1550, non ci è ancora noto. Sappiamo però che il dipinto era nella villa di Castello di Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici, insieme alla Primavera.  La fonte letteraria a cui è ispirato il dipinto è riconducibile, molto probabilmente, ad alcuni eleganti versi del Poliziano (Stanze, XCIX-C-CI): 

 

Vera è la schiuma e vero il mare diresti

e verso il nicchio e ver soffiar di venti;

la dea negli occhi folgorar vedresti,

e ‘i ciel riderli a torno e gli elementi…

 

 

Ma non è esclusa, comunque, unulteriore fonte di ispirazione classica, ossia il poema Metamorfosi di Ovidio o più velatamente un Inno Omerico.

Il momento favoloso rappresentato è quello in cui Venere, sopra una grande conchiglia e appena nata dalla schiuma di un  mare calmo e limpido, viene sospinta verso la riva dell’isola greca di Citèra (attualmente Gerico), in aderenza al mito, dai venti Zefiro e Aura. Ad accoglierla cè un’Ora primaverile, dalla veste bianca trapuntata di margherite, che si premura di coprirla con un prezioso manto purpureo ricamato a fiorame.

Gli sbuffi di Aura e Zefiro muovono i lunghi capelli della dea nuda e dall’espressione incolpevole, che cerca pudicamente di coprirsi il seno e il pube. La scena avviene in una visione pressoché bidimensionale, in un paesaggio luminoso, sereno e ospitale, in una accezione della natura in senso classico e platonico: ideale, incontaminata e benevola. I colori sono tenui e chiari, arricchiti da dorature ed effetti di trasparenza.

La figura centrale del dipinto è la leggiadra Venere, dalla tipica sensualità malata botticelliana, dall’incarnato chiaro e perlaceo, ispirata nella postura da qualche modello classico, probabilmente dalla scultura della Venus pudica, nota da copie. Essa è realizzata con una linea morbida e sinuosa, “funzionale e ritmica”, che piega la reale silhouette femminile alle esigenze stilistiche ed estetiche del “sofistico” artista fiorentino, in un modello molto idealizzato, allungato in modo innaturale ma armonioso.

La Nascita di Venere, come ha sostenuto Giulio Carlo Argan,  è certamente collegabile col tema della Primavera –  non a caso i due quadri si trovavano nello stesso ambiente, richiesti dallo stesso committente – a dimostrazione di una riproposizione di temi mitologici in chiave neoplatonica, ove la Venere simboleggia l’Humànitas, espressione che implica erudizione e ricercatezza, connotazioni imprescindibili della cerchia degli intellettuali fiorentini, dal Poliziano al Ficino, in cui orbitava Botticelli. Ciò spiegherebbe il “segno più sobrio e inciso, nel colore magro e trasparente, nella povertà dell’ornamento, il dipinto sembra voler riaffermare, quasi polemicamente, l’essenzialità, la spiritualità, la verità nuda e senza fronzoli del disegno toscano”.

Ernst Gömbrich ha dimostrato che lo schema compositivo della Venere nascente è identico a quello tipico del Battesimo di Cristo, dato che nella tela botticelliana è raffigurata la Venus-Humànitas del Ficino, interpretando la nascita della dea dall’acqua del mare come rinascita dell’anima dall’acqua del battesimo. Cosa questa, che fa affermare a più di uno studioso che l’opera ha un carattere più spirituale che sensuale.

Se confrontiamo il Battesimo di Cristo di Andrea del Verrocchio e la Nascita di Venere di Botticelli vi troviamo sicuramente molte analogie nell’impostazione compositiva, ma da questo a dire che vi sia una trasfigurazione profano-sacro implicitamente o quantomeno segretamente contenuta nel dipinto degli Uffizi, secondo il mio modesto pensiero, è da escludere assolutamente, fermo restando che qualche concreto rimando al neoplatonismo ficiniano è assai plausibile.  


IL MITO DI VENERE E DELLA SUA NASCITA.

 

Afrodite, il cui nome deriva da aphor, schiuma, con il chiaro riferimento alla sua nascita dalla schiuma del mare, è la divinità greca dell’amore, identificata in seguito nella mitologia romana come Venere. Ma la sua origine è indubbiamente fenicio-babilonese. Infatti, come ci informa Erotodo, il primo santuario della dea Afrodite Urania era situato ad Ascalona in Fenicia, prima che a Cipro, ove ne  localizza la nascita e l’appartenenza Omero, ma anche Esiodo, il quale narra che la dea sarebbe nata nelle acque prospicienti l’isola.    

Nell’area del Mediterraneo occidente, il luogo di culto più importante della dea era sicuramente il santuario punico di Tanit, dea dell’amore e protettrice di Cartagine, cui si sacrificavano fanciulli. Esso si trovava sul monte Erice in Sicilia. Nel tempio si praticavano riti di fecondità e la prostituzione sacra. Dalla Sicilia il culto della dea si diffuse fino a Roma, ove veniva adorata con il nome di Venus Erycina.

In Grecia Afrodite, da dea orientale della fecondità, si combina col culto di una antica divinità locale legata piuttosto alla terra. In Omero Afrodite è figlia di Zeus e di Dione.  Per Esiodo la dea appartiene completamente al mondo greco. Infatti, egli racconta che Crono recise il membro del dio del Cielo, Urano, impegnato in un amplesso con la Terra.  Il fallo mozzato, galleggiando sulle onde si tramutò in candida spuma, da cui si generò la creatura divina.

Il racconto potrebbe continuare coi versi di Omero (VI Inno):

 

… La potenza di Zeffiro, l’umido stormitore,

duttile la rapì dalle onde del mare che sempre scroscia.

Le Ore dal diadema d’oro la ricoprirono di vesti

Immortali, il capo le cinsero dal serto d’oro mirabilmente intrecciato…   

 

Dove le Ore sono: Eunomia (ordine), Dice (giustizia) e Irene (pace), che sono figlie di Zeus e Temi ed erano preposte all’ordine della Natura nell’alternarsi delle stagioni.

Giacché era nata dal mare, Afrodite era venerata dai naviganti, non come Poseidone, ma come la divinità che rende il mare calmo e navigabile. Ma Afrodite non tramuta in bello e tranquillo il mare soltanto, ma fa divenire bella e feconda anche la terra. Ella, pertanto, è pure la dea della primavera e, come tale, sospinge all’amore, venendo implicitamente associata al matrimonio, pur non rappresentando propriamente l’unione coniugale, di cui è protettrice Giunone.  Alla dea Afrodite, o Venere, sono sacre il mirto, il melograno, la rosa, nonché la mela, primordiale frutto dell’amore.

L’esatta iconografia della dea corrisponde a quella di una fanciulla di straordinaria bellezza, col corpo avvolto da rose e da ramoscelli di mirto, adagiata su un carro trainato da passeri, cigni e colombe.  Ella è fasciata da una cintola portentosa che rende irresistibilmente seducente chiunque la indossasse, dato che vi è intrecciato ogni incantesimo d’amore. Afrodite è seguita dalle Grazie e dai geni della cupidigia e della persuasione: ErosPothos e  Imeros. Come riferisce Esiodo, suoi erano il chiacchiericcio della fanciulla, l’inganno e la dolce voluttà, l’amplesso e la carezza.  

Afrodite è l’assoluta personificazione della bellezza, cui Paride assegnò il famoso pomo lasciato cadere dalla Discordia sulla mensa nuziale di Peleo e Teti con sopra scritto “Alla più bella”, prediligendola a Giunone e Minerva, seppur con la promessa di avere in cambio l’amore di Elena.

Per imposizione di Zeus, Afrodite sposò Vulcano, che tradì ben presto con Marte da cui ebbe due figli: Eros (l’Amore) e Anteros (l’Amore corrisposto).  

Oltre a Marte, molti altri dei furono gli amanti di Afrodite: con Dionisio ella concepì Imene e le Grazie, con Mercurio generò invece Ermafrodito, e anche da Poseidone avrebbe avuto un figlio, Rodo, personificazione divina dell’isola di Rodi. Ma il suo amante preferito fu Adone, che cadde vittima della viscerale gelosia di Marte.  Da un suo abbraccio con l’eroe troiano Anchise nacque il pio Enea, nell’estensione romana delle sue gesta amorose. Ma Venere era  anche considerata dea della fortuna, tanto che se ne invocava spesso l’intervento benevolo nel gioco dei dati.   


BIBLIOGRAFIA.

 

Breve ma veridica storia della pittura italiana, Roberto Longhi, Sansoni;

Dei e Miti, A. Morelli, Melita;

Botticelli, Giulio Carlo Argan, SKIRA;

Botticelli, Marco Albertario, Elemont Art;

Vivere l’arte, Fumarco – Beltrame, Mondatori;

Itinerario nell’arte, Cricco – Di Teodoro, Zanichelli;

Figura, Bernini – Rota, Laterza; Cento Dipinti: La Primavera, Federico Zeri, Rizzoli;

Botticelli, Marco Albertario, Elemond Art, Milano.

 


© G. LUCIO FRAGNOLI   


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IL SOGNO DI OSSIAN di Jean Auguste Dominique INGRES


Jean-Auguste-Dominique Ingres, Il Sogno di Ossian (1813), olio su tela (348 cm × 275 cm), Musée Ingres - Mountauban.

 

 

L’opera, realizzata nel 1813, era posta sul soffitto della camera da letto di Napolene, nel Palazzo del Quirinale. Essa ritornò di proprietà dell’autore nel 1835, il quale, dopo avervi apportato alcune modifiche, nel 1867 la donò alla città di Mountauban.

Il soggetto rappresentato è tratto dal poema I canti di Ossian, ispirato alle gesta dell’eroe Fingal, del 1765, di James Macpherson, che lo elaborò partendo antichi poemi, che si rilevarono poi dei falsi. Le epiche vicende, ambientate in tempi lontanissimi negli altopiani scozzesi e cantate del bardo Ossian, considerato l’Omero celtico, ebbero un considerevole successo, specialmente nell’ambito preromantico e romantico.

Il mondo mitologico ed epico poetato da Ossian, nordico e celtico, fu uno dei grandi temi del Romanticismo, contrapponendosi ai miti della classicità greca e all’epopea omerica. Allo stesso modo i romantici sostituirono all’antichità greco-romana il medioevo tenebroso e cavalleresco, la realtà alla metafora, l’oriente di sogno all’occidente classico.

Nel dipinto è rappresentato il bardo Ossian, addormentato sulla sua lira e sognante, contro lo sfondo di una frastagliata e scoscesa scogliera, appena illuminata dalla luce della luna, oltre cui si estende il mare, di un blu intenso e profondo. 

Dalla sua mente, e sopra il suo capo riverso sulla lira, prende forma il sogno, la cui irrealtà è resa dalla pallida luce lunare e dalla monocromia propria del vagheggiamento, che assume una dimensione altamente onirica, ove si materializzano gli eroi dei suoi poemi, poggiati su un’eterea costruzione di nuvole: il figlio Oscar e l’amante di lui Malvina, che guida il cantore celtico nel regno della morte ed in quello dei sogni, e ancora si distinguono i guerrieri ed il re delle Nevi, con le proprie figlie che suonano l’arpa, in una vista che sfuma tenuamente e si perde all’infinito. 

Il Sogno di Ossian, dimostra come Ingres, artista pragmatico e sofisticato al tempo stesso, si misura con pari interesse con temi assolutamente neoclassici, come l’Apoteosi di Omero, e temi perfettamente romantici, come l’opera in questione o la serie favolosa di odalische, chiuse negli harem o a mollo nei bagni turchi ottomani. Per capire Ingres è indispensabile, appunto questo, come qualsiasi suo soggetto, ora tratto dal repertorio classico, ora da quello romantico, sia ricondotto sempre alla sua personale visione, sempre studiatissima dal punto di vista compositivo e di impostazione prospettica, nitida e raffinata nella stesura pittorica, in una pignola resa cromatica del reale, ma comunque sempre classica, un classicismo interpretato perlopiù in chiave raffaellesca.    


Ingres, Autoritratto.

  Vita in breve di Ingres


Jean-Auguste-Dominique Ingres nasce a Mountauban il 20 agosto del 1870. Figlio maggio-re del pittore Jean-Marie-Joseph, è scolaro di David, a Parigi dal 1797.

Nel 1801 vince il Prix de Rome con il dipinto Achille e gli inviati di Agamennone. L’anno successivo apre un atelier nell’ex convento dei Cappuccini, giungendo presto ad una notorietà che gli permetterà di eseguire nel 1804 il ritratto di Napoleone I console e due anni dopo Napoleone in trono.

Nel 1810 risiede e lavora stabilmente a Roma e nel 1813 sposa Madeleine Chapelle. In un periodo che va fino al 1914 dipinge opere di grande effetto come il Sogno di Ossian, Raffaello e la Fornarina, Paolo e Francesca e la Grande odalisca. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, lavora per una committenza ridotta e meno facoltosa.

Nel 1819 invia Ruggero e Angelica e la Grande Odalisca al Salon, riscuotendo giudizi poco favorevoli dalla critica.

Nel 1820 si trasferisce a Firenze e nel 1823 è eletto membro corrispondente dell’Accadémie des Beaux-Arts di Parigi. Dal 1824 è a Parigi e l’anno seguente vi apre uno studio in vie Visconti, ricevendo la Legion d’Onore e venendo anche eletto membro dell’Accadémie des Beaux-Arts.

Nel 1834 Ingres è di nuovo a Roma come direttore dell’Accademia di Francia.

Nel 1841 ritorna a Parigi.

Nel 1849 muore la moglie, ma l’artista si risposa, due anni dopo, con Delphine Ramel. All’Esposizione universale del 1855 espone 43 dipinti in una sala a lui esclusivamente de-dicata. Nel 1862 è nominato senotore.

Il 1867, alla sua morte, viene allestita una grande mostra in suo onore all’École des Beaux-Arts.

 

 

BibliografiaFederico Zeri, Cento Dipinti, Ingres, Bagno turco, 1998 RCS Libri S.p.A. – Mi-lano; Annalisa Zanni, I Gigli dell’Arte, Ingres, 1990 Cantini Editore, Borgo S. Croce, Firenze; Piero Adorno, L’arte italiana (dal Settecento ai nostri giorni), 1994 Casa Editrice G. D’Anna, Messina-Firenze. 


 

                  

© G. LUCIO FRAGNOLI   


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domenica 25 aprile 2021

GIUDITTA E OLOFERNE del CARAVAGGIO

 

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Giuditta e Oloferne (1599, olio su tela, 145 x 195 cm) Roma, Galleria d’Arte Antica.

 

DESCRIZIONE DELL’OPERA.

 

Si tratta di un’opera assolutamente anticonvenzionale per l’epoca, data la crudezza della rappresentazione cui, tra l’altro il Caravaggio non era nuovo, eppure per l’originalità di interpretazione del tema sacro, con un’avvenente popolana nei panni dell’eroina ebraica, pettinata e vestita secondo la moda del tempo.  

Difatti, la modella utilizzata dal Merisi per la sua Giuditta, secondo Roberto Longhi, è la stessa della Santa Caterina, della Fillide e della Marta e Maddalena, ossia la bella Caterina Campani, moglie dell’architetto Onorio Longhi.

Sappiamo che la singolare storia di Giuditta è narrata in un libro della Bibbia a lei interamente dedicato. Si tratta però di un libro teologico, non storico, in cui la protagonista incarna l’intero popolo d’Israele salvato da Dio, seppure per mano umana. Giuditta, animata da una grande fede nel Signore, restò vedova del marito Menasse, morto a causa di una insolazione.

Nella Bibbia si dice: «Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona, inoltre suo marito Menasse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Ma nessuno poteva dire una parola maligna al suo riguardo, perché temeva molto Dio.»

Ebbene, la città di Betulia era assediata dall’esercito di Oloferne, generale di Nabucodonosor, con gli abitanti stremati dalla fame e dalla sete, rassegnati a capitolare. Giuditta si offrì allora di salvarli, recandosi nell’accampamento nemico in compagnia di un’ancella, con lo scopo di sedurre e uccidere il comandante degli assiri, spacciandosi per traditrice del suo popolo e pronta a mettersi al servizio del nemico. Entrata nelle grazie del generale, che l’aveva accolta e ospitata per tre giorni, dato che la bramava dal primo istante che l’aveva vista, Giuditta il quarto giorno, quando si fece buio, riuscì a restare da sola con Oloferne nella tenda del guerriero, con lui buttato sul divano, ubriaco fradicio, sotto un baldacchino intessuto di porpora, d’oro e di gemme.

Nella Bibbia è scritto: «Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostandosi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento.” E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città.»

Bene, dell’intera e lunga narrazione, che fa parte delle quattro salvazioni d’Israele, l’artista lombardo sceglie il momento più cruento e drammatico, il momento in cui l’assassinio si sta consumando, pur se per una nobile ragione e per l’inoppugnabile volontà di Dio. Sicuramente il pittore conosce per intero il racconto biblico e sceglie lo sgozzamento, ma, come già fatto da altri – Vasari per esempio – opera una sintesi, inserendo l’ancella nella scena del crimine, allestendo in tal modo la messinscena pittorica con un personaggio in più rispetto alla versione originale della vicenda, in cui il ricco baldacchino porporino si riduce a una tenda avvoltolata per aria.

L’eroina ebraica è in piedi, quasi al centro della scena, e sta scannando il generale ubriaco fradicio con la sua stessa scimitarra. Siamo al primo colpo fatale che recide il collo, da cui sgorga un abbondante fiotto di sangue. Oloferne si dimena convulsamente mentre sul suo volto gli si imprime una disperata maschera di terrore, con l’urlo disperato strozzato in gola e con gli occhi vitrei rivolti verso la carnefice. Evidente è la trasposizione della figura scolpita di Laocoonte in quella di Oloferne, coi dovuti aggiustamenti. Giuditta impugna con forza l’arma del delitto con la mano destra, mentre afferra per i capelli la sua vittima con la sinistra. I suoi lineamenti sono tirati, i suoi occhi sono fissi sulla contorsione e sul grido soffocato di Oloferne, in uno strisciante compiacimento che esclude la pietà. Al suo fianco la vecchia serva assiste all’uccisione con gli occhi pieni d’odio, in un ghigno sdegnoso, reso persino malvagio dalla sua bruttezza. L’oscurità, che avvolge l’interno della tenda del generale, unita al fascio di luce irreale che proviene da sinistra, quasi orizzontalmente, crea un forte senso di volume di cose e personaggi, riverberando sul corpetto bianco dell’assassina, della cuffia della vecchia e sugli incarnati, realizzando un senso di orizzontalità bilanciato da tre larghe zone di colore. È una luce irreale, come sempre in Caravaggio, una sorta di lampo improvviso che rischiara sinistramente la scena, alludendo anche all’intervento divino che infonde forza e coraggio nell’animo della bella giustiziera. Giuditta ha una bellezza vera, per niente ideale, propria di molte fanciulle nel fiore degli anni. Piuttosto la vecchia appare di una bruttezza costruita, caricaturale, sgradevole.

Perché, mi sono chiesto varie volte, l’arguto Caravaggio, si appassiona così tanto alla rappresentazione del brutto? E nel termine brutto includo ovviamente l’orrido, il macabro, il fetido e lo sporco. Perché?

Vi racconto un aneddoto accadutomi molto tempo fa, nel 1992 precisamente. Avendo letto molte cose riguardo al Caravaggio, comprese alcune conclusioni, alquanto controcorrente, espresse dal compianto professor Federico Zeri. Volendo scrivere qualcosa pure io al riguardo, decisi di telefonargli.

La cosa non fu facile, credetemi, perché il professor Zeri dedicava solo un’ora al giorno alle telefonate, dalle 7 alle 8 del mattino.

Ebbene, quando riuscii a parlargli, e gli chiesi del Caravaggio. Lui mi rispose che lo trovava un pittore odioso e non mi permise di incontrarlo per approfondire il discorso. Certe volte penso che non aveva proprio tutti i torti, perché trovo anche io “antipatico” il continuo ricorso al brutto che si nota delle opere del grande lombardo. Ma di questo mi occuperò seriamente un’altra volta.                    

 

BREVE STORIA DELL’OPERA.

 

Il dipinto con Giuditta che taglia la testa di Oloferne, che si conservava, nel corso di tutto il Settecento, al Palazzo Zambeccari di Bologna, descritto come opera del Caravaggio da alcuni visitatori del Palazzo, come Charles de Brosses (1739), Joseph De Lalande (1765), e Lady Anne Miller (1770 – 1771) era in realtà una versione molto variata della Giuditta caravaggesca, eseguita da Artemisia Gentileschi.

Ciò è provato, oltre che da documenti sui quali non voglio soffermarmi, proprio e soprattutto dalla descrizione del quadro fornita da Lady Miller:

Questo dipinto è troppo ben fatto e ne rimasi fortemente impressionata; doveva essere fatto dal vivo. L’idea mi fece tremare e star molto male; produsse gli stessi effetti che avrei forse avvertito davanti a una vera esecuzione: la separazione del collo, il sangue che scaturisce dalle arterie spezzate, la forza di Giuditta e la sua espressione mentre distoglie lo sguardo dall’orrendo compito che svolge, manifestando tuttavia una ferocia e una sorta di coraggio che poco si addice a una donna, insieme con il serpeggiare convulso del corpo di Oloferne, rendono questo quadro ben poco adatto allo sguardo di chi possiede un minimo di sensibilità: è opera di Michelangelo da Caravaggio.”

La storia del dipinto caravaggesco è stata chiarita (così come è stato definitivamente chiarito l’equivoco tra il quadro della Gentileschi e quello del Merisi) quando il fenomenale Spezzaferro ha scoperto gli inventari del collezionista Ottavio Costa, patrizio genovese e banchiere dei papi, dell’anno 1632, che conteneva particolari disposizioni per evitare la vendita di tutte le opere a firma del Caravaggio facenti parte della collezione, e in modo particolare della Giuditta, che nell’inventario post mortem della dimora romana del Costa viene citata come Un quadro grande con l’immagine di Judit fatto da Michelangelo Caravaggio con la sua cornice di taffetà dinnanzi.

Tutto ciò conferma quanto riportato da Giovanni Baglione, secondo il quale il Caravaggio colorì una Giuditta che taglia la testa di Oloferne per li Signori Costi. Tale informazione aveva fatto individuare al Mahon il committente dell’opera con Ottavio Costa. La Giuditta è restata sempre a Roma ed è stata, dopo i Costa, sempre di proprietà di privati fino al 1971, quando è stata acquistata dallo Stato italiano.

Del quadro sono state fatte copie di bella fattura eppure molto interessanti, come quella di Valentino de Boulogne e quella di Adamo Elsheimer, e anche le due versioni di due caravaggeschi come Bartolomeo Manfredi e Carlo Saraceni, andata purtroppo perduta.

Giovanni Pietro Bellori alla fine della vita del Caravaggio dedica due pagine a quei pittori che imitarono la sua maniera nel colorire dal naturale, chiamati perciò naturalisti e che sono il Ribeira, il Valentino, Gherardo delle notti, Bartolomeo Manfredi e Carlo Saraceni, di cui, sempre il Bellori, riferisce un curiosissimo aneddoto che mi piace riportare: Soleva Carlo nelli suoi componimenti introdurre eunuchi, e teste rase senza barbe, né solo imitava il maestro nel dipingere, ma ancona nell’altre cose, e perché il Caravaggio aveva un cane nero chiamato Barbone, ammaestrato a far giuochi, anch’egli ne trovò uno simile e gli pose nome Barbone, conducendolo seco a far giuochi nelle conversazioni.   

Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma: Mascardi, 1672.

Bernard Berenson, Caravaggio, a cura di Luisa Vertova, Milano: Leonardo, 1994.

Maurizio Calvesi, La realtà del Caravaggio, Torino: Einaudi, 1990.

Maurizio calvesi, Caravaggio, Art Dossier (aprile 1996), Firenze, Giunti.

Roberto Longhi, Caravaggio, a cura di Giovanni Previtali, Roma: Editori Riuniti, 1982.

Maurizio Marini, Caravaggio: Michelangelo Merisi da Caravaggio “pictor praestantissimus”, Roma: Newton Compton, 1987.

© G. LUCIO FRAGNOLI

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giovedì 22 aprile 2021

LE GRAZIE di ANTONIO CANOVA

 

 

Le Grazie, Victoria and Albert  Museum di Londra.

  

  

Le Grazie, Ermitage di San Pietroburgo.

 

ANALISI DELL'OPERA


Del soggetto esistono due elaborazioni pressoché uguali, che si diversificano soltanto per alcuni insignificanti dettagli: la prima, ora conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, fu commissionata dalla prima moglie di Napoleone, Giuseppina di Beauhrnais, ed eseguita tra il 1812 ed il 1816; la seconda, ora al Victoria and Albert  Museum di Londra, fu realizzata per John Russell, duca di Bedford, tra il 1814 ed il 1817.   

Nell’opera Canova rappresenta le dee con un significato strettamente legato alla tradizione mitologica greca e romana. 

Infatti, nell’antichità greco-romana, le Grazie o Cariti (da chairein, rallegrarsi), figlie di Zeus ed Eurìnome, erano Aglàia (ornamento), Eufròsine (gioia) e Thalìa (pienezza). 

Da loro  dipendeva la piacevolezza della vita e dei rapporti umani, legati alla gentilezza dei modi, alla buona conversazione e alla raffinatezza di spirito. Per tutto ciò venivano associate sia alla dea Afrodite, sia al dio Apollo. Chiamate col nome di Grazie dai romani, in origine venivano rappresentate vestite, poi ricoperte di veli ed infine nude – Va, dunque, assolutamente esclusa ogni diversa accezione, specialmente la rinascimentale e botticelliana esegesi del tema in chiave neoplatonica, che identifica le divine fanciulle in Castitas, Pulchritudo e Voluptas – .

Il gruppo scultoreo è quindi un chiaro omaggio  al mondo classico e ai grandi statuari greci, da Fidia a Prassitele, ineguagliabili in perfezione, purezza e armonia formale. 

Nelle sue Grazie, Canova introduce, rispetto ad altre rappresentazioni precedenti, un importante elemento di novità, costituito dalla posizione di ogni singolo personaggio rispetto al riguardante. Difatti, la dea centrale è disposta frontalmente, mentre cinge in un delicato abbraccio le altre due, una colta di fianco e l’altra quasi di spalle che, a loro volta, l’abbracciano in un moto circolare dei gesti e di reciprocità degli sguardi, nel candore e nelle espressioni minimali dei volti, tutti sorpresi di profilo. 

La vista privilegiata è, chiaramente, quella frontale, che trasmette un senso di equilibrio complessivo e una percezione di moto elegante e leggero, in cui tutte e tre si offrono al riguardante nella loro bellezza, pura e incolpevole, velatamente virtuosa, in una sorta di sublime e sottaciuto inno alla vita. 

La scultura è stata ottenuta in un unico blocco, dove la rappresentazione ideale del corpo umano e compiutamente enunciata. 

Le figure sono plasmate in una morbida ed elegante snellezza, e nell’ossessione tutta canoviana di rendere il marmo tenero come la carne, con un rigoroso lavoro di levigatezza delle superfici, su cui l'artista applicava uno strato di cera per mitigare la freddezza del marmo.

Molti storici dell’arte, fino a qualche tempo addietro, rimproveravano a Canova il gelido erotismo emanato dalle sue creazioni, ignorando la volontà stessa dello scultore.

“L’artista neoclassico”, come ha puntualizzato Honour, “si proponeva di essere naturale e non naturalistico. Egli voleva purificarlo (il nudo, n.d.a.) dalle accentuazioni erotiche che avevano spinto Diderot a lamentarsi: Ho visto abbastanza seni e pubi... questi oggetti seducenti contrastano le emozioni dell’animo eccitando i sensi. Egli esaltava l’innocenza, la inadorna semplicità, l’essenziale purezza del nudo...”

Nella concezione illuminista, quindi, “il nudo rappresentava l’uomo spogliato da tutti gli ingannevoli elementi esterni, così come la natura lo aveva fatto: liberato cioè da tutte le pastoie del tempo, come visto come contro uno sfondo di eternità.”

Altri critici e storici rifiutavano, invece, l’inespressività delle figure canoviane, non tenendo conto che il Neoclassicismo è fondamentalmente uno stile puro. E Canova ha elaborato, in adesione alle idee neoclassiche, una visione estetica (che è ulteriormente etica e morale) incontaminata dalle passioni, in una dimensione di bellezza assoluta ed eterna, perché immobile nella sua alta liricità e pulizia morale. È la catarsi, propria dell’arte classica, splendidamente realizzata.

  

Ugo Foscolo, Protasi delle Grazie, Inno primo, vv. 1-27

 

Cantando, o Grazie, degli eterei pregi

di che il cielo v’adorna, e della gioia

che vereconde voi date alla terra,

belle vergini! a voi chieggio l’arcana

armoniosa melodia pittrice                                         5

della vostra beltà; sì che all’Italia

afflitta di regali ire straniere

voli improvviso a rallegrarla il carme.

Nella convalle fra gli aeri poggi

di Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte                      10

limpido fra le quete ombre di mille

giovinetti cipressi alle tre Dive

l’ara innalzo, e un fatidico laureto

in cui men verde serpeggia la vite

la protegge di tempio, al vago rito                               15

vieni, o Canova, e agl’inni. Al cor men fece

dopo la bella Dea che in riva d’Arno

sacrasti alle tranquille arti custode;

ed ella d’immortal lume e d’ambrosia

la santa immago sua tutta precinse.                             20

Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi,

nuovo meco darai spirto alle Grazie

ch’or di tua man sorgon dal marmo. Anch’io

pingo e spiro a’ fantasmi anima eterna:

sdegno il verso che suona e non crea;                          25

perchè Febo mi disse: Io Fidia primo

ed Apelle guidai con la mia lira

 

 

LE GRAZIE O CARITI.

 

Il nome di Cariti deriva da chairein, ossia rallegrarsi. Figlie di Giove ed Eurinome, dea di tutte le cose, esse erano: Aglàia (ornamento), Eufròsine (gioia) e Thalìa (pienezza). Da loro dipendeva la piacevolezza della vita e dei rapporti umani, legati alla gentilezza dei modi, alla buona conversazione ed alla raffinatezza di spirito. Per tutto ciò venivano sempre associate sia a Venere che ad Apollo. Il loro culto era diffuso specialmente ad Orcomene in Boezia, ma erano venerate in altre città greche. Chiamate col nome di Grazie dai romani, in origine venivano rappresentate vestite, poi ricoperte di veli e infine nude.

 


Le Grazie di Thorvaldsen.

 

 Le Grazie di Raffaello.


Le Grazie di Rubens.

 

 

VITA IN BREVE DI ANTONIO CANOVA



Antonio Canova nacque a Possagno, nei pressi di Treviso, nel 1757, ma si trasferì ancora giovanissimo a Venezia dove studiò all’Accademia, maturando una formazione classica, aprendovi anche un proprio atelier nel 1775. Nel 1779 si guadagnò grandi riconoscimenti col gruppo scultoreo  Dèdalo e Icaro, esponendolo alla festa dell’Ascensione. Nel 1781 lo scultore si trasferì a Roma, subendo subito l’influenza delle idee di Mengs e di Winckelmann, potendo anche osservare modelli importanti della statuaria classica. Nel 1783 gli venne commissionato il monumento funebre di Papa Clemente XIV, e l’anno appresso quello di Papa Clemente XIII. Canova lavorò prevalentemente a Roma, risiedendovi pure per il resto della vita, ad eccezione di vari soggiorni nei luoghi di origine e dei viaggi a Vienna, a Parigi e a Londra. Tra il 1798 ed il 1803, realizzò il monumento funebre a Maria Cristina d’Austria. Al culmine della notorietà, nel 1804, Canova ritrasse Napoleone, ottenendo di seguito moltissime commissioni da committenti nobili e facoltosi di mezza Europa. Si spense a Venezia nel 1822.

 

BREVIARIO DEL NEOCLASSICISMO


Il neoclassicismo è lo stile che, nato a Roma, s’afferma a partire dal 1770 circa, e che ha come antefatto culturale quel grande movimento di idee noto col termine di illuminismo. Gli illuministi, attraverso il libero pensiero, si proposero di realizzare un mondo nuovo, governato da leggi ispirate all’uguaglianza sociale, cancellando per sempre i privilegi del clero e di una nobiltà inetta e in piena decadenza morale. La conseguenza storica dell’illuminismo, furono prima la rivoluzione americana e poi la rivoluzione francese. La rivoluzione francese nacque dal supremo disegno di creare una società «stabile ed armoniosa» per dirla con le parole di Isaiah Berlin «fondata su principi immutabili: un sogno di perfezione classica…» I dogmi, il rigido 'assetto sociale e gli arcaici privilegi dell’antico regime crollarono sotto la luce della ragione e di un idealismo intransigente. Con la stessa forza rivoluzionaria, il neoclassicismo segnò la fine del capriccioso, polveroso, sensuale e fatuo rococò. La chiarezza della ragione vinse sui mendaci e confusi artifici del dogma.

Il termine di neoclassicismo, che fu coniato alla fine dell’Ottocento in senso spregiativo, farebbe pensare ad una corrente artistica di mero e convenzionale rifacimento dell’arte greca e romana.  Fu   al contrario un movimento eversivo e travolgente, che mirò a realizzare un risorgimento delle arti, una rinnovata rifioritura artistica simile a quella rinascimentale. Gli artisti e i teorici lo chiamavano semplicemente il vero stile.

Un vento di trasformazione cominciava a soffiare nei salons parigini, rinfrescandone l’atmosfera chiusa e profumata, eliminando curve e codini rococò, soffiando via gli ornamenti delicatamente fragili: boccioli di rosa e conchiglie e cupidi incipriati con i sederini delicatamente imbellettati come le guance, tutte le figure della commedia dell’arte in posa e le altre squisite frivolezze e perversità che avevano fatto la delizia di una società di gusti difficili, ultrasofisticata… (Hugh Honour).

Il teorico del “vero stile” fu J. Winckelmann, il quale sosteneva che bisognava “imitare”  i grandi maestri antichi. Ma imitare non significava – secondo il suo pensiero - copiare, bensì fare propri ed utilizzare i modelli e i canoni estetici degli artisti antichi, in un processo catartico di produzione del nuovo e del moderno. Ed infatti, il neoclassicismo è a tutti gli effetti uno stile moderno, come moderna è la neoclassica estetica del sublime, che si riassume in superamento della contemplazione, con un forte coinvolgimento spirituale e sentimentale nel godimento della bellezza.  

Il neoclassicismo nacque per reazione al rococò, ma divenne ben presto uno stile profondo, portatore di alti valori etici e morali, avversatore dei dogmi e dell’ignoranza, della superstizione e della dissolutezza. Il suo decadimento fu dovuto alla banalizzazione che ne fece il periodo napoleonico, che ne fece uno stile celebrativo e retorico, rappresentativo della grandeur imperiale. Cosa questa che favorì la graduale affermazione del romanticismo anche in chiave antifrancese. Molti pensano, sbagliando, che neoclassicismo e romanticismo siano due contrapposte e del tutto differenti correnti artistiche. Per come la penso io, il romanticismo fu l'evoluzione naturale del neoclassicismo, che aveva esaurito ben presto i suoi temi e la sua linfa innovativa. Sia l'uno che l'altro movimento procedettero insieme per un certo periodo ed ebbero molto in comune, compresa l'estetica del sublime. Erano, in buona sostanza, quasi due facce della stessa medaglia, rappresentavano entrambe quel mondo e quella società moderna che stavano nascendo impetuosamente, e spesso una corrente sconfinava e si cibava nell'altra, o la negava con violenza, dimostrano implicitamente di riconoscerla come riferimento importante. Diversi erano però e i temi e la rappresentazione degli stati d'animo. Diversa era la visione dell'uomo, che stava diventando l'unico libero padrone delle proprie idee e delle proprie creazioni.     














© G. LUCIO FRAGNOLI

 Fonti bibliografiche: NEOCLASSICISMO, Hug Honour, Einaudi, 1993.


IL POST SOPRA RIPORTATO HA SCOPO ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO, ED È RIVOLTO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.

 

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