Pagine

giovedì 25 febbraio 2021

I ROMANI DELLA DECADENZA di THOMAS COUTURE


 I Romani della decadenza di Thomas Couture

(1847), olio su tela (472 x 772 cm), Musée d’Orsay di PARIGI.

 

ANALISI DELL’OPERA

I Romani della decadenza è da tutti considerato l’assoluto capolavoro di Thomas Couture, pittore sicuramente accademico, ma talentuoso e assai istruito. Nell’opera, che riscosse al suo tempo grande successo, l’autore immagina una scena di perdizione, ambientata in una ricchissima domus dell’antica Roma, in uno sfarzoso androne porticato con colonne corinzie, dietro le quali si scorge un ampio cortile fiancheggiato da maestosi palazzi e chiuso da un’esedra, sotto un cielo luminoso e percorso da innocue nuvole capricciose. Al cospetto di statue di virtuosi antenati posizionate all’intorno si sta svolgendo un indegno baccanale con un discreto numero di personaggi, in preda all’ubriachezza e alla sfrenata lussuria. Travestiti da bacchi e da baccanti, in piedi o adagiati sui talami avvolti da stoffe pregiate, tutti i personaggi, uomini e donne, mostrano i segni d’ubriachezza, con espressioni lascive. Alcuni crollano in preda all’offuscamento dei sensi. Altri, non ancora completamente storditi dal vino, inneggiano al dio dell’ebbrezza e della voluttà, come il personaggio in primo piano, voltato di spalle, che solleva in alto la coppa appena svuotata. Ai suoi piedi un’anfora vuota, rovesciata in terra tra frutti e grappoli d’uva, e un’anfora ancora piena cui s’intrecciano festoni. Un altro bacco, alla destra del dipinto, sale addirittura sul basamento di una statua e avvicina la sua coppa alla pergamena arrotolata della figura marmorea, come per farsi versare da essa della bevanda, irridendone il serioso aspetto.

Al centro dell’ammucchiata una donna dall’aria svagata si abbandona contro il petto di un vizioso convenuto, che porge la sua coppa all’impudica amante di un altro adoratore di Dionisio. La lupa gli sta versano una perla nel vino, sicuramente. Sotto lo sguardo licenzioso di un’altra menade, che ricorda la Grande odalisca di Ingres, legata a un grasso riccone godereccio, pure lui in preda all’intronamento alcolico. Alle loro spalle intanto una malafemmina si dimena eccitata. Tutto fa pensare che il saturnale sia ormai al suo culmine, ma che proseguirà ancora, fino allo sfinimento, mentre da destra sono entrati in scena due inattesi personaggi dall’aria severa, ovviamente due stranieri, si capisce dalle loro barbe lunghe, soprattutto. Che si fermano a scrutare sdegnati l’osceno festeggiamento. Come pure le statue degli onesti antenati, pare che assistano rattristati all’indegno spettacolo orgiastico.

Chiaro è a questo punto il significato del dipinto, che allude al decadimento sociale del tempo di Couture, che sfocerà nella rivoluzione dell’anno dopo, alla fine violentemente repressa. L’intento sfacciatamente morale del dipinto - secondo il mio modo di vedere - ne costituisce il tallone d’Achille, specialmente agli occhi di taluni critici, che già lo trovano troppo leziosamente retorico. Io penso, invece, che il dipinto, oltre a una sicura importanza storica, costituisce un intrigante episodio di persistenza di amore e attenzione per la pittura di certi grandi maestri del passato eppure della contemporaneità di Couture. Come pure persisteva allora un certo gusto classico, seppure si era già nel tempo del realismo. Non dimentichiamo che Ingres, alla metà dell’ottocento, godeva ancora di ottima fama.    

Stilisticamente parlando, l’intera composizione è ben strutturata, nonostante un complessivo accento declamatorio. I personaggi, certamente ottimamente disegnati, formano un nutrito e animato gruppo, tutti perfettamente coinvolti e organizzati secondo posture, gesti e atteggiamenti vari e alquanto armonici, inseriti nello spazio dipinto, un po’ alla Veronese, con estrema perizia. Il colorismo è contenuto ma ben accordato. Si tratta insomma di una fondamentale opera d’arte.  

 

Brevi notizie sulla vita  

Thomas Couture (Senlis 1815 – Villiers-le-Bel 1879) è universalmente considerato uno dei maggiori esponenti della pittura accademica francese dell’ottocento.

Visse ed operò soprattutto a Parigi, dove la famiglia si era trasferita nell’anno stesso della sua nascita.

A Parigi studiò all’École des Beaux-Arts e Métiers e all’École des Beaux-Arts. Si formò negli studi di Antoine-Jean Gros e di Paul Delaroche ed ebbe come allievi Édouard Manet e Pierre Puvis de Chavannes. Espose per la prima volta al Salon del 1840, imponendosi al grande pubblico con Les Romains de la décadence, presentato al Salon del 1847, un anno prima della rivoluzione del ’48, che abbatté la monarchia di luglio.   

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA SCOPO ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO, ED È RIVOLTO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.

 


© G. LUCIO FRAGNOLI

I GIOCATORI DI CARTE di Paul Cézanne

 

Paul Cézanne (1839–1906), I giocatori di carte (1892-95 - olio su tela, cm.47,5x cm. 57), Parigi, Musée d’Orsay.

 

 ANALISI DELL’OPERA

  

Del soggetto esistono varie versioni, ma questa è indubbiamente quella di maggiore qualità formale e puntualizzazione stilistica.

Difatti, nell’opera sono chiaramente enunciati tutti i principi della particolare visione di Cézanne, che non si fonda esclusivamente sulla percezione visiva della realtà, bensì sull’analisi razionale degli elementi che la compongono, con la loro struttura geometrica e la loro sostanza materica, per estrarne la veridica essenza nella trasposizione pittorica, depurata da ogni altra componente inutile e accessoria.

L’artista studia lo spazio e gli oggetti che ne fanno parte, rapportando tutto a concetti formali precisi ed essenziali, per ricomporre sulla tela, come risultato di tale sintesi, ogni singolo elemento, con tutte le proprie imprescindibili qualità. Questo procedimento puntiglioso di osservazione e di riproposizione ragionata delle cose, anticipa il metodo di analisi e rappresentazione cubista di Braque e di Picasso.

Ma ritorniamo all’opera in questione, in cui l’idea generale è quella di una classica quanto antica scena di genere: due personaggi dall’aspetto obbligatoriamente popolaresco sono impegnati in una partita a carte, seduti l’uno di fronte all’altro ad un tavolino ricoperto da una rigida tovaglia, su cui poggia un fiasco di vino, posizionato come asse verticale intorno a cui ruota l’intera ordinaria vicenda.

I giocatori sono sorpresi nel momento di concentrazione che precede la giocata, all’interno di una vecchia e disadorna osteria. Entrambi hanno lo sguardo puntato sulle carte da gioco che reggono in mano, l’uno mentre medita la prima calata e l’altro che attende, facendosi i propri calcoli. I due sembrano più impegnati in una serissima occupazione che in futile passatempo, in una sorta di implacabile sospensione temporale, che però dà il tempo a chi guarda il dipinto di esaminare attentamente le due figure di popolani ed il contesto in cui esse sono paludate.

Il colorismo è sostanzialmente basato su toni caldi, ben armonizzati con zone di toni freddi, il tutto realizzato con pennellate vive e decise, perfettamente visibili. L’ambiente dipinto, rappresentato con vista frontale, è definito con la massima chiarezza e semplicità da due principali accorgimenti: il tavolo in prospettiva e la parete lignea dallo specchio opaco, sistemata alla bisogna come quinta scenica, a chiudere lo spazio. 

Ma ciò che maggiormente sorprende l’osservatore è l’inattesa trasfigurazione geometrica dei personaggi, a cui Cézanne conferisce una struttura volumetrica leggibile e semplificata, come fa con lo spazio e gli oggetti in esso compresi. D’altra parte l’artista stesso aveva manifestamente dichiarato di voler “trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto o di un piano si diriga verso un punto centrale.” Asserzione questa in cui si rivela un palese preannuncio teorico col Cubismo che, naturalmente, come abbiamo già notato,  deriva dalla pittura di Cézanne. 

Attenzione, però, come ha ben argomentato Giulio Carlo Argan, il termine trattare non allude ad un “risultato”, bensì a un “processo”. Ossia la costruzione delle forme reali rapportate a modelli spaziali di riferimento. “Poiché le forme geometriche non sono lo spazio, non sono idee innate, ma forme storiche; forte della sua esperienza storica, la coscienza si accinge all’esperienza reale del presente ” (...)



© G. LUCIO FRAGNOLI

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA ESCLUSIVO SCOPO DIVULGATIVO, DESTINATO PERTANTO AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

Cricco – Di Teodoro, Itinerario nell’arte vol.III, 2012 Zanichelli, Bologna;

Federico Zeri, Cento Dipinti, Cézanne, Monte Sainte-Victoire, 1998 RCS Libri S.p.A. – Milano.

IL BATTESIMO DI CRISTO di NICOLAS POUSSIN



(Dal ciclo pittorico dei Sette SacramentiBattesimo, Cresima, Eucarestia, Penitenza, Estrema unzione, Ordine, Matrimonio).

ANALISI DELL’OPERA.

Il Battesimo di Cristo, fa parte del ciclo dei sette dipinti dedicato ai Sette Sacramenti, e rappresenta la pressoché perfetta trasposizione pittorica del momento saliente del Prologo del Vangelo di San Marco. Difatti, la figurazione sacra, così come la sacra narrazione, si sviluppa dentro un luogo brullo, fatto di terra e rocce, chiuso da una montagnola in cui è scavata una strada, e alla cui sommità svettano le folte chiome di alcuni alberi. Oltre la collina si estende un vasto paesaggio, montuoso e desertico, dalle tinte grigiastre e azzurrognole.

La luce è quella del mattino, che si propaga in un cielo azzurro e luminoso, penetrando una coltre fantasiosa quanto suggestiva di vaporose nuvole, ben accordate con il fitto e cotonato fogliame delle piante. Tranne un gruppetto di tre figure poste sulla collina e un paio di viandanti, che si allontanano per la via sterrata, i personaggi, comparse e protagonisti, sono sapientemente sistemati in primo piano o quasi.

La composizione è organizzata in due correlati raggruppamenti di personaggi. Sulla parte destra, con i piedi nell’acqua, in riva al Giordano c’è Gesù, in un atteggiamento di delicata e composta umiltà, intanto che due servizievoli angeli senza ali, posti su una lingua di terra in secca, gli reggono la tunica, l’uno inginocchiato e l’altro appena dietro col capo chino, in una rara gentilezza di movenze. Sulla riva Giovanni, messo di fianco, allunga il braccio nel solenne rito del battesimo, anche lui raggentilito, come un volitivo arcangelo, spogliato della sua pelliccia di cammello e rivestito d’un più elegante manto vermiglio. In un siffatto altissimo momento, compare sulla testa del Messia la Colomba dello Spirito Santo, mentre dal cielo discende ed echeggia nell’aria la rivelazione del Padre:

«Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto

A tali parole, gli astanti, accorsi alle sponde del Giordano per il rituale purificatorio, sorpresi e sbigottiti, producono tutta una serie di reazioni psicologiche, corrispondenti a precisi stati d’animo.

Alle spalle del Battista un vecchio proselito, scosso, si raccoglie in preghiera, mentre il figliolo gli si stringe alla vita. Un altro si inginocchia volgendo lo sguardo al cielo, levando sgomento la mano sugli occhi. Dietro di lui c’è un austero uomo dalla barba e dai capelli ingrigiti, che indica in alto, come a confermare la celestiale provenienza di quella voce che tutti hanno udito. Così il giovane a lui di fronte indica il Cristo, come per ribadire che è lui il figlio di Dio, mentre più indietro un terzo personaggio, osserva il cielo in un gesto di meraviglia.

Anche due osservanti, uno seduto in terra e un altro con un piede su un appoggio, che si stanno denudando dei loro abiti per il sacro rito, appaiono meravigliati e si sorprendono a scrutare in alto, mente un terzo neofito indossa i panni bianchi simbolo di nuova vita e purezza. Ma la voce rintronante del signore cattura l’attenzione anche di un fedele lontanissimo, in piedi sulla collina, che allarga il braccio in un eloquente gesto di condiscendenza, chiaro segno di fede.         

 

CONSIDERAZIONI STILISTICHE.

 

Il dipinto, da un punto di vista strettamente stilistico, presenta un colorismo vivo e ben bilanciato, con le tinte che si alternano ritmicamente, specialmente quelle dei panneggi, sempre ben modulati, per dare slancio e volume ai corpi che avvolgono, con perfetto assorbimento della luce. Il contesto scenico, invece, è diviso in due parti: la prima è costituita dallo scorcio che arriva fino alla collina alberata, risolta con una gradevole gamma terrosa, ma pure luminosa, con prevalenza della terra di Siena; la seconda è lo sfondo del deserto grigio-azzurrognolo realizzato in prospettiva aerea e del cielo debolmente rannuvolato, da dove sorge la luce, in un effetto di infinita estensione spaziale.

La struttura disegnativa risente dell’influsso determinante del Raffaello romano, con la disposizione ben studiata, sapiente, dei personaggi nella scena e nello spazio del quadro, con corporeità classicheggianti e varietà di atteggiamenti, sempre sobri e funzionali al racconto pittorico, perfettamente animati in funzione duplice: per il personaggio in sé e per l’insieme dei personaggi. Questa attenzione disegnativa ha certamente per scopo il raggiungimento di un’armonia complessiva dell’immagine in senso squisitamente classico, ove tutto si deve corrispondere esattamente.

Nicolas Poussin, a dispetto di come banalmente viene inventariato il suo secolo, è un artista esclusivamente classico, un continuatore dell’ideale raffaellesco, alimentato però da una colta interpretazione del repertorio mitologico e dei temi sacri. Vi è sempre in Poussin una accurata ricerca disegnativa di modelli anatomici e gestuali ideali, buoni per i temi sacri quanto per i mitologici. Cosicché nel tema sacro sa esprimere il vero senso dell’esistenza secondo le sacre scritture, come nel mito riesce ogni volta ad esprimere il senso della favola, metafora paradossale e giocosa tra il promiscuo intreccio tra divino e profano.    

Una tale studiata visione pittorica è tornata utile per il movimento rinnovatore del Neoclassicismo, quando, rinnegata la capricciosità e la vacuità illusionistica del tardo barocco e del roccocò, gli artefici del vero stile sono andati alla ricerca di maestri di riferimento, trovando in Poussin un luminosissimo faro per definire la loro rotta. 

 

IL COMMENTO DEL BELLORI (da Le vite de’ pittori scultori et architetti moderni, Roma, 1672).

 

Nel battesimo espresse un bellissimo concetto, mentre San Giovanni versando l’acqua sopra il capo di Cristo nella sponda del Giordano, all’udirsi in alto la voce del Padre Eterno verso il figliuolo diletto, volgonsi alcuni a quel suono che scende dalle nubi, e uno di loro addita il cielo, l’altro accenna Cristo, riconoscendolo per figliuolo di Dio. Risplende sopra il suo capo lo Spirito Santo in forma di Colomba, e piegando egli le mani al petto umilmente, vien servito dagli Angeli che gli reggono il manto. Vi sono altri che si spogliano, e si rivestono, e aspettano l’acqua, con varia disposizione d’ignudi, e d’affetti.

 

IL VANGELO DI MARCO.

 

Nel bellissimo vangelo di Marco leggiamo:

Prologo, inizio della missione di Gesù.

Inizio dal vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio.

Come è scritto nel profeta Isaia:

Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,

egli ti preparerà la strada.

Voce di uno che grida nel deserto:

preparate la strada al Signore,

raddrizzate i suoi sentieri,

si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.

Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico e predicava: «Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con l’acqua, ma Egli vi battezzerà con lo spirito santo.»

In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.

E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba.

E si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto.»  

 

Come spiega Sandro Veronesi nel suo piacevolissimo libro Il Vangelo di Marco, di commento e interpretazione del testo sacro, «Il Vangelo di Marco è il primo Vangelo. Cioè è il primo testo scritto che, nella seconda metà del I secolo, organizza in forma definitiva i blocchi tematici su cui si strutturava la predicazione orale affidata da Gesù Cristo ai suoi discepoli. È incentrato ─ siccome si chiama Evangelo, Euanghelion, cioè “Lieto annuncio” ─ sulla ragione per cui Gesù è venuto in Terra: compiere le profezie. Dunque è un “lieto annuncio” perché era atteso da un sacco di tempo.»

Dopodiché il brillante scrittore contemporaneo evidenzia l’elemento più importante del contesto scenico:

«Deserto, il Giordano. Giovanni il Battezzatore. Davanti a Giovanni: folla. Folla enorme: “tutta la Giudea”, dice Marco, “tutti i gerosolimitani”, in attesa del battesimo di penitenza.»

Cui Veronesi aggiunge un’importante notazione: «Abbiamo detto che la trama del Vangelo è un mistero, il mistero della personalità di Cristo: ebbene, Marco lo svela subito, perché Giovanni Battista vede Gesù mischiato alla folla ─ umile, in coda, in attesa d’esser battezzato ─ e tuona: “Lui!”».

In pratica il mistero viene subito svelato: «E se ancora qualcuno dei presenti in quella scena di massa fosse rimasto dubbioso, se ancora qualcuno esitasse a credere alle parole sorprendenti del Battista (“ma come, tutta questa attesa e poi il Messia arriva qui, proprio oggi, proprio sotto i miei occhi” eccetera), ecco risuonare Una Voce dal Cielo, accompagnata da una colomba, simbolo dello Spirito Santo (…)»

Il colpo di scena, messo all’inizio del racconto, ci fa capire come quella di Marco sia un’invenzione narrativa straordinaria, un po’ come Cronaca di una morte annunciata di Marquez, che ci fa appassionare fin da principio al racconto, creando contemporaneamente uno scenario di grand’effetto, come una prima e sorprendente sequenza cinematografica.

 

 

BREVI NOTE BIOGRAFICHE SU NICOLAS POUSSIN.

 

Nicolas Pussin, di nobile famiglia, nasce a Les Andelys in Normandia. Studia a Parigi, prima con Elle le Vieux e di Lallemand, poi a Fontainebleau.

Nel 1622 diviene amico del poeta Giovanbattista Marino, il quale lo invita a Roma.

Due anni dopo Poussin è a Roma, dove conosce i cardinali Barberini e Sacchetti, e Cassiano dal Pozzo, suo grande estimatore e mecenate.

Nel 1625, muore il Marino.

Tra il 1626 e il 1630 dipinge il Martirio di Sant’Erasmo, la Morte di Germanico, la Peste di Azoth, il Regno di Flora. 

Nel 1631 sposa Anne Marie Dughet.

Tra il 1636 e il 1640 lavora ai Baccanali, commissionati da Richelieu, e ai Sette Sacramenti, commissionati dal Cassiano, completando il Battesimo soltanto nel 1642.

Nel 1640 torna in Francia, su insistenza del re.

Nel 1642 è di nuovo a Roma, da dove non si muoverà più, anche lavorando per committenti francesi e per il re.

Nel 1644, per Chantelou, inizia il secondo ciclo dei Sette Sacramenti.

Tra il 1645 e il 1648 esegue molti dipinti importantissimi, come i paesaggi storico-filosofici.

Tra il 1649 e il 1656 produce moltissime celebri tele. È il periodo della maturità.

Nel 1657 muore Cassiano dal Pozzo.

Nel 1658 si ammala di un fastidiosissimo morbo, nonostante il quale riesce a dipingere fondamentali capolavori.

Nel 1664 muore la moglie.

Il 19 novembre del 1665 il grande artista muore. 

                                      

Bellini, Battesimo di Cristo, 1500 -1502, Chiesa di Santa Corona a Vicenza.


        Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1445, National Gallery, Londra.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

GIO. PIETRO BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Ristampa dell’edizione romana del 1672, A. Forni Editore, S. Bolognese,1977.

 



IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 


© G. LUCIO FRAGNOLI


PENSIERI SULL’IMITAZIONE DELL’ARTE GRECA NELLA PITTURA E NELLA SCULTURA (1775 -1776) DI JOHANN JOACHIM WINCKELMANN - BREVISSIMA MA VERIDICA SPIEGAZIONE DI G. LUCIO FRAGNOLI.

 


PENSIERI SULL’IMITAZIONE DELL’ARTE GRECA NELLA PITTURA E NELLA SCULTURA (1775 -1776) 

DI JOHANN JOACHIM WINCKELMANN.

 



BREVISSIMA MA VERIDICA SPIEGAZIONE DI G. LUCIO FRAGNOLI.

 

Nello scritto Pensieri sull’imitazione dell’arte greca Johann J. Winckelmann tratta, in modo del tutto coerente e con la sua sensibilità di esteta raffinato, i fattori che definiscono la particolare bellezza delle realizzazioni scultoree e pittoriche greche antiche.

Secondo il grande studioso il gusto ricercato che prevaleva al suo tempo derivava direttamente dal mondo greco. Difatti, non a caso, il Laocoonte era stato una preziosa fonte di ispirazione sia per gli artisti antichi sia per i moderni, così come il Canone di Policleto, che si fonda su un’ideale di perfezione formale universalmente valida. Nell’arte greca, dunque, si concretizza un concetto di bellezza ideale, generata completamente dall’intelletto umano, che sopravanza quella della natura.

La bellezza, i greci antichi, la ricercavano dapprima nel proprio corpo con dure prove fisiche che ne modellavano la muscolatura, ostentandola col candido culto della nudità. Erano, quindi, essi stessi i modelli, senza “mollezze e pinguitudine”, delle splendide statue dal contorno perfetto, ove per contorno si intende il limite della figura.

La bellezza del corpo era di fondamentale importanza per i greci, tanto che si svolgevano persino gare di avvenenza. La mania della bellezza corporea si rifletteva di conseguenza nell’arte. La bellezza sensuale proponeva all’artista la bella natura, mentre la bellezza ideale si concretava nei lineamenti sublimi: dalla prima egli prendeva l’umano, dalla seconda il divino. Ma l’artista greco persegue costantemente un ideale di bellezza, che non si basa sull’utilizzazione di un modello, ma di numerosi modelli.

Bello ideale e bella natura.

Per raggiungere il suo bello ideale quanto la bella natura l’artista ricorre a vari e sottili accorgimenti stilistici, che sono: il già citato contorno, ossia un nobile contorno; un fine panneggio, ossia l’impareggiabile panneggio greco; “una nobile semplicità e quieta grandezza”; l’eccelsa rappresentazione dell’anima.

Il contorno.

Nelle figure dei Greci il più nobile contorno unisce e circoscrive tutte le parti della più bella natura e della bellezza ideale o, per meglio dire è il carattere distintivo dell’una e dell’altra. “Si crede che Eufranone, che fu il più illustre nei tempi posteriori a Zeusi, fosse il primo a dare al contorno un carattere più nobile”. Il contorno è tanto più nobile se non ha eccessivi incavi, protuberanze ed altre sguaiatezze, ed è in sostanza “la linea che separa il giusto dal superfluo”.

Il panneggio.

“Col termine panneggio si s’intende ciò che l’arte insegna sui rivestimenti che coprono la nudità delle figure e sulle pieghe di essi”. Questa perizia è per Winckelmann la terza prerogativa delle figure greche, dopo la bella natura e il nobile contorno. Il panneggio greco e ordinariamente realizzato con stoffe fini e bagnate, che aderendo perfettamente al corpo ne rivelano e ne esaltano le forme. Ed effettivamente l’unico vestimento delle donne greche era il peplon, che letteralmente significa velo.

Nobile semplicità e quieta grandezza.

Infine, la fondamentale qualità delle massime realizzazioni greche è una nobile semplicità e quieta grandezza, sia nella scelta delle posture così come nell’espressione dei personaggi rappresentati. “Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate dalle passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”.

L’anima.

Tutto questo, sostiene Winckelmann, si osserva nel Laocoonte, la cui grande anima si riflette sul volto del personaggio. Dolore del corpo e grandezza dell’anima sono sapientemente distribuiti su tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. “L’anima si fa più facilmente conoscere ed è più caratteristica nelle forti passioni, ma grande e nobile è solo in stato d’armonia, cioè in stato di riposo”. 

 

 

 


 © G. LUCIO FRAGNOLI


martedì 16 febbraio 2021

LA CAPPELLA CERASI IN SANTA MARIA DEL POPOLO di CARAVAGGIO

 




La cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.



La Conversione di San Paolo
  (1601) e La Crocifissione di San Pietro  (1601) 

 

Il 24 settembre dell’anno 1600, completate le tele della Vocazione e del Martirio di San Matteo nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, il Caravaggio ricevette un’altra prestigiosa commissione per due dipinti laterali per la Cappella Cerasi, in Santa Maria del Popolo, da poco acquistata dal monsignor Tiberio Cerasi.   

I quadri dovevano avere per soggetto la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro. Per la pala d’altare il Cerasi aveva incaricato un altro grande pittore come Annibale Carracci, al quale richiese un’Assunta come soggetto del dipinto.

La duplice scelta, Carracci e Caravaggio, ci fa capire che i due artisti erano al momento i più stimati in tutta Roma. L’opzione di affidare le scene laterali, certamente di più difficoltosa impostazione rispetto allo spazio angusto della cappella, sta a significare come il committente nutrisse per il Merisi maggior fiducia per la risoluzione del problema.

Nel “Contratto per dipingere due quadri”, stipulato il 25 settembre del 1600, così si legge: Michelangelo Merisi da Caravaggio sito nella diocesi di Milano, egregio pittore in Roma, si è impegnato di Volontà con il molto reverendo Tiberio Cerasi, tesoriere generale di Sua Santità e della Camera Apostolica, in Sua presenza a dipingere due quadri: uno dovrà rappresentare il mistero della conversione di San Paolo, l’altro il martirio di San Pietro.

Monsignor Cerasi pretese che i due soggetti fossero eseguiti su tavola di cipresso e preceduti da modelli. Cosicché il Merisi dipinse pure i modelli su tavola di cipresso, ma nonostante l’ottimo risultato raggiunto, secondo il Baglione, biografo del pittore lombardo, non piacquero al padrone. Ed infatti passarono in altre mani.

Preferendo realizzare le due opere su tela, essendo la superficie della tela più adatta alla sua pittura, il Caravaggio si adoperò molto per convincere il monsignore che, infine, con qualche perplessità, comunque accettò.   

Nei due dipinti, il Caravaggio rinuncia a qualsiasi ambientazione. È nei personaggi stessi il senso dell’ambientazione. I personaggi, dipinti in scala naturale e con prospettive raccorciate, ingombrano interamente la scena, accorgimento questo dovuto anche e soprattutto alla limitata possibilità di osservazione che offriva l’angusto spazio della cappella.

 

 

Nella Conversione di San Paolo (1601), l’evento prodigioso si è appena concluso, il soldato Paolo giace quasi tramortito in terra, intanto che il suo cavallo è tenuto al guinzaglio da uno scudiero. Le tre figure occupano interamente lo spazio del quadro, negando un qualsivoglia riferimento ad un luogo preciso. Ed invero non mancò chi al tempo chiamò il quadro Conversione di un cavallo, tanto era precipua la presenza dell’animale. Qualche altro decantò il cavallo pomellato che è simile al vero, cui si aggiunse l’autore stesso, che sarcasticamente commentò: Il cavallo al Popolo l’ho finto per una conversione di San Paolo (…), come per parafrasare indubitabilmente la sua visione realistica ove il miracolo sembra ridotto a mero incidente di scuderia, ma che in realtà accade soltanto nella mente di Paolo, che rivolge lo sguardo in alto, estasiato dalla luce divina. Il miracolo della conversione in effetti riguarda esclusivamente lui, e soltanto lui discerne ciò che a noi è impedito di vedere.



Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Conversione di San Paolo (1601), olio su tela ( 230 × 175 cm), Santa Maria del Popolo, Roma.

 


Nella Crocifissione di San Pietro (1601), secondo Roberto Longhi, Le cose accadono con un’evidenza incolpevole dove ognuno attende all’opera sua. La desolazione insomma è nel fatto su cui sta allo spettatore giudicare. Sulle rocce brune che saranno (con quella luce negli occhi) l’ultimo ricordo del martire, presso la cava di pozzolana o la calcara di San Pietro in Montorio, il pittore, impassibile, “gira” la fatica dei serventi (il cui gesto, è doveroso riconoscerlo, è di operai che si affaticano e non di carnefici che increduliscano alla bisogna) tutti in giubboni e braghe frusti, baveri sgualciti (eppur rifiorenti nel lume), piedi fangosi e con pochi attrezzi. E riprende da vicino il santo, forse notissimo modello buono di via Margutta, che, già inflitto alla croce, ci guarda calmo, cosciente come moderno eroe laico; mentre il martello bigioazzurro va scivolando in angolo sotto l’ombra del badile brunito, accanto al pietrone friabile e caldo come un pane ancora impolverato dalla cenere di un forno.

Dal commento del Longhi si nota come nella scena sia assente qualunque elemento non utile alla composizione, dalla disposizione delle figure secondo una X, che però divergono dal centro del quadro. Tale particolare ordine dei personaggi è su un piano non parallelo al piano della tela, ed è lievemente inclinato a penetrare lo spazio di quel tanto che basta per collocarvi i volumi.

La scena è quasi interamente occupata dai tre fatali operai e dal santo inchiodato alla croce, a testa in giù. Non vi sono riferimenti ad un luogo perfettamente definito, i pochi elementi che fanno pensare, come ha osservato il Longhi, ad una cava di pozzolana o ad una calcara, sono essi stessi indicativi della raccapricciante e commovente fine riservata all’apostolo.

I gesti dei carnefici sono lenti e misurati, non vi è concitazione e tantomeno accanimento verso il vecchio mistico che, consapevole, attende che si compia il suo inesorabile destino. Calmo, il popolano fattosi santo va incontro al suo martirio, discernendo nella morte la sua incrollabile fede e la sua salvazione, nel racconto semplice e veridico della Bibbia caravaggesca.  



 Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Crocifissione di San Pietro (1601), olio su tela ( 230 × 175 cm), Santa Maria del Popolo, Roma.



IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI). 




© G. LUCIO FRAGNOLI


 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

R.LONGHI, Caravaggio, Editori Riuniti, Roma, 1968.

A.CHASTEL, Storia dell’arte italiana, Newton Compton Editori, Laterza, Bari,1993.

G.P.BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Ristampa dell’edizione romana del 1672, A. Forni Editore, S.Bolognese,1977.

M.MARINI, Caravaggio, Newton Compton Editori S.r.l., Roma, 1989

 

 


LA GRANDE MACELLERIA di ANNIBALE CARRACCI

 


Annibale Carracci, BOTTEGA DEL MACELLAIO o GRANDE MACELLERIA 

(1582 – 83 circa, olio su tela, 185 × 266 cm), Christ Church Gallery, Oxford.

 

Analisi stilistica

 

Nella Bottega del macellaio o Grande macelleria, Annibale Carracci, come con il Mangiatore di fagioli si cimenta con la pittura di genere, tanto cara ai naturalisti – italiani, francesi, spagnoli o fiamminghi – realizzando sicuramente un autentico capolavoro, dimostrando pure una particolare sensibilità nel riprendere dal vero i fatti dell’ordinaria quotidianità, con la stessa cura posta nella realizzazione dei grandi temi mitologici, come, tanto per fare un esempio, il gran ciclo con gli Amori degli dei nella Galleria di Palazzo Farnese a Roma.

Nella singolarissima tela, di grosso formato, rispetto ad altri più complessi e impegnativi lavori, il maestro bolognese abbandona il proprio stile aulico, ispirato alla pittura michelangiolesca e raffaellesca, conciliando il soggetto raffigurato con un disegno e un tratto pittorico più fresco e immediato, con una caratterizzazione genuinamente popolaresca dei personaggi, assai divertita e solo a tratti caricaturale.

Siamo all’interno della bottega di un beccaio, immortalato nell’atto di pesare un trancio di carne con una stadera, con a fianco il banco delle carni sfasciate, intorno al quale si affaccendano i suoi lavoranti.

Uno di questi è intento ad appendere a un gancio un mezzano di montone, vicino a una pecora squartata e ad altri pezzi di animali penzolanti. Un altro – in secondo piano, dietro il banco - sistema qualcosa sul soffitto, intanto che un terzo aiutante, chinato in terra, è indaffarato macellare un capretto.

Dietro di loro, si scorge la testa di una vecchia, che aspetta che il beccaio concluda l’operazione della pesa. Una guardia impalata accanto a lui si fruga in una tasca.

Per prendere dei soldi pagare la carne? Non si capisce esattamente il perché.          

Ma c’è chi sostiene – a ragione, evidentemente – che la presenza della guardia svizzera è da mettere in relazione alla proibizione imposta a Bologna dal cardinale Paleotti di consumare carne in periodo di quaresima, per vigilare sul rispetto dell’ordinanza, naturalmente. La presenza della vecchia si spiegherebbe quindi con l’esclusione degli anziani dal divieto.

C’è infine pure chi asserisce – io lo escludo – che i tre macellai in primo piano siano i tre Carracci (Annibale, Agostino e Ludovico), i quali provenivano da una famiglia di beccai. Nel grande quadro essi sarebbero allegoricamente affaccendati nel lavoro di trasformazione dell’arte nella sua corposa sostanza.



IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI). 

© Giuseppe Lucio Fragnoli


IL TRIONFO DI BACCO E ARIANNA DI ANNIBALE CARRACCI

 


La volta della Galleria Farnese


Trionfo di Bacco e Arianna



ANALISI STILISTICA

 

Annibale Carracci (1560 - 1609), fonda a Bologna, insieme ad Agostino e Ludovico la famosa Accademia degli Incamminati, una vera e propria scuola pittorica che affianca alle conoscenze dell’arte, anche lo studio della letteratura, della filosofia e della geometria.

Nel 1594, su richiesta del cardinale Odoardo Farnese, Annibale e Agostino si recano a Roma, per affrescare il cosiddetto Camerino con le Storie di Ercole e Ulisse, e la Galleria di palazzo Farnese, con l’altrettanto raffinatissimo tema mitologico degli Amori degli dèi.

 

Sulla volta a botte della Galleria (lunga più di 20 metri), tra il 1598 e il 1600, i Carracci realizzano una sorta di quadreria, composta da nove dipinti fissativi sopra, dalle cornici riccamente lavorate. Dietro i finti quadri è dipinta una struttura architettonica oltre la quale si intravede il cielo. 

 

Di mano di Annibale e fulcro della complessa composizione è il vivace e preminente Trionfo di Bacco e Arianna. Che convolano a nozze in un fantasmagorico corteo, dopo che il dio del vino aveva rinvenuto Arianna sull’isola di Dia, dove Teseo, dopo averla rapita, l’aveva abbandonata, come ci narra Ovidio in Metamorfosi:

Qui dunque fu rinchiuso il mostro dalla duplice figura, di toro e di giovane, che pasciutosi due volte di ateniesi scelti a sorte ogni nove anni, alla terza fu ucciso, dal figlio di Egeo. Questi, con l’aiuto della figlia di Minosseridipanando un filo riuscì a riguadagnare l’uscitache nessuno prima di lui aveva mai ritrovato, e subito rapì la fanciulla e fece vela alla volta di Dia, ma poi, crudele, abbandonò su quella spiaggia la sua compagna. E lei rimasta sola si lamentò disperatamente, finché Bacco venne a portarle abbracci e aiuto…

 La favolosa sfilata del Trionfo di Bacco e Arianna, affrescato per festeggiare le nozze del fratello del cardinale Odoardo Farnese, Ranuccio Farnese con Margherita Aldobrandini, va osservato partendo dalla sinistra, dove gli sposi entrano in scena l’uno su un carro d’oro tirato da due tigri mansuete guidate da un putto, l’altra su un carro d’argento trainato da una coppia di arieti, condotte da un altro putto e meno condiscendenti, che travolgono un terzo putto che cade per terra. Bacco, con il capo cinto di foglie di vite, tiene in una mano dei grappoli d’uva e nell’altra il tirso, mentre un amorino cinge la testa di Arianna con una coroncina di stelle, a ricordo del diadema lanciato nel cielo dal futuro sposo e trasformatosi in costellazione.

… Per immortalarla con una costellazione, le tolse dalla fronte il diadema e lo scagliò in cielo. Vola quello leggero per l’aria leggera, e mentre vola, le gemme si tramutano in fulgidi fuochi che conservando la forma di una corona vanno a fermarsi a mezza via tra l’Inginocchiato e Colui che tiene il serpente (Ovidio).

Alle loro spalle un giovane cavalca un elefante e un altro giovane porta una caraffa dorata sulla testa. Li segue un’euforica baccante che suona i cimbali. Disteso in terra un satiro stringe una capra. In aria volteggiano altri tre amorini. Uno di essi porta una brocca, un altro una coppa e un altro ancora una canestra ricolma d’uva.

Davanti ai due bellissimi sposi, la parata nuziale continua con una menade danzante che suona il tamburello, e due musici che suonano chi il corno chi il flauto. Simbolo di fecondità della natura, un satiro con un otre in spalla precede l’anziano satiro Sileno, brutto quanto saggio, ma già maestro di Bacco. Egli siede sul dorso di un asino, alquanto ebbro e tenuto in groppa da servizievoli giovanetti, tutti molto coinvolti nella gioiosa cerimonia. Sileno sta senz’altro a simboleggiare l’amore sensuale che si compendia con l’amore nuziale e spirituale, alluso da Venere, distesa in basso, alla destra della movimentatissima figurazione, confortata da un affettuoso amorino. Fa da sfondo un bucolico e luminoso paesaggio, parecchio esteso in profondità.

L’affollata messinscena pittorica di Annibale Carracci anticipa in toto quella che sarà la visione “aperta” e dinamica della pittura barocca, con un colorismo vivo e con una ammirata interpretazione sia dello stile michelangiolesco che del classicismo letterario.      

 

 

DIZIONARIO MITOLOGICO.

Tirso: Asta avvolta da pampini ed edera, portata dal dio Bacco e dalle Baccanti.

Baccante: Donna dominata da una forte passione sessuale. Donna che partecipa ai riti orgiastici di bacco ed era iniziata ai suoi misteri.

 


IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI). 

© Giuseppe Lucio Fragnoli

L'ORGOGLIO DEL PAGLIACCIO, il nuovo romanzo di G. Lucio Fragnoli

La vendetta.  Era l’unica possibilità che mi avevano lasciato gli “assassini” della mia anima e i “ladri” della mia pubblica onorabilità. An...