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sabato 17 settembre 2022

LA ZATTERA DELLA MEDUSA di Théodore Géricault

 

Théodore Géricault (Rouen, 1791- Parigi, 1824), La zattera della Medusa (1818 – 1819, olio su tela, 491 x 715 cm) Louvre, Parigi.

La Zattera della Medusa di T. Géricault, rappresenta un fatto realmente accaduto – un fatto di cronaca dunque, ma anche di storia recente –, ossia il naufragio della fregata francese Medusa avvenuto al largo delle coste del Senegal due anni prima.

Il fatto è questo: Anno 1816. All’inizio dell’estate una flotta di quattro navi partì dall’isola di Aix con lo scopo di portare nella colonia di Saint Louis funzionari, militari e subalterni. Dopo molti giorni di navigazione, quasi alla fine del viaggio, il 2 luglio, nei pressi di capo Bianco, la Medusa si incagliò in banco di sabbia. Dopo cinque giorni trascorsi in vani tentati di disincagliarla, l’inesperto capitano Duruy, ordinò l’abbandono del vascello. Ufficiali e funzionari salirono sulle scialuppe, mentre il resto dell’equipaggio, centocinquanta uomini e una donna, prese posto su una zattera di sette metri per venti, appositamente costruita. Durante il tragitto verso la costa, le cime della scialuppa che trainava la zattera, per ragioni mai accertate, vennero recise, lasciando il barcone alla deriva.

Sulla zattera, ormai in balia delle correnti marine, subito si manifestarono dissidi e scontri violenti, sicché già il secondo giorno settantacinque uomini vennero buttati in mare. Tra stenti atroci, procurati dalla fame e dalla sete, ma anche dalle elevate temperature tropicali, nove giorni appresso, i sopravvissuti erano soltanto venticinque. Ma, fortunatamente, dopo tredici giorni i soli quindici naufraghi superstiti vennero avvistati e soccorsi dal brigantino Argus, che perlustrava le acque alla loro ricerca. Tutto quanto fu annotato da due partecipanti alla spedizione, tramite una cronistoria che circolò per breve tempo l’anno seguente, nello sgomento dell’opinione pubblica e nel forte disappunto dell’opposizione liberale (repubblicani e bonapartisti), che ne impugnò il caso, attribuendone apertamente la colpa al governo, colpevole, secondo il proprio punto di vista, di aver affidato il comando dell’impresa a un comandante che non navigava da più di dieci anni.

Géricault, impressionato dallo sviluppo dell’intera disgraziata vicenda, dopo aver scartato l’idea di trarne una serie di disegni, optò per un dipinto di grande formato, affittando alla bisogna uno spazioso locale da adibire a studio, dove si isolò in un lavoro appassionato e assiduo, in compagnia del suo unico collaboratore, Louis Alexis Jamar, ricevendo soltanto la visita di pochi amici che si offrirono anche come modelli.

All’inizio il pittore indugiò non poco sul preciso momento da riprodurre, facendo molti abbozzi delle varie situazioni. Poi decise per il coinvolgente frangente del gruppo dei superstiti, stremati e disperati, in balia dell’oceano tempestoso, i quali avvistano in lontananza il veliero che li porterà in salvo. Intanto, mentre progettava l’impostazione generale della grande tela che aveva intenzione di dipingere, produsse tutta una serie di schizzi dei vari personaggi e studi di parti anatomiche di personaggi debilitati o morti, recandosi persino in ospedale per osservare e disegnare cadaveri e moribondi.

Quando diede inizio alla gigantesca composizione di cinque metri per sette, utilizzò un procedimento già utilizzato da Guérin, ossia di disegnare in modo molto essenziale spazio e personaggi, tinteggiando ogni parte vuota, panneggi e incarnati, cose materiali e naturali, col proprio colore. Dipingeva freneticamente, con fare sicuro, come riferì puntualmente Montfort. Quando Delacroix vide il quadro in fase di realizzazione, ne rimase assai impressionato, come annotò egli stesso sul suo diario. Probabilmente anche Delacroix posò per qualche personaggio.    

Al Salon del 1819, inaugurato il 25 agosto, vennero selezionati ed esposti milleseicento dipinti. Quello di Géricault, intitolato Scena di naufragio, da lui ritoccato in qualche parte, all’ultimo momento, prima di essere sistemato nel Salon carré della Grande galleria del Louvre, in una posizione non proprio ideale, dato che era appeso alquanto in alto, ricevette giudizi discordanti da parte della critica. Quasi crudele fu quello di un famoso critico che in Scena di naufragio intravide una concreta intenzione di uso politico dell’opera. La si percepì addirittura come una dura critica all’operato del governo monarchico. Fece discutere anche la figura del nero che sventola il drappo in cima all’ammasso dei naufraghi, provocando un’accesa polemica sulla schiavitù, che non era ancora di fatto abolita. 

Tutto quanto ciò, contrariamente all’aspettativa di un sostanziale riconoscimento del suo talento, fece credere all’artista, vittima della malinconia e incline allo scoraggiamento, che la sua presenza al Salon era stata fallimentare. In realtà Géricault era cosciente del suo talento. Sapeva di aver dato vita a un capolavoro, che però non aveva avuto il riconoscimento critico che meritava. Sperava in un’affermazione clamorosa e definitiva, che aveva visto scemare per tutta una serie di censure impreviste, in discussioni assolutamente pretestuose, cui l’immagine dipinta era estranea, giacché concepita come tremendo dramma umano, comunque inscenato in una dimensione epica. Questo era il punto.

Ma, come se non bastasse, subì ancora un duro colpo, partecipando al concorso del quadro storico e di genere, che venne assegnato, con sua profonda mortificazione, a un dipinto del mediocre Guillemot.


Analisi dellopera.

La Zattera della Medusa è non di certo il primo quadro romantico. Ma è senza l’ombra di dubbio il quadro più straordinariamente rappresentativo della grande stagione romantica in pittura. Ne è l’enorme, colossale manifesto. Costituisce l’enunciato pittorico più alto e completo dell’intero romanticismo pittorico: per via del soggetto trattato: un accadimento vero e tremendo; per la visione convulsa e drammatica; per il crudo realismo e la riproduzione del macabro; per l’impressionante allestimento scenico, con la presenza di una natura potente e grandiosa, paurosamente ostile; per il tumultuoso moto dei personaggi; per l’efficacia dei gesti e per l’intensità dei sentimenti. Tutto in perfetta antitesi alla visione neoclassica.

Il dipinto rappresenta il momento, commovente e concitato insieme, in cui i quindici sopravvissuti, aggrappati alla malferma zattera alla deriva nell’oceano tempestoso, avvistano in lontananza il brigantino Argus, che li porterà in salvo. Si scatena allora un turbinio di reazioni nei naufraghi stremati dagli stenti patiti. Che, in un disperato tentativo di farsi avvistare, cercano di formare un rialzo umano, sostenendosi l’un l’altro, salendo su casse e barili, sventolando drappi verso l’orizzonte, ove si distingue la piccola sagoma di un veliero. Uno di loro, un giovane nero, animato da un incredibile desiderio di salvezza, svetta su tutti gli altri e, con le ultime forze rimastegli, agita un panno rosso e bianco. Sotto di lui si dimena un altro speranzoso, che sventola in aria la sua camicia bianca. Più in basso altri superstiti, tesi nello sforzo di sorreggerli, formano una struttura di corpi pressappoco piramidale, divergente rispetto all’albero che sorregge una vela di fortuna e intorno a cui si è stato allestito un misero riparo. Sotto la vela alcuni sviliti personaggi osservano ciò che sta accadendo, con i volti pieni di speranza. Più in basso ancora, abbandonati sulle assi della zattera mezza scassata dalla furia delle onde, ci sono i cadaveri di chi non ce l’ha fatta. Qualche corpo senza vita sta scivolando in mare, nella rassegnazione di un anziano che sorregge pensoso il corpo esanime del figlio. Un altro personaggio di fianco a lui, pure rassegnato, quasi protegge un cadavere, e volge appena lo sguardo verso il trambusto creatosi dietro di lui.    

Il grande manifesto del romanticismo conserva, tuttavia, nell’anatomia di molti personaggi un chiaro utilizzo di modelli michelangioleschi o, più in generale, classici, piuttosto vicini alla pittura storica davidiana. Ma questo non stupisce affatto, considerato il labile confine che separa il neoclassicismo dal romanticismo francese e italiano.

Interamente e singolarmente romantici sono il vasto spazio dipinto dell’oceano tempestoso e terribile – rischiarato da una livida luce caravaggesca – e il tumulto passioni che anima i personaggi, in impari lotta contro un atroce destino e una natura ostile, costretti sulla precaria struttura della zattera, instabile e obliqua, in balia della furia dell’oceano. Sicché il reale fatto di cronaca si trasforma in un’immagine epica, leggendaria, omerica, quasi fosse la storia d’un naufragio avvenuto in un tempo mitico, divenendo quasi tutt’altra storia, metafora dell’uomo in eterna lotta con le avversità dell’esistenza, in cui si intravede però la possibilità di salvezza.  

© G. LUCIO FRAGNOLI

"Questa piramide di carne umana, in parte marcia, in parte vibrante di speranza, fu dipinta (...) per stupire l'umanità parigina nel Salon del 1819. Ci mise otto mesi a realizzarlo (...) durante i quali si recluse in silenziosa concentrazione facendosi portare i pasti dalla zia e i resti umani in decomposizione dall'ospedale. Ammise davanti alla tela in evoluzione solo pochi intimi che usava come modelli vivi, fra i quali Delacroix, più giovane di lui e che dipinse bello vecchio in primo piano(...)."  

Philippe Daverio, Il secolo lungo della modernità.



[...] Invece nel quadro di Géricault c’è una ressa, un groviglio di corpi avvinghiati: ma non impegnati in un’azione, ma sofferenti della medesima angoscia. C’è un crescendo che parte da zero, dai morti in primo piano; poi, dai moribondi ormai indifferenti a tutto si passa ai languenti rianimati da una folle speranza. E ci sono due spinte contrarie: la marea montante dei naufraghi protesi verso l’incerta salvezza; l’ondata che respinge il relitto, il vento che gonfia la vela in direzione opposta. Sul piano instabile, oscillante della zattera, tutta la composizione è scossa da quei due impulsi contrari; la speranza e la disperazione, la vita e la morte. Le figure sono ancora quelle, eroiche, della classica pittura di storia: il ragazzo morto è bello come un Meleagro (ma si osservi la nota agghiacciante, realistica, dei piedi ravvolti in cenci bianchi), il padre che lo sostiene ha la compostezza solenne di un dio classico; gli altri corpi riversi sembrano giganti fulminati da Zeus. Quella che viene sconvolta da un fatto avverso, da un evento più forte di lei, piombata in quel mare in tempesta, è ancora un’umanità grandiosa, storica, ideale: perciò è più tragica la sua sconfitta. Realismo per Géricault, è appunto la disfatta dell’ideale, l’inutilità e la negatività della storia, l’ostilità tra l’uomo e la natura, l’incombere della morte negli atti della vita. [...]

Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana.  

  

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

Gérard-Georges Lemaire, Art e Dossier, Géricault, Giunti, Firenze, 1995.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI). 

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