Théodore Géricault (Rouen, 1791- Parigi, 1824), La zattera della Medusa (1818 – 1819, olio su tela, 491 x 715 cm) Louvre, Parigi.
La Zattera
della Medusa di T. Géricault, rappresenta un fatto realmente accaduto
– un fatto di cronaca dunque, ma anche di storia recente –, ossia il naufragio
della fregata francese Medusa avvenuto al largo delle coste del Senegal
due anni prima.
Il fatto
è questo: Anno 1816. All’inizio dell’estate una flotta di quattro navi partì dall’isola
di Aix con lo scopo di portare nella colonia di Saint Louis funzionari,
militari e subalterni. Dopo molti giorni di navigazione, quasi alla fine del
viaggio, il 2 luglio, nei pressi di capo Bianco, la Medusa si incagliò in banco
di sabbia. Dopo cinque giorni trascorsi in vani tentati di disincagliarla,
l’inesperto capitano Duruy, ordinò l’abbandono del vascello. Ufficiali e
funzionari salirono sulle scialuppe, mentre il resto dell’equipaggio,
centocinquanta uomini e una donna, prese posto su una zattera di sette metri
per venti, appositamente costruita. Durante il tragitto verso la costa, le cime
della scialuppa che trainava la zattera, per ragioni mai accertate, vennero
recise, lasciando il barcone alla deriva.
Sulla
zattera, ormai in balia delle correnti marine, subito si manifestarono dissidi
e scontri violenti, sicché già il secondo giorno settantacinque uomini vennero
buttati in mare. Tra stenti atroci, procurati dalla fame e dalla sete, ma anche
dalle elevate temperature tropicali, nove giorni appresso, i sopravvissuti erano
soltanto venticinque. Ma, fortunatamente, dopo tredici giorni i soli quindici naufraghi
superstiti vennero avvistati e soccorsi dal brigantino Argus, che
perlustrava le acque alla loro ricerca. Tutto quanto fu annotato da due
partecipanti alla spedizione, tramite una cronistoria che circolò per breve
tempo l’anno seguente, nello sgomento dell’opinione pubblica e nel forte
disappunto dell’opposizione liberale (repubblicani e bonapartisti), che ne impugnò
il caso, attribuendone apertamente la colpa al governo, colpevole, secondo il
proprio punto di vista, di aver affidato il comando dell’impresa a un
comandante che non navigava da più di dieci anni.
Géricault,
impressionato dallo sviluppo dell’intera disgraziata vicenda, dopo aver
scartato l’idea di trarne una serie di disegni, optò per un dipinto di grande
formato, affittando alla bisogna uno spazioso locale da adibire a studio, dove
si isolò in un lavoro appassionato e assiduo, in compagnia del suo unico
collaboratore, Louis Alexis Jamar, ricevendo soltanto la visita di pochi amici
che si offrirono anche come modelli.
All’inizio
il pittore indugiò non poco sul preciso momento da riprodurre, facendo molti
abbozzi delle varie situazioni. Poi decise per il coinvolgente frangente del
gruppo dei superstiti, stremati e disperati, in balia dell’oceano tempestoso, i
quali avvistano in lontananza il veliero che li porterà in salvo. Intanto,
mentre progettava l’impostazione generale della grande tela che aveva
intenzione di dipingere, produsse tutta una serie di schizzi dei vari
personaggi e studi di parti anatomiche di personaggi debilitati o morti,
recandosi persino in ospedale per osservare e disegnare cadaveri e moribondi.
Quando diede
inizio alla gigantesca composizione di cinque metri per sette, utilizzò un
procedimento già utilizzato da Guérin, ossia di disegnare in modo molto
essenziale spazio e personaggi, tinteggiando ogni parte vuota, panneggi e
incarnati, cose materiali e naturali, col proprio colore. Dipingeva freneticamente,
con fare sicuro, come riferì puntualmente Montfort. Quando Delacroix vide il
quadro in fase di realizzazione, ne rimase assai impressionato, come annotò
egli stesso sul suo diario. Probabilmente anche Delacroix posò per qualche
personaggio.
Al Salon del 1819, inaugurato il 25 agosto, vennero selezionati ed esposti milleseicento dipinti. Quello di Géricault, intitolato Scena di naufragio, da lui ritoccato in qualche parte, all’ultimo momento, prima di essere sistemato nel Salon carré della Grande galleria del Louvre, in una posizione non proprio ideale, dato che era appeso alquanto in alto, ricevette giudizi discordanti da parte della critica. Quasi crudele fu quello di un famoso critico che in Scena di naufragio intravide una concreta intenzione di uso politico dell’opera. La si percepì addirittura come una dura critica all’operato del governo monarchico. Fece discutere anche la figura del nero che sventola il drappo in cima all’ammasso dei naufraghi, provocando un’accesa polemica sulla schiavitù, che non era ancora di fatto abolita.
Tutto quanto ciò, contrariamente all’aspettativa
di un sostanziale riconoscimento del suo talento, fece credere all’artista, vittima
della malinconia e incline allo scoraggiamento, che la sua presenza al Salon era
stata fallimentare. In realtà Géricault era cosciente del suo talento. Sapeva
di aver dato vita a un capolavoro, che però non aveva avuto il riconoscimento
critico che meritava. Sperava in un’affermazione clamorosa e definitiva, che
aveva visto scemare per tutta una serie di censure impreviste, in discussioni assolutamente
pretestuose, cui l’immagine dipinta era estranea, giacché concepita come tremendo
dramma umano, comunque inscenato in una dimensione epica. Questo era il punto.
Ma, come se non bastasse, subì ancora un duro colpo, partecipando al concorso del quadro storico e di genere, che venne assegnato, con sua profonda mortificazione, a un dipinto del mediocre Guillemot.
Analisi dell’opera.
La
Zattera della Medusa è non di certo il primo quadro romantico. Ma è senza
l’ombra di dubbio il quadro più straordinariamente rappresentativo della grande
stagione romantica in pittura. Ne è l’enorme, colossale manifesto. Costituisce l’enunciato
pittorico più alto e completo dell’intero romanticismo pittorico: per via del
soggetto trattato: un accadimento vero e tremendo; per la visione convulsa e
drammatica; per il crudo realismo e la riproduzione del macabro; per l’impressionante
allestimento scenico, con la presenza di una natura potente e grandiosa,
paurosamente ostile; per il tumultuoso moto dei personaggi; per l’efficacia dei
gesti e per l’intensità dei sentimenti. Tutto in perfetta antitesi alla visione
neoclassica.
Il
dipinto rappresenta il momento, commovente e concitato insieme, in cui i quindici
sopravvissuti, aggrappati alla malferma zattera alla
deriva nell’oceano tempestoso, avvistano in lontananza il brigantino Argus, che
li porterà in salvo. Si scatena allora un turbinio di reazioni nei naufraghi stremati
dagli stenti patiti. Che, in un disperato tentativo di farsi avvistare, cercano
di formare un rialzo umano, sostenendosi l’un l’altro, salendo su casse e
barili, sventolando drappi verso l’orizzonte, ove si distingue la piccola sagoma
di un veliero. Uno di loro, un giovane nero, animato da un incredibile desiderio
di salvezza, svetta su tutti gli altri e, con le ultime forze rimastegli, agita
un panno rosso e bianco. Sotto di lui si dimena un altro speranzoso, che sventola
in aria la sua camicia bianca. Più in basso altri superstiti, tesi nello sforzo
di sorreggerli, formano una struttura di corpi pressappoco piramidale,
divergente rispetto all’albero che sorregge una vela di fortuna e intorno a cui
si è stato allestito un misero riparo. Sotto la vela alcuni sviliti personaggi
osservano ciò che sta accadendo, con i volti pieni di speranza. Più in basso
ancora, abbandonati sulle assi della zattera mezza scassata dalla furia delle
onde, ci sono i cadaveri di chi non ce l’ha fatta. Qualche corpo senza vita sta
scivolando in mare, nella rassegnazione di un anziano che sorregge pensoso il
corpo esanime del figlio. Un altro personaggio di fianco a lui, pure
rassegnato, quasi protegge un cadavere, e volge appena lo sguardo verso il
trambusto creatosi dietro di lui.
Il grande
manifesto del romanticismo conserva, tuttavia, nell’anatomia di molti
personaggi un chiaro utilizzo di modelli michelangioleschi o, più in
generale, classici, piuttosto vicini alla pittura storica davidiana. Ma
questo non stupisce affatto, considerato il labile confine che separa il
neoclassicismo dal romanticismo francese e italiano.
Interamente e singolarmente romantici sono il vasto spazio dipinto dell’oceano tempestoso e terribile – rischiarato da una livida luce caravaggesca – e il tumulto passioni che anima i personaggi, in impari lotta contro un atroce destino e una natura ostile, costretti sulla precaria struttura della zattera, instabile e obliqua, in balia della furia dell’oceano. Sicché il reale fatto di cronaca si trasforma in un’immagine epica, leggendaria, omerica, quasi fosse la storia d’un naufragio avvenuto in un tempo mitico, divenendo quasi tutt’altra storia, metafora dell’uomo in eterna lotta con le avversità dell’esistenza, in cui si intravede però la possibilità di salvezza.
© G. LUCIO FRAGNOLI
"Questa
piramide di carne umana, in parte marcia, in parte vibrante di speranza, fu
dipinta (...) per stupire l'umanità parigina nel Salon del 1819. Ci mise otto
mesi a realizzarlo (...) durante i quali si recluse in silenziosa
concentrazione facendosi portare i pasti dalla zia e i resti umani in
decomposizione dall'ospedale. Ammise davanti alla tela in evoluzione solo pochi
intimi che usava come modelli vivi, fra i quali Delacroix, più giovane di lui e
che dipinse bello vecchio in primo piano(...)."
Philippe Daverio, Il secolo lungo della modernità.
[...] Invece nel quadro di Géricault c’è una ressa, un groviglio di corpi avvinghiati: ma non impegnati in un’azione, ma sofferenti della medesima angoscia. C’è un crescendo che parte da zero, dai morti in primo piano; poi, dai moribondi ormai indifferenti a tutto si passa ai languenti rianimati da una folle speranza. E ci sono due spinte contrarie: la marea montante dei naufraghi protesi verso l’incerta salvezza; l’ondata che respinge il relitto, il vento che gonfia la vela in direzione opposta. Sul piano instabile, oscillante della zattera, tutta la composizione è scossa da quei due impulsi contrari; la speranza e la disperazione, la vita e la morte. Le figure sono ancora quelle, eroiche, della classica pittura di storia: il ragazzo morto è bello come un Meleagro (ma si osservi la nota agghiacciante, realistica, dei piedi ravvolti in cenci bianchi), il padre che lo sostiene ha la compostezza solenne di un dio classico; gli altri corpi riversi sembrano giganti fulminati da Zeus. Quella che viene sconvolta da un fatto avverso, da un evento più forte di lei, piombata in quel mare in tempesta, è ancora un’umanità grandiosa, storica, ideale: perciò è più tragica la sua sconfitta. Realismo per Géricault, è appunto la disfatta dell’ideale, l’inutilità e la negatività della storia, l’ostilità tra l’uomo e la natura, l’incombere della morte negli atti della vita. [...]
Giulio
Carlo Argan, Storia dell’arte italiana.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE:
Gérard-Georges
Lemaire, Art e Dossier, Géricault,
Giunti, Firenze, 1995.
Piero Adorno,
L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri
giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.
G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°,
1993, Sansoni, Milano.
Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.
IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI).
Nessun commento:
Posta un commento