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mercoledì 21 settembre 2022

IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI di Jacques-Louis David

Jacques-Louis David (Parigi, 1748 - Bruxelles, 1825), Il giuramento degli Orazi (1784, olio su tela, 326 x 420 cm) Musée du Louvre, Parigi.


LETTURA DELL’OPERA 

Il Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David, è ispirato dalla tragedia Horace di Corneille, tratta dalla leggenda romana, secondo cui, nell’età del re Tullio Ostilio (VII sec. a.C.) i tre fratelli Orazi si offrirono per combattere contro i tre fratelli Curiazi e decidere così le sorti del conflitto tra Roma e Albalonga. Di tutto l’episodio, il pittore sceglie il momento di maggiore tensione psicologica, ossia il rito del giuramento, che si svolge alle prime luci dell’alba, all’interno di un chiostro proto-tuscanico. Attraverso uno schema prospettico rigoroso, David realizza uno spazio tripartito, in cui sono studiatamente collocati i vari personaggi, i quali  rappresentano tre stati d’animo diversi: la determinazione e l’amor patrio del padre, messo al centro della composizione, che porge le spade;  l’eroismo e la pronta adesione dei tre guerrieri al patto d’onore; cui si contrappone il sentimento più ordinario di dolore delle donne, tra le quali se ne scorge una vestita di nero, una vedova indubbiamente, che anticipa l’esito tragico della vicenda.

L’ordine spaziale davidiano, sobrio ed essenziale, è concepito per un preciso effetto teatrale e in funzione della chiarezza del messaggio. Nel caso del Giuramento esso è caratterizzato da arcate su colonne proto-tuscaniche (o proto-doriche) che rimandano all’età arcaica, incorrotta e governata da leggi equanimi.

CONSIDERAZIONI GENERALI 

Gli sforzi dell’artista, a partire dagli anni del suo primo soggiorno romano, erano orientati verso la ricerca di uno stile adatto a raffigurare soggetti di elevato significato etico. Dipinti come La morte di Socrate (1787), Il giuramento degli Orazi (1784), I littori che portano a Bruto i corpi dei suoi figli (1789) furono il risultato di questa attenta ricerca, in un periodo in cui Luigi XVI stava portando avanti un programma di moralizzazione della società. Il giuramento degli Orazi e I littori che portano a Bruto i corpi dei suoi figli, vennero commissionati dal conte d’Angiviller per conto del re proprio con questo scopo: l’educazione alle virtù – quali il patriottismo, il coraggio, l’eroismo, il rispetto delle leggi, la sobrietà e la moderazione – tramite messaggi chiari ed efficaci.

Con Il giuramento degli Orazi, David raggiunge già la piena maturità stilistica, in una visione chiara e severa, come quella d’un artista rinascimentale, nel perfetto equilibrio di luce a una determinata ora del giorno, spazio architettonico dipinto, complessità e introspezione psicologica dei personaggi rappresentati. Per la scelta del soggetto David fu quasi sicuramente ispirato dall’Horace di Corneille, ma anche ripresa dai fatti narrati da Tito Livio, secondo il quale i tre fratelli Orazi scelsero di decidere le sorti della guerra tra Albalonga e Roma con un duello con i tre fratelli Curiazi. Allo scontro sanguinoso sopravvisse un solo uomo degli Orazi, che tornò a Roma da trionfatore, e dove ritrovò sua sorella distrutta dal dolore per la perdita del suo promesso sposo, uno dei fratelli Curiazi. Il giovane vittorioso la uccise impietosamente e fu condannato a morte. Ma il padre chiese clemenza per lui, che fu graziato, non per un principio di giustizia, ma soltanto per il valore da lui dimostrato, che prevalse sulla mancanza dell’importante prerogativa stoica e romana dell’autocontrollo.

SIGNIFICATO “POLITICO” DEL GIURAMENTO DEGLI ORAZI

Sebbene sia stato dipinto poco prima della rivoluzione, Il Giuramento degli Orazi niente ha a che vedere con essa. Il quadro fu realizzato a Roma e acquistato dal conte d’Angiviller per la Corona. Lo stesso David non attribuì mai nessun significato politico all’opera, ma ne evidenziava invece la purezza e la nobiltà delle passioni incarnate dai personaggi.

David è da molti considerato un artista politico. Ma a tale proposito ci sono due correnti di pensiero opposte: una che lo esalta come gran rivoluzionario; l’altra che lo vede come un freddo calcolatore sempre schierato col potere. Daniel Guérin lo definisce addirittura “un cinico borghese traditore del proletariato”. In verità, il primo importante atto di impegno politico avviene soltanto quando fu incaricato dal Club dei Giacobini di dipingere il giuramento della Pallacorda, definito per l’occasione anticipatore della rivoluzione. Ma discutere di questo mi pare addirittura superfluo. Sappiamo bene che David fu deputato e presidente della Convenzione, restando sempre coerente con le proprie idee politiche e artistiche.          

VITA DI DAVID IN BREVE

1748. Nasce a Parigi Jacques-Louis David. 1757. Il padre viene ucciso in duello. 1771. David è allievo di Joseph-Marie Vien. Vince il secondo premio dell’Accademia di pittura. 1772. David tenta il suicidio. 1774. Vince il Prix de Rome. 1775 - 1780. David è a Roma. 1782. Si sposa con Charlotte Pécoul. 1783 - 1786. Nascono i suoi quattro figli. 1789. Presa della Bastiglia. 1792. Viene eletto deputato della Convenzione. 1794. Cade Robespierre e viene incarcerato per un anno. 1800. David viene nominato pittore ufficiale del governo da Napoleone. 1804. Viene nominato pittore dell’Imperatore. 1815. Si schiera con Napoleone durante i cento giorni. 1816. Rifiutando la clemenza del re preferisce l’esilio in Belgio, a Bruxelles. 1825. A Bruxelles muore il 29 dicembre, per l’aggravamento di una grave forma di raffreddamento.  

BREVIARIO DEL NEOCLASSICISMO 

Il neoclassicismo è lo stile che, nato a Roma, s’afferma a partire dal 1770 circa, e che ha come antefatto culturale quel grande movimento di idee noto col termine di illuminismo. Gli illuministi, attraverso il libero pensiero, si proposero di realizzare un mondo nuovo, governato da leggi ispirate all’uguaglianza sociale, cancellando per sempre i privilegi del clero e di una nobiltà inetta e in piena decadenza morale. La conseguenza storica dell’illuminismo, furono prima la rivoluzione americana e poi la rivoluzione francese. La rivoluzione francese nacque dal supremo disegno di creare una società «stabile e armoniosa», per dirla con le parole di Isaiah Berlin, «fondata su principi immutabili: un sogno di perfezione classica...». I dogmi, il rigido assetto sociale e gli arcaici privilegi dell’antico regime crollarono sotto la luce della ragione e di un idealismo intransigente. Con la stessa forza rivoluzionaria, il neoclassicismo segnò la fine del capriccioso e sensuale rococò.

Il termine di neoclassicismo, che fu coniato alla fine dell’Ottocento in senso spregiativo, farebbe pensare a una corrente artistica di mero e convenzionale rifacimento dell’arte greca e romana.  Fu al contrario un movimento eversivo e travolgente, che mirò a realizzare un risorgimento delle arti, una rinnovata rifioritura artistica simile a quella rinascimentale. Gli artisti e i teorici lo chiamavano semplicemente il vero stile.

Un vento di trasformazione cominciava a soffiare nei salons parigini, rinfrescandone l’atmosfera chiusa e profumata, eliminando curve e codini rococò, soffiando via gli ornamenti delicatamente fragili: boccioli di rosa e conchiglie e cupidi incipriati con i sederini delicatamente imbellettati come le guance, tutte le figure della commedia dell’arte in posa e le altre squisite frivolezze e perversità che avevano fatto la delizia di una società di gusti difficili, ultrasofisticata... (Hugh Honour).

Il teorico del vero stile fu J. J. Winckelmann, il quale sosteneva che bisognava “imitare” i grandi maestri antichi. Ma imitare non significava – secondo il suo pensiero - copiare, bensì fare propri e utilizzare i modelli e i canoni estetici degli artisti antichi, in un processo di produzione del nuovo e del moderno. E infatti, il neoclassicismo è a tutti gli effetti uno stile moderno, come moderna è la neoclassica estetica del sublime, che si riassume in un superamento della contemplazione, con un forte coinvolgimento spirituale e sentimentale nel godimento del bello. Già, perché il neoclassicismo è uno stile sentimentalistico. 

Il neoclassicismo nacque per reazione al rococò, ma divenne ben presto uno stile profondo, portatore di alti valori etici e morali, avversatore dei dogmi e dell’ignoranza, della superstizione e della dissolutezza. Il suo decadimento fu dovuto alla banalizzazione che se ne fece nel periodo napoleonico, che lo trasformò in uno stile celebrativo e retorico, rappresentativo della grandeur imperiale. Cosa questa che favorì la graduale affermazione del romanticismo anche in chiave antifrancese. Molti pensano, sbagliando, che neoclassicismo e romanticismo siano due contrapposte e del tutto differenti correnti artistiche. Per come la penso io, il romanticismo fu l’evoluzione naturale del neoclassicismo, che aveva esaurito ben presto i suoi temi e la sua linfa innovativa. Sia l’uno che l’altro movimento procedettero insieme per un certo periodo ed ebbero molto in comune, compresa l’estetica del sublime. Erano, in buona sostanza, quasi due facce della stessa medaglia, rappresentavano entrambe quel mondo e quella società moderna che stavano nascendo impetuosamente, e spesso una corrente sconfinava nell’altra, o la negava con violenza, dimostrano implicitamente di riconoscerla come riferimento importante. Diversi erano però e i temi e la rappresentazione degli stati d’animo. Diversa era la visione dell’uomo, che stava diventando l’unico libero padrone delle proprie idee e delle proprie creazioni.     

© G. LUCIO FRAGNOLI

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

Orietta Rossi Pinelli, Art e Dossier, David, Giunti, Firenze, 1989.

Hugh Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino, 1980.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

domenica 18 settembre 2022

I LITTORI CHE RIPORTANO A BRUTO I CORPI DEI SUOI FIGLI di JACQUES-LOUIS DAVID

 


Jacques-Louis David (Parigi, 1748 - Bruxelles, 1825), I littori che riportano a Bruto i corpi dei suoi figli (1789, olio su tela, 323 x 422 cm) Musée du Louvre, Parigi.

Nella lettera indirizzata al Wicar, Jacques-Louis David scrive: Si tratta di un quadro di mia invenzione. Narra di Bruto, uomo e padre, al quale vengono consegnati, per seppellirli, i corpi dei figli che aveva sacrificato per il bene della patria. Ai piedi della statua di Roma è distolto dal suo dolore dalle grida della sua sposa e dallo svenimento della figlia maggiore. (...) 

Gli sforzi dell’artista, a partire dagli anni del suo primo soggiorno romano, erano orientati verso la ricerca di uno stile adatto a raffigurare soggetti di elevato significato etico. Dipinti come La morte di Socrate (1787), Il giuramento degli Orazi (1784), I littori che riportano a Bruto i corpi dei suoi figli (1789) furono il risultato di questa attenta ricerca, in un periodo in cui Luigi XVI stava portando avanti un programma di moralizzazione della società. Il giuramento degli Orazi e I littori che riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, vennero commissionati dal conte d’Angiviller per conto del re proprio con questo scopo: l’educazione alle virtù – quali il patriottismo, il coraggio, l’eroismo, il rispetto delle leggi, la sobrietà e la moderazione – tramite messaggi chiari e efficaci.

 I littori che riportano a Bruto i corpi dei suoi figli fu dipinto, quindi, con un fine esplicitamente educativo, con l’esaltazione del sentimento patriottico. Ma questo, comunque, non toglie valore al quadro. Che, invece, rappresenta un momento fondamentale per lo sviluppo delle idee neoclassiche. 

Sappiamo che Lucio Giunio Bruto aveva fatto uccidere i suoi figli, rei di aver complottato contro la Repubblica, organizzando il ritorno di Tarquinio il Superbo, il quale era stato costretto all’esilio proprio per volontà di Bruto: aveva, infatti, sollevato il popolo contro il re. Il potere era quindi passato nelle mani di due consoli: lo stesso Bruto e Tarquinio Collatino. Caduto in disgrazia Collatino, era stato eletto al suo posto Publio Valerio.

Nel dipinto David rappresenta il momento in cui i corpi esanimi dei figli di Bruto, Tito e Tiberio, condannati e giustiziati, vengono portati nella domus paterna per le esequie dai littori, i quali hanno varcato la soglia, con in spalla la lettiga con sopra uno dei due giovani traditori uccisi. Il padre, seduto sotto la statua di Roma, gli volge le spalle in un’espressione di composta forza di volontà, mentre le donne si disperano, con la figlia maggiore del console che sviene per il dolore, in una evidente gestualità e in una ponderata teatralità. Espressioni e gesti dei personaggi facilitano così la comprensione del significato complessivo del dipinto. Di straordinario effetto appare la figura di Bruto, in cui è palese il conflitto di emozioni che si percepisce in ogni parte del corpo, dal volto teso alle gambe tormentosamente incrociate. Dietro la sua stoica impassibilità si cela in realtà una penosa agitazione: l’amore paterno si contrappone al dovere patriottico: il sacrificio degli affetti familiari contrastante con la superiore aspirazione politica.

Tutto quanto accade nella casa di Bruto, con una rigorosa e meditata definizione dello spazio, rappresentato in prospettiva frontale. Lo spazio in cui i personaggi si muovono è concepito come elemento altamente significativo. L’interno, pensato per un preciso risultato scenico, è sobrio e disadorno, persino essenziale, caratterizzato da una successione di colonne doriche che rimandano all’età arcaica, incorrotta e governata da leggi eque. Altro elemento importante dello stile davidiano è la luce, naturale e misurata, che definisce l’ampiezza dello spazio e il volume degli elementi strutturali – rafforzandone l’effetto materico –; l’importanza e la particolare condizione dei personaggi. Bruto è certamente il personaggio principale della messinscena pittorica, ed è messo in disparte, in ombra, come per evidenziarne anche la solitudine. Il gruppo delle donne sconvolte, sono avvolte dalla luce, invece, in un’idea di coralità nel dolore.

Anche nel Bruto, come nel precedente Giuramento, vi è una straordinaria chiarezza di visione, presupposto primario dei quadri storici davidiano e della stessa visione neoclassica, che è etica, estetica e ideale. 

© G. LUCIO FRAGNOLI

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 Orietta Rossi Pinelli, Art e Dossier, David, Giunti, Firenze, 1989.

Hugh Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino, 1980.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

sabato 17 settembre 2022

LA ZATTERA DELLA MEDUSA di Théodore Géricault

 

Théodore Géricault (Rouen, 1791- Parigi, 1824), La zattera della Medusa (1818 – 1819, olio su tela, 491 x 715 cm) Louvre, Parigi.

La Zattera della Medusa di T. Géricault, rappresenta un fatto realmente accaduto – un fatto di cronaca dunque, ma anche di storia recente –, ossia il naufragio della fregata francese Medusa avvenuto al largo delle coste del Senegal due anni prima.

Il fatto è questo: Anno 1816. All’inizio dell’estate una flotta di quattro navi partì dall’isola di Aix con lo scopo di portare nella colonia di Saint Louis funzionari, militari e subalterni. Dopo molti giorni di navigazione, quasi alla fine del viaggio, il 2 luglio, nei pressi di capo Bianco, la Medusa si incagliò in banco di sabbia. Dopo cinque giorni trascorsi in vani tentati di disincagliarla, l’inesperto capitano Duruy, ordinò l’abbandono del vascello. Ufficiali e funzionari salirono sulle scialuppe, mentre il resto dell’equipaggio, centocinquanta uomini e una donna, prese posto su una zattera di sette metri per venti, appositamente costruita. Durante il tragitto verso la costa, le cime della scialuppa che trainava la zattera, per ragioni mai accertate, vennero recise, lasciando il barcone alla deriva.

Sulla zattera, ormai in balia delle correnti marine, subito si manifestarono dissidi e scontri violenti, sicché già il secondo giorno settantacinque uomini vennero buttati in mare. Tra stenti atroci, procurati dalla fame e dalla sete, ma anche dalle elevate temperature tropicali, nove giorni appresso, i sopravvissuti erano soltanto venticinque. Ma, fortunatamente, dopo tredici giorni i soli quindici naufraghi superstiti vennero avvistati e soccorsi dal brigantino Argus, che perlustrava le acque alla loro ricerca. Tutto quanto fu annotato da due partecipanti alla spedizione, tramite una cronistoria che circolò per breve tempo l’anno seguente, nello sgomento dell’opinione pubblica e nel forte disappunto dell’opposizione liberale (repubblicani e bonapartisti), che ne impugnò il caso, attribuendone apertamente la colpa al governo, colpevole, secondo il proprio punto di vista, di aver affidato il comando dell’impresa a un comandante che non navigava da più di dieci anni.

Géricault, impressionato dallo sviluppo dell’intera disgraziata vicenda, dopo aver scartato l’idea di trarne una serie di disegni, optò per un dipinto di grande formato, affittando alla bisogna uno spazioso locale da adibire a studio, dove si isolò in un lavoro appassionato e assiduo, in compagnia del suo unico collaboratore, Louis Alexis Jamar, ricevendo soltanto la visita di pochi amici che si offrirono anche come modelli.

All’inizio il pittore indugiò non poco sul preciso momento da riprodurre, facendo molti abbozzi delle varie situazioni. Poi decise per il coinvolgente frangente del gruppo dei superstiti, stremati e disperati, in balia dell’oceano tempestoso, i quali avvistano in lontananza il veliero che li porterà in salvo. Intanto, mentre progettava l’impostazione generale della grande tela che aveva intenzione di dipingere, produsse tutta una serie di schizzi dei vari personaggi e studi di parti anatomiche di personaggi debilitati o morti, recandosi persino in ospedale per osservare e disegnare cadaveri e moribondi.

Quando diede inizio alla gigantesca composizione di cinque metri per sette, utilizzò un procedimento già utilizzato da Guérin, ossia di disegnare in modo molto essenziale spazio e personaggi, tinteggiando ogni parte vuota, panneggi e incarnati, cose materiali e naturali, col proprio colore. Dipingeva freneticamente, con fare sicuro, come riferì puntualmente Montfort. Quando Delacroix vide il quadro in fase di realizzazione, ne rimase assai impressionato, come annotò egli stesso sul suo diario. Probabilmente anche Delacroix posò per qualche personaggio.    

Al Salon del 1819, inaugurato il 25 agosto, vennero selezionati ed esposti milleseicento dipinti. Quello di Géricault, intitolato Scena di naufragio, da lui ritoccato in qualche parte, all’ultimo momento, prima di essere sistemato nel Salon carré della Grande galleria del Louvre, in una posizione non proprio ideale, dato che era appeso alquanto in alto, ricevette giudizi discordanti da parte della critica. Quasi crudele fu quello di un famoso critico che in Scena di naufragio intravide una concreta intenzione di uso politico dell’opera. La si percepì addirittura come una dura critica all’operato del governo monarchico. Fece discutere anche la figura del nero che sventola il drappo in cima all’ammasso dei naufraghi, provocando un’accesa polemica sulla schiavitù, che non era ancora di fatto abolita. 

Tutto quanto ciò, contrariamente all’aspettativa di un sostanziale riconoscimento del suo talento, fece credere all’artista, vittima della malinconia e incline allo scoraggiamento, che la sua presenza al Salon era stata fallimentare. In realtà Géricault era cosciente del suo talento. Sapeva di aver dato vita a un capolavoro, che però non aveva avuto il riconoscimento critico che meritava. Sperava in un’affermazione clamorosa e definitiva, che aveva visto scemare per tutta una serie di censure impreviste, in discussioni assolutamente pretestuose, cui l’immagine dipinta era estranea, giacché concepita come tremendo dramma umano, comunque inscenato in una dimensione epica. Questo era il punto.

Ma, come se non bastasse, subì ancora un duro colpo, partecipando al concorso del quadro storico e di genere, che venne assegnato, con sua profonda mortificazione, a un dipinto del mediocre Guillemot.


Analisi dellopera.

La Zattera della Medusa è non di certo il primo quadro romantico. Ma è senza l’ombra di dubbio il quadro più straordinariamente rappresentativo della grande stagione romantica in pittura. Ne è l’enorme, colossale manifesto. Costituisce l’enunciato pittorico più alto e completo dell’intero romanticismo pittorico: per via del soggetto trattato: un accadimento vero e tremendo; per la visione convulsa e drammatica; per il crudo realismo e la riproduzione del macabro; per l’impressionante allestimento scenico, con la presenza di una natura potente e grandiosa, paurosamente ostile; per il tumultuoso moto dei personaggi; per l’efficacia dei gesti e per l’intensità dei sentimenti. Tutto in perfetta antitesi alla visione neoclassica.

Il dipinto rappresenta il momento, commovente e concitato insieme, in cui i quindici sopravvissuti, aggrappati alla malferma zattera alla deriva nell’oceano tempestoso, avvistano in lontananza il brigantino Argus, che li porterà in salvo. Si scatena allora un turbinio di reazioni nei naufraghi stremati dagli stenti patiti. Che, in un disperato tentativo di farsi avvistare, cercano di formare un rialzo umano, sostenendosi l’un l’altro, salendo su casse e barili, sventolando drappi verso l’orizzonte, ove si distingue la piccola sagoma di un veliero. Uno di loro, un giovane nero, animato da un incredibile desiderio di salvezza, svetta su tutti gli altri e, con le ultime forze rimastegli, agita un panno rosso e bianco. Sotto di lui si dimena un altro speranzoso, che sventola in aria la sua camicia bianca. Più in basso altri superstiti, tesi nello sforzo di sorreggerli, formano una struttura di corpi pressappoco piramidale, divergente rispetto all’albero che sorregge una vela di fortuna e intorno a cui si è stato allestito un misero riparo. Sotto la vela alcuni sviliti personaggi osservano ciò che sta accadendo, con i volti pieni di speranza. Più in basso ancora, abbandonati sulle assi della zattera mezza scassata dalla furia delle onde, ci sono i cadaveri di chi non ce l’ha fatta. Qualche corpo senza vita sta scivolando in mare, nella rassegnazione di un anziano che sorregge pensoso il corpo esanime del figlio. Un altro personaggio di fianco a lui, pure rassegnato, quasi protegge un cadavere, e volge appena lo sguardo verso il trambusto creatosi dietro di lui.    

Il grande manifesto del romanticismo conserva, tuttavia, nell’anatomia di molti personaggi un chiaro utilizzo di modelli michelangioleschi o, più in generale, classici, piuttosto vicini alla pittura storica davidiana. Ma questo non stupisce affatto, considerato il labile confine che separa il neoclassicismo dal romanticismo francese e italiano.

Interamente e singolarmente romantici sono il vasto spazio dipinto dell’oceano tempestoso e terribile – rischiarato da una livida luce caravaggesca – e il tumulto passioni che anima i personaggi, in impari lotta contro un atroce destino e una natura ostile, costretti sulla precaria struttura della zattera, instabile e obliqua, in balia della furia dell’oceano. Sicché il reale fatto di cronaca si trasforma in un’immagine epica, leggendaria, omerica, quasi fosse la storia d’un naufragio avvenuto in un tempo mitico, divenendo quasi tutt’altra storia, metafora dell’uomo in eterna lotta con le avversità dell’esistenza, in cui si intravede però la possibilità di salvezza.  

© G. LUCIO FRAGNOLI

"Questa piramide di carne umana, in parte marcia, in parte vibrante di speranza, fu dipinta (...) per stupire l'umanità parigina nel Salon del 1819. Ci mise otto mesi a realizzarlo (...) durante i quali si recluse in silenziosa concentrazione facendosi portare i pasti dalla zia e i resti umani in decomposizione dall'ospedale. Ammise davanti alla tela in evoluzione solo pochi intimi che usava come modelli vivi, fra i quali Delacroix, più giovane di lui e che dipinse bello vecchio in primo piano(...)."  

Philippe Daverio, Il secolo lungo della modernità.



[...] Invece nel quadro di Géricault c’è una ressa, un groviglio di corpi avvinghiati: ma non impegnati in un’azione, ma sofferenti della medesima angoscia. C’è un crescendo che parte da zero, dai morti in primo piano; poi, dai moribondi ormai indifferenti a tutto si passa ai languenti rianimati da una folle speranza. E ci sono due spinte contrarie: la marea montante dei naufraghi protesi verso l’incerta salvezza; l’ondata che respinge il relitto, il vento che gonfia la vela in direzione opposta. Sul piano instabile, oscillante della zattera, tutta la composizione è scossa da quei due impulsi contrari; la speranza e la disperazione, la vita e la morte. Le figure sono ancora quelle, eroiche, della classica pittura di storia: il ragazzo morto è bello come un Meleagro (ma si osservi la nota agghiacciante, realistica, dei piedi ravvolti in cenci bianchi), il padre che lo sostiene ha la compostezza solenne di un dio classico; gli altri corpi riversi sembrano giganti fulminati da Zeus. Quella che viene sconvolta da un fatto avverso, da un evento più forte di lei, piombata in quel mare in tempesta, è ancora un’umanità grandiosa, storica, ideale: perciò è più tragica la sua sconfitta. Realismo per Géricault, è appunto la disfatta dell’ideale, l’inutilità e la negatività della storia, l’ostilità tra l’uomo e la natura, l’incombere della morte negli atti della vita. [...]

Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana.  

  

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

Gérard-Georges Lemaire, Art e Dossier, Géricault, Giunti, Firenze, 1995.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO (DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI). 

giovedì 15 settembre 2022

TUTTA COLPA DI CAPUOZZO di G. LUCIO FRAGNOLI

 

DATA DI PUBBLICAZIONE: ottobre 2022  - Pagine 252

EAN: 9791221370997

EDIZIONI EMMEGI

DISPNIBILE IN: EPUB – EBOK – FORMATO KINDLE

SINOSSI

Anno 2000. Roma. Nel lasso di un mese si compie l’incredibile avventura di Gino Barbieri, alla ricerca del fantomatico Capuozzo. Assassinato per errore e rimandato nel mondo nel corpo del nero Sonny Taylor, il protagonista si arrischia in una girandola di pericolose situazioni, con molti morti ammazzati e voluttuosi incontri. Muovendosi dentro sconosciuti scenari notturni di quartieri multirazziali e di ordinario tran tran metropolitano, Gino alias Sonny affronta inconsapevolmente un tortuoso viaggio alla riscoperta dell’uomo che è stato.  

RECENSIONE DI ERMES GALLUCCI 

Per questo recente lavoro di Giuseppe Lucio Fra­gnoli, Tutta colpa di Capuozzo, si potrebbe speri­mentare una recensione “scabra ed essenziale.” È un racconto avvincente, apparentemente un giallo o, molto più correttamente, un noir, che si legge d’un fiato, ma con la preziosa avvertenza di Calvino al let­tore: “Stai per cominciare a leggere un nuovo ro­manzo. Rilassati. Raccogliti. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’ indistinto, la porta è me­glio chiuderla; di là c’è sempre la televisione ac­cesa.”

Si entra così, repentinamente, nelle vicende nar­rate, guidati dall’autore, che, con una forte carica di humour nero, ci conduce attraverso agguati in ri­storanti po­polari o in lugubri alberghetti cinesi o a spasso nei quartieri multirazziali di una Roma notturna e sban­data, con molti morti ammazzati, continui e vorticosi amplessi, inattesi incontri con loschi personaggi e con donne statuarie, alla ricerca del fantomatico Ca­puozzo, primo responsabile di tutti gli accadimenti. Il romanzo, appunto, inizia con uno “spietato” che va alla caccia di Capuozzo: “Hai capito bene, ce l’ho con te. Tu sei Capuozzo?” E termina con un rendez-vous mancato: “… ma io avevo un appun­tamento qua, con una persona di nome Capuozzo, esattamente al tavolo numero no-ve.

È l’eterno ritorno della letteratura sui casi della vi-ta, imprevedibili, accidentali e, nel contempo, ci-clici. Tutto si svolge nel  paesaggio urbano di Roma, sen­tita però come la Londra uggiosa, bru­mosa, incom­bente di Dickens, descritta con inquie­tudine e disgu­sto: “uno sconfinato ammasso di ca­seggiati, asfalto, binari, cavi, tubazioni, plastica, vetri e colate di cemento… un macchinario agoniz­zante, tenuto a stento in movimento da un trabal­lante polmone artificiale… un guazzabuglio… in un traffico che si paralizza in uno scenario di fradice e labili esistenze, assediate da frenetiche ansie e cao­tiche paure.

In un tale contesto urbano, intasato di moltitudini in movimento continuo, che si infilano negli “orifizi” della metropolitana come per discendere fino agli In­feri per poi risalire ingrugnite, addossate, suda­ticce, l’autore intesse la trama degli avvenimenti, determi­nati dall’affannosa indagine del protagoni­starima­sto vittima di un fatale errore.

E in una simile trama, padroneggiata senza nes­suna sbavatura, pur tra situazioni truci, alla Taran­tino, ed insistito erotismo, lautore cattura il lettore con il mezzo connotativo dell’opera letteraria: il linguaggio: immediato, diretto, perfettamente fina­liz­zato, e di grana fine. Tutta colpa di Capuozzo è un buon lavoro, sotto tutti gli aspetto. 

 L’autore G. Lucio Fragnoli con l'amico architetto Ernesto Ruggiero

LA DEPOSIZIONE del CARAVAGGIO

 

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Deposizione o Sepoltura di Cristo (1602 - 1604), olio su tela ( 300 × 203 cm), Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano.

Egli allora (Giuseppe d’Arimatea), comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro. Intanto Maria di Magdala e Maria madre di Joses stavano ad osservare dove veniva sepolto (Marco XV, 46 e 47).

 

 

“LA DEPOSIZIONE” O “SEPOLTURA DI CRISTO”

 

 

Un anno dopo l’esecuzione dei dipinti della Cappella Cerasi in di Santa Maria del Popolo (1600-1601), per la benevola intercessione del Cardinale Federico Borromeo, il Caravaggio ottenne un’altra importantissima commissione pubblica, conferitagli da Girolamo Vittrice, per una Sepoltura di Cristo o Deposizione, da collocarsi sull’altare della Cappella dei Vittrice, nella Chiesa Nuova, concessa agli Oratoriani di San Filippo Neri, vicinissimi al Borromeo e appartenenti anch’essi all’ala pauperista della Controriforma, che faceva capo allo stesso Cardinale.

La Chiesa Nuova, progettata dall’architetto Martino Longhi il Vecchio, fu quasi totalmente edificata tra il 1586 ed il 1588, ristrutturando l’esistente chiesa di Santa Maria in Vallicella, che era stata ampliata con l’aggiunta di due navate laterali all’unica navata della preesistente costruzione, con la ulteriore realizzazione di cinque cappelle per ciascun lato del corpo basilicale più quelle del transetto.

Alla morte di Martino Longhi, i lavori di completamento furono condotti dal figlio Onorio – inseparabile amico del Caravaggio – il quale, tra il 1600 ed il 1602, con la supervisione del padre oratoriano Giovan Battista Guerra, ultimò con proprio progetto la Cappella di San filippo Neri.

La Sepoltura di Cristo (o Deposizione) fu definita dalla critica ottocentesca come un “funerale di una tribù di zingari”, giudizio questo condiviso anche da qualche critico moderno. D’altra parte, molti studiosi del nostro tempo vedono in essa una battuta d’arresto nell’evoluzione stilistica caravaggesca, riscontrando nell’equilibrio e nella compostezza del gruppo dei personaggi un avvicendamento ai coevi affreschi carracceschi di Palazzo Farnese.

Il Baglione, lo Scannelli e il von Sandrart reputarono La Sepoltura di Cristo la migliore opera del Merisi. Ad essi si associò l’abate Giovanni Pietro Bellori, che così ne commentò: Ben tra le megliori opere, che uscissero dal pennello di Michelangelo si tiene meritatamente in istima la Deposizione di Cristo nella Chiesa Nuova de’ Padri dell’Oratorio; situate le figure sopra una pietra nell’apertura del sepolcro. Vedasi in mezzo il sacro corpo, lo regge Nicodemo da piedi, abbracciandolo sotto le ginocchia, e nell’abbassarsi le cosce, escono in fuori le gambe. Di là San Giovanni sottopone un braccio alla spalla del Redentore, e resta supina la faccia, e l’petto pallido à morte, pendolo il braccio col lenzuolo; e tutto l’ignudo è ritratto con forza della più esatta imitatione. Dietro Nicodemo si veggono alquanto le Marie dolenti, l’una con le braccia sollevate, l’altra col velo à gli occhi, e la terza riguarda il Signore.   

Gli studiosi, soprattutto dal punto iconografico, hanno proposto varie chiavi di lettura dell’opera, tra le quali mi pare interessantissima quella di Le Grave, che non a torto sostiene come nell’opera siano congiuntamente presenti i motivi della Deposizione, della Pietà, e dell’Estremo Commiato innanzi al sepolcro e come il grande lastrone di pietra richiami direttamente la Pietra maculata dell’unzione, sulla quale il corpo esanime del Cristo fu cosparso d’unguenti profumati, prima d’essere tumulato, e su cui si incisero sotto forma di macchioline bianche le lacrime della Madonna. La pietra, si sa per certo, era custodita a Costantinopoli fino all’anno 1204, quando la città fu saccheggiata dai crociati, i quali, molto probabilmente, la trafugarono, facendone perdere ogni traccia.

L’iconografia dell’opera è alquanto fedele a quella tradizionale: i personaggi radunati sul lastrone sono San Giovanni e Giuseppe d’Arimatea (o Nicodemo, come riferisce Bellori), che sostengono il corpo senza vita di Gesù, Maria di Magdala, Maria Madre di Joses e Maria di Cleofa con le braccia alzate al cielo.


© G. LUCIO FRAGNOLI


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

R.LONGHI, Caravaggio, Editori Riuniti, Roma, 1968. 

A.CHASTEL, Storia dell’arte italiana, Newton Compton Editori, Laterza, Bari,1993. 

G.P.BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Ristampa dell’edizione romana del 1672, A. Forni Editore, S.Bolognese,1977. 

M.MARINI, Caravaggio, Newton Compton Editori S.r.l., Roma, 1989.

 

EDWIGE SALVAMI di G. Lucio Fragnoli, un romanzo sulle mode e il modo di vivere del nostro tempo.


 


COPERTINA DEL ROMANZO

DATA DI PUBBLICAZIONE: 26 maggio 2022, pagine 344
ISBN: 9791221341836
 EDIZIONI EMMEGI
DISPNIBILE IN: EPUB – EBOK – FORMATO KINDLE

Edwige Salvami è il romanzo pubblicato la prima volta nel 2010, che l'autore ha rivisto e ripubblicato nel maggio di quest'anno. Sicuramente adatto ad un pubblico maturo, Edwige salvami è dedicato ai quarantenni e ai cinquantenni, e costituisce una lunga riflessione sulle mode e il modo di vivere del nostro tempo, con la crisi dei valori tradizionali. 

Vi si raccontano le personali vicende di Benvenuto Lunati, detto Ben, di professione insegnante, il quale è convinto di aver vissuto varie vite, dalla sua nascita ai giorni nostri, attraversando prima gli anni del boom economico, poi il travagliato periodo  della contestazione e del terrorismo, sopravvivendo pure agli anni del riflusso e del berlusconismo, per approdare infine nella piatta contemporaneità della disillusione e dell’edonismo di massa. 

Nel tempo del declino di ogni nobile ideale, la sua esistenza è segnata dall’incontro con Edwige, di cui si innamora follemente, ma che comunque lo molla, di punto in bianco. Da quel momento in poi Ben vive nel rimpianto, pensando che soltanto Edwige, svanita nel nulla come per l’effetto d’un sortilegio, avrebbe potuto dare un senso alla sua vita, sperando disperatamente di rincontrarla, magari per un inspiegabile contraccolpo del destino.

«Avevo amato Edwige in siffatto modo per cinque anni e più, al di sopra di ogni altra cosa e all’ombra di un sentimento eccelso di spiritualizzazione della materia terrena, scoprendo la bellezza della natura, arrivando persino a commuovermi davanti ad un fulgido paesaggio o a un tramonto sul mare, perché nel paesaggio e nel tramonto sul mare vedevo lei, Edwige. Ero persino riuscito a svenire davanti al quadro di un anonimo pittore romantico inglese, La tempesta, dove un maestoso veliero combattuto dai marosi affonda miseramente. Avevo temuto che su quella nave potesse esserci lei, Edwige.»

Nel frattempo accadono molte cose impreviste, mentre, uno alla volta, entrano in scena altri personaggi, che sembrerebbero secondari, ma che non lo sono affatto, considerato che sono perfettamente coinvolti nella storia, come le affascinanti Alda Pozzi e Vanessa la Rossa, i volubili Gino Spirito e Walter Garbo, lo sfortunato Renato Caputo e tanti altri. Sono tutti ultraquarantenni e hanno parecchio in comune, vivono al passo coi tempi, cercando di prolungare al massimo la giovinezza... Ma, ovviamente, non possiamo svelarvi come andrà a finire.     

Nel romanzo, ambientato tra Roma e Latina, tra Sperlonga e Praga, questa volta l’autore ha rinunciato ad ammazzamenti e a situazioni truculente, preferendo le movenze della commedia e gli sfondi della quotidianità, anche riproponendo qualche istantanea della nostra storia, rivista con gli occhi del protagonista:       

«Ma ciascuno di noi giovani di allora aveva nella testa un’idea differente del socialismo, ognuno se lo inventava a modo suo e faceva la sua personalissima rivoluzione. Il socialismo era insomma una costruzione mentale con adattamenti di comodo. Non era certo il socialismo scientifico di Marx che avevamo noi nella capoccia e che aveva trovato la piena attuazione nel cosiddetto socialismo reale dei paesi dell’Est. E c’era addirittura chi, disilluso e più realista del re, dubitava fortemente di ogni buon esito futuro delle nostre iniziative politiche. Difatti la sera dopo, un compagno di cui non si conobbe mai il nome, probabilmente in preda a un momento di sconforto, tornò di notte sul muro e rimaneggiò la scritta: MAI NASCERÀ UNA SOCETÀ SENZA INGIUSTIZIE E SENZA FALSI MITI. NÉ COL SOLE NÉ CON LA PIOGGIA. Don Prospero, che ne aveva le tasche piene delle nostre colate di vernice sul suo muro, una mattina passò il confine armato di pittura e di pennello e aggiunse: GESÙ CRISTO ERA MOLTO PIÙ COMUNISTA DI VOI.»   

Non manca in ultimo una considerazione sul mondo della scuola, espressa per bocca del protagonista.

«Mi accadeva spesso di trovarmi a parlare di faccende scolastiche con persone che ne sapevano davvero poco in proposito. Costoro mi davano la chiara impressione di vedere il mondo della scuola come un calmo mare di adolescenziale beatitudine e purezza: una tersa e rassicurante distesa turchese. Non potevano certo immaginare che, sotto quelle tranquille acque, si consuma ogni giorno la crudele lotta della sopravvivenza, dove pesce mangia pesce. Nella mia prolungata esperienza di insegnante ero riuscito a individuare e catalogare tutte le varietà di animali che quotidianamente si industriano e si affannano per uscirne indenni da una tale virulenta giostra, dove ognuno si cuce addosso la propria acconcia livrea, mettendo in atto le più infide strategie di sopravvivenza.»

 J. M.

Postfazione dell’autore

Dopo aver rivisto La festa dei cani, Miracolo al bar, Nero napoletano, Quell’impicciatissima vicenda di donne diavoli e altre stranezze, Ottocento e La Canzone di Lola – realizzando per ognuno di essi o degli ampliamenti, o solo delle correzioni, o dei minimi aggiustamenti – è stato il turno di Edwige salvami, pubblicato nel 2010. Che ho riletto attentamente, apportando soltanto alcune piccole variazioni. Dato che, nella buona sostanza, il testo mi è sembrato convincente e scritto coerentemente rispetto alla storia narrata.

Ho cambiato, tanto per fare un esempio, il nome della rossa e fascinosa Edwige con Edwige, che mi pareva un poco più stravagante e più adatto al personaggio. Per il resto, ad eccezione del Cap. XIV, in cui ho inserito una spassosa gag, tutto è rimasto pressoché inalterato.

In Edwige salvami mi è piaciuto raccontare di un personaggio che ha attraversato il periodo travagliato della contestazione e del terrorismo, sopravvivendo poi agli anni del riflusso e del berlusconismo, per approdare infine nella piatta contemporaneità della disillusione e dell’edonismo di massa.

Il protagonista del lungo racconto, Benvenuto Lunati, nasce in verità come personaggio plasmato con l’immaginazione, ma anche attraverso i racconti e le esperienze di alcuni miei conoscenti e amici coetanei. A Ben ho fornito un carattere forte e debole nello stesso tempo, e un modo di pensare precipitoso e mutevole, politicamente scorretto. Persino scaramantico, quando egli, convintamente, pensa che vi sia un arcano filo conduttore nel suo destino, costituito dai messaggi nascosti nei libri o nei casi che riguardano il gesuita e scrittore Tom De Merola.

Il conflittuale rapporto con le donne, l’acre maschilismo di Ben, nasce proprio dalle sue stesse esitazioni. Che, contraddittoriamente alla sua superficiale e malfidata disposizione verso l’altro sesso, lo portano a vedere in Edwige Malaspina, la personalità risolutrice della sua esistenza.    

Ma pure agli altri personaggi della narrazione, Renato, Vanessa, Alda, Deborah, Gino, Walter, Tom De Merola, e pure alle comparse, ho attribuito le nevrosi e le fragilità proprie d’ogni essere umano, in aperto contrasto coi loro colpi di testa, con la loro voglia di apparire diversi e migliori.

La storia in cui essi si muovono, protagonisti e figuranti, è di pura fantasia, costruita come ideale palcoscenico per le loro occorrenze e loro vicende d’amore e d’amicizia. È parte importante di tutta la storia, oltre al vertiginoso mondo della contestazione e della fumosa e funesta guerra fredda all’italiana, il sommerso universo delle bramosie e dell’insoddisfazione, dell’occulto e dilagante mercato del sesso.

Ma queste sono cose che già sapete ormai, se avete letto il romanzo. Se, al contrario, vi apprestate a leggerlo, questi pochi righi vi incuriosiranno, penso. Spero comunque che vi divertiate. O che vi siete diverti. A presto.   

16 aprile 2022

Giuseppe Lucio Fragnoli

 

 



L'ORGOGLIO DEL PAGLIACCIO, il nuovo romanzo di G. Lucio Fragnoli

La vendetta.  Era l’unica possibilità che mi avevano lasciato gli “assassini” della mia anima e i “ladri” della mia pubblica onorabilità. An...