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mercoledì 28 dicembre 2022

L'UGUAGLIANZA DAVANTI ALLA MORTE (Ėgalite devant la mort) di William-Alphonse Bouguereau

 

William-Alphonse Bouguereau (La Rochelle, 1825 – La Rochelle, 1905), L’uguaglianza davanti alla morte (1848, olio su tela, 141 x 269 cm) Musée d’Orsay, Parigi.

LETTURA DELL’OPERA 

L’uguaglianza davanti alla morte fu dipinto da Bouguereau a 23 anni, mentre ancora studiava allÉcole des beaux-arts, per essere presentato ed esposto al Salon del 1848. Su uno dei disegni preparatori l’autore annotò: 

Uguaglianza. Nel momento in cui l’angelo della morte stenderà sopra di voi il suo sudario, la vostra vita non sarà servita a nulla se non siete stati capaci di fare il bene sulla terra”. 

Si capisce, dalle sue parole e osservando l’opera, cosa volesse dire al pubblico della maggiore rassegna artistica europea dell’epoca. Voleva sicuramente affermare che la vita va vissuta virtuosamente, dalla parte dei magnanimi e dei giusti, contro gli ingordi e i malvagi, per presentarsi al giudizio degli uomini e del Signore con l’anima incorrotta dalle colpe e dal disonore. 

Cosicché l’artista immagina il corpo senza vita di un uomo, disteso  sulla pietra tombale del suo sepolcro, nudo, senza nessun ornamento e nessun avere, giacché nessuna cosa può seguirlo nel dominio oscuro della morte. Sprofondato già nel grande sonno egli è divenuto inesorabilmente uguale a ogni suo simile. L’angelo della morte è sceso su di lui per coprirlo con un candido lenzuolo funebre e per condurlo nel remoto e misterioso regno dei morti. 

L’uguaglianza davanti alla morte è un soggetto perfettamente neoclassico, in una visione estetizzante della morte, che esclude lorrido e il brutto, il macabro e il putrefatto, i riluttanti scheletri medievali e barocchi, simboli stessi della morte e della fugacità della vita. Ma alla composta visione neoclassica Bouguereau abbina un tonalismo gelido e metafisico, in una inquietante dimensione di surrealtà. 

Dal cratere greco a figure rosse di Eufronio con la Morte di Sarpedonte. I personaggi alati sono le personificazioni del Sonno e della Morte, ossia Ipnos, dio del sonno, figlio della Notte e fratello di Thanatos, dio della morte. 

Guerin, Ritorno di Marco Sesto, particolare della moglie morta.
Canova, Angelo della Morte, particolare della Tomba di Maria Cristina d'Austria.
David, Morte del giovane Barra, particolare.
David, Morte di Marat, particolare.

William-Alphonse Bouguereau nel suo studio

Brevissima biografia di William-Alphonse Bouguereau

William-Alphonse Bouguereau, nato a La Rochelle il 30 novembre del 1825, studiò prima a Bordeaux, dove frequentò una scuola di disegno e pittura, completando poi la propria formazione a l’École des Beaux-Arts a Parigi, dove si trasferì all’età di 20 anni, diventando anche allievo di François-Ėdouard Picot, insieme a Cabanel. Nel 1850 vinse il Prix de Rome, soggiornando quindi tre anni in Italia. Tornato a Parigi si sposò e aprì uno studio proprio, ottenendo subito grande fama, non solo in Francia, per via dei successi ai vari Salons parigini, ma anche in Inghilterra e persino negli Stati Uniti. Nel 1885, tra i vari riconoscimenti, gli fu assegnata la Legion d’Onore. Fu sicuramente tra i maggiori esponenti della pittura accademica, caratterizzandosi però per un puro e esemplare formalismo unito a una restituzione del reale nitida e perfezionistica, trasposta in una visione complessivamente ideale. Morì a la Rochelle il 19 agosto 1905.

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI

 

 

 


LA GIOVINEZZA DI BACCO (La jeunesse de Bacchus) di William-Alphonse BOUGUEREAU

 

William-Alphonse Bouguereau (La Rochelle, 1825 – La Rochelle, 1905), La giovinezza di Bacco (1884, olio su tela, 331 x 610 cm)collezione privata.

LETTURA DELL’OPERA

La grande tela con La giovinezza di Bacco fu dipinta da Bouguereau in tre mesi, alla fine dell’anno 1883, molto probabilmente, ma firmata e datata 1884 ed esposta al Salon dello stesso anno. L’artista immagina la scena mitologica di Bacco, dio del vino e dei misteri, della carnalità e dell’ebbrezza, ancora bambino e in un baldanzoso e lento procedere, scortato da satiri e menadi, tutti nudi o discinti. Il dio dell’ebrezza, figlio di Zeus e della mortale Semele, è al centro del corteo con le braccia levate in aria e un tamburello in una mano, portato in spalla da un fauno. Lo precedono satiri musicanti e baccanti danzanti. In testa alla sfilata due centauri suonano chi le nacchere e chi il flauto, con appresso un satiro suonatore di piatti e due menadi ballanti, una col tirso in mano e l’altra con le nacchere. Ci sono pure due amorini capricciosi, uno dei quali suona il triangolo. Dietro il dio bambino una baccante tiene un grappolo d’uva in una mano, mentre un’altra intreccia le mani con un satiro in unelegante movenza di danza. Un’altra menade, caduta per la l’ebbrezza o per la troppa euforia, viene sollevata dall’altra danzatrice completamente nuda e volteggiante. Chiude lallegra e profana processione il brutto quanto saggio Sileno, gran precettore di Bacco, in groppa a un asino. È ubriaco, ovviamente, così due fauni lo aiutano a tenersi ritto sul dorso del somaro – come nell’affresco del Trionfo di Bacco e Arianna di Annibale Carracci nella Galleria Farnese –. Nel contempo un satiro dall’aspetto alquanto femmineo, messo di spalle, coglie da una pergola selvatica grappoli d’uva per riporli nel tamburello d’una baccante sorridente. Lo spassoso corteo potrebbe alludere al viaggio di Bacco che porta il vino dall’oriente all’occidente. Ma poco importa. Ciò che colpisce è la precisione plastico-disegnativa e l’indovinata postura di ogni personaggio, la resa realistica – assai fotografica – e la perfetta disposizione d’insieme degli stessi, ma pure la loro collocazione spaziale rispetto alla quinta alberata e allo sfondo luminoso e profondo. Tutto è calcolato e ben equilibrato, compreso il cromatismo quasi freddo, attenuato e ben accordato delle figure in contrasto con le frondose chiome scure, messe contro il chiarore opalino dell’orizzonte collinare. Alcune posture appaiono parecchio naturali e aggraziate altre un po artificiose, ma sempre armoniche. Il quadro è sicuramente classico, o meglio tardo-neoclassico, più che accademico, se si considera che il gusto e l’interesse per tali soggetti permane per tutto l’Ottocento – da parte di un certo ma ragguardevole pubblico –.

William-Alphonse Bouguereau 

 

William-Alphonse Bouguereau , La giovinezza di Bacco,  NationalmuseumStoccolma (Svezia).


Brevissima biografia di William-Alphonse Bouguereau

William-Alphonse Bouguereau, nato a La Rochelle il 30 novembre del 1825, studiò prima a Bordeaux, dove frequentò una scuola di disegno e pittura, completando poi la propria formazione a l’École des Beaux-Arts a Parigi, dove si trasferì all’età di 20 anni, diventando anche allievo di François-Ėdouard Picot, insieme a Cabanel. Nel 1850 vinse il Prix de Rome, soggiornando quindi tre anni in Italia. Tornato a Parigi si sposò e aprì uno studio proprio, ottenendo subito grande fama, non solo in Francia, per via dei successi ai vari Salons parigini, ma anche in Inghilterra e persino negli Stati Uniti. Nel 1885, tra i vari riconoscimenti, gli fu assegnata la Legion d’Onore. Fu sicuramente tra i maggiori esponenti della pittura accademica, caratterizzandosi però per un puro e esemplare formalismo unito a una restituzione del reale nitida e perfezionistica, trasposta in una visione complessivamente classica e ideale. Morì a la Rochelle il 19 agosto 1905.

Satiro, copia romana da Prassitele, Musei Capitolini, Roma. 
Menade danzante, bassorilievo, Museo del Prado, Madrid.

© G. LUCIO FRAGNOLI


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sabato 24 dicembre 2022

LA BATTAGLIA DELLE PIRAMIDI (Bataille des Pyramides) di ANTOINE-JEAN GROS

 

Antoine-Jean Gros (Parigi, 1771 – Meudon, 1835), La battaglia delle Piramidi (1810, olio su tela, 389 x 311 cm) Reggia di Versailles (Francia).

LA BATTAGLIA DELLE PIRAMIDI 

La cosiddetta Battaglia delle Piramidi fu combattuta, dopo la conquista di Alessandria da parte dei francesi, il 21luglio del 1798, nella piana di Giza, a pochi chilometri dalle piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, tra l’armata guidata da Napoleone Bonaparte e le truppe mamelucche ottomane comandate da Murad Bey e Ibrahim Bey. Nello scontro Bonaparte adottò la strategia militare della fanteria schierata in quadrati, con al centro cavalleria e artiglieria, con cui riuscì a respingere gli attacchi dei cavalieri mamelucchi e ad avere infine la meglio su un esercito numericamente molto superiore. La vittoria fu sicuramente determinante per la successiva conquista del Basso Egitto. Ma l’ambizione di Napoleone di conquistare il vicino oriente fu quasi del tutto vanificata dalla vittoria della flotta inglese del contrammiraglio Nelson contro quella francese comandata dal viceammiraglio D’Aigalliers nella Battaglia del Nilo o della Baia di Abukir del 1° e 2 agosto. 


LETTURA DELL’OPERA 

 Il momento rappresentato è quello in cui la battaglia infuria violenta nella sterminata piana desertica antistante le gigantesche piramidi, che fanno da sfondo al dipinto. In lontananza, nel furore dello scontro, nella polvere sollevata dai cavalli in corsa, nei fumi delle cannonate, si distinguono gli opposti schieramenti, sotto un cielo offuscato dai nuvoloni grigiastri delle esplosioni impastati con la sabbia. I francesi disposti secondo quadrati fronteggiano i più numerosi mamelucchi, schierati in minacciosi squadroni diversamente organizzati. In primo piano, su un’altura appena conquistata dalle truppe francesi, con al seguito il suo stato maggiore di alti ufficiali, sopraggiunge il generale Napoleone a cavallo che, dall’alto del rilievo sabbioso, controlla l’evoluzione del combattimento sotto gli sguardi decisi dei suoi coraggiosi generali e degli altri graduati che lo attorniano, pronti a ricevere disposizioni e a entrare in battaglia. Bonaparte tiene sicuro le briglie del suo destriero inquieto con la stessa mano con cui indica la mischia furente, mentre con l’altra levata in alto si appresta ad impartire un ordine ai suoi valorosi ufficiali a cavallo con le spade già levate in alto, smaniosi di lanciarsi alla carica con i loro ardimentosi cavalleggeri. Negli atteggiamenti di controllata determinazione e di fierezza di ogn’uno dei comandanti si intuisce già l’esito vittorioso della battaglia. Ma la fermezza e la nobiltà dei condottieri francesi, contrasta col gruppo dei nemici appena sconfitti. Uno di loro, un giovane nero, giace riverso a terra senza vita. Nell’indifferenza dei prodi francesi, altri due guerrieri vinti e disarmati, umiliati e buttati in terra, chiedono remissivamente clemenza, come l’anziano combattente ottomano, fermo e in piedi dietro di loro, che abbraccia in segno di protezione i suoi giovani figli impauriti, per i quali invoca salvezza. Nella loro disperazione si capisce e si anticipa la completa disfatta mamelucca.

Nella Battaglia delle Piramidi sono presenti precisi elementi stilistici neoclassici, come la disposizione bilanciata dei personaggi, la rappresentazione dell’eroismo e del coraggio dei soldati francesi, che si contrappone ai sentimenti meno elevati dei vinti, ma parimenti importanti. A tali elementi si aggiungono misuratamente una sensibilità coloristica e una preferenza per il movimento che rimandano all’esperienza formativa italiana – a Rubens soprattutto –, che sono più evidenti in dipinti come La battaglia d’Abukir (1806), in una elaborazione dell’immagine sostanzialmente romantica.      

Barone Antoine-Jean Gros

Brevissima biografia di Antoine-Jean Gros 

Nato a Parigi nel 1771, Antoine-Jean Gros fu tra i migliori allievi di Jacques-Louis David. Dopo aver partecipato senza successo al Prix de Rome, anche per allontanarsi dai virulenti sviluppi rivoluzionari, nel 1793 partì per l’Italia, dove restò per otto anni, soggiornando per lungo tempo a Genova, ma anche a Milano, rivestendo frattanto l’incarico di commissario della requisizione delle opere d’arte. A questo periodo appartiene il famoso dipinto Ritratto di Bonaparte al ponte d'Arcole (1796). Ritornato a Parigi nel 1801, lavorò ad un impegnativo ciclo di grandi opere storiche, tra cui La battaglia d’Abukir (1806), anticipatrice della visione romantica. Fino alla caduta di Napoleone realizzò ritratti, soggetti mitologici e grandi tele storiche, tra cui La battaglia delle Piramidi (1810), che gli garantirono fama e prestigio sociale. Sotto il regno di Carlo X continuò a lavorare ancora su soggetti storici e mitologici, ripristinando nel suo stile una certa compostezza classica. Ma la sua fama andava purtroppo scemando. Deluso per l’insuccesso ottenuto al Salon del 1835, decise di togliersi la vita, annegandosi nella Senna.      

© G. LUCIO FRAGNOLI


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venerdì 23 dicembre 2022

L'ANGELO CADUTO (L’Ange déchu) di ALEXANDRE CABANEL


Alexandre Cabanel (Montpellier, 1823 – Parigi, 1889), L’angelo caduto (1847, olio su tela, 121 x 189,7 cm) Museo Fabre, Montpellier (Francia).

LETTURA DELL’OPERA

Il ribelle Lucifero, angelo ambizioso e superbo, desideroso di diventare come Dio, per volere dello stesso Onnipotente è precipitato giù dal Paradiso, trasformandosi nel più potente dei demoni, simbolo stesso del male. Ora giace a terra sconfitto, nella convulsa agitazione di una moltitudine di angeli sospesi nel cielo e scossi da quanto è appena accaduto. Il bellissimo essere celeste, con le ali cangianti da toni azzurri in toni bruni e sciupate dalla caduta, che non sembrano più in grado di tenerlo in volo, ha assunto un aspetto umano. Ma il corpo è ancora energico e armonioso: ha conservato molta dell’originaria sublime bellezza. Adagiato su un pianoro roccioso, stringe le mani con forza, contraendo i muscoli in un minaccioso moto di ripresa delle forze, indomito e consapevole del nefasto compito che lo attende. Nello sguardo, dettaglio risolutore del dipinto che più colpisce il riguardante, gli si legge il dolore per l’umiliazione subita, ma soprattutto l’ira feroce e uno spaventevole livore, misti a un desiderio di efferata vendetta. Ne L’angelo caduto lo stile retorico pompier si disfa proprio nella vibrante tensione fisica e interiore del personaggio, in una visione complessivamente romantica. Tale intenso contrasto psicologico e viva fisicità fanno dell’opera certamente un capolavoro della pittura francese dell’Ottocento.



«Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono (...) Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso». (Isaia 14,12-15).


Autoritratto di Alexandre Cabanel

Brevissima biografia di Alexandre Cabanel

Alexander Cabanel, nato a Montpellier il 28 settembre del 1823, frequentò a Parigi l’École des Beaux-Arts. A ventidue anni vinse il Prix de Rome, che gli permise di completare la sua formazione, soggiornando a Roma per cinque anni a spese dello stato francese. Espose varie volte al Salon con successo ed ebbe molti prestigiosi riconoscimenti. Fu pittore famoso e assai apprezzato in vita, ma purtroppo completamente snobbato dalla critica moderna, pure se taluni studiosi ne hanno capito l’importanza, specialmente riguardo agli sviluppi della pittura cosiddetta art pompier, ovverosia un’arte ufficiale e accademica tanto cara al potere, stilisticamente impeccabile ma esageratamente retorica e pretenziosa. Morì a Parigi il 23 gennaio del 1889.


Alexandre Cabanel

Cleopatra che prova i veleni sui prigionieri condannati Cléopâtre saggiant des poisons sur des condamnés à mort - 

(1887, olio su tela, 165 x 290 cm) Museo di belle Arti, Anversa (Belgio).


© G. LUCIO FRAGNOLI

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giovedì 17 novembre 2022

IL RITORNO DI MARCO SESTO (Le retour de Marcus Sextus) di Pierre-Narcisse Guérin

 

Pierre-Narcisse Guérin (Parigi, 1774 – Roma, 1883), Il ritorno di Marco Sesto (Le retour de Marcus Sextus), firmato e datato Guérin F an 7, 1799 - olio su tela - 217x243 cm, Musée du Louvre, Parigi. 

ANALISI DELL’OPERA

Esposto con grande successo al salon del 1799, Il ritorno di Marco Sesto era così presentato nel catalogo:Marco Sesto, sfuggito alle proscrizioni di Silla, al suo ritorno trova la figlia in lacrime al capezzale della moglie morta”. In realtà il caso rappresentato, quello di un patrizio romano esiliato dal dittatore Silla che ritorna alla sua dimora e trova la moglie morta e la figlia distrutta dal dolore, è del tutto inventato. Si tratterebbe, secondo alcuni studiosi, soltanto di un acuto accorgimento dell’autore per rappresentare nella storia antica un fatto a lui contemporaneo, ossia la condizione degli émigrés, i cittadini emigrati dal 1789 in poi nei paesi vicini, principalmente per sfuggire alle violenze e alle tensioni causate dalla rivoluzione, che proprio allora facevano ritorno in patria.

A interpretare in tal modo il dipinto di Guérin fu innanzitutto il pubblico del tempo, che accorse in massa per ammirare il quadro, e che vide nel personaggio dell’abbattuto Marco Sesto l’emigrato francese appena ritornato, spogliato dei propri beni e deprivato dell’affetto dei familiari morti ammazzati, così come vide il sanguinario Robespierre dietro la spietata figura del dispotico Silla. Con una tale interpretazione la questione fu appassionatamente sostenuta da molti intellettuali e su alcuni giornali da vari articolisti. Questo a dimostrazione del generale favore riscosso dal Ritorno di Marco Sesto che Guérin, ammiratore e leale antagonista di David ripropone al Concorso Decennale del 1812.

Le retour de Marcus Sextus è un dipinto autenticamente neoclassico, per lo stile aulico, per la visione ideale ed estetizzante, per il messaggio in esso contenuto. L’esule creato da Guérin, Marco Sesto, un patrizio, sicuramente, provato dalle sofferenze patite nel duro esilio infertogli dal tiranno ha appena fatto ritorno nella sua domus, impoverita, spogliata d’ogni ornamento. Ha trovato la moglie morta, con l’incarnato illividito e avvolta in un lenzuolo. Si è seduto compostamente sul letto dove è adagiata la morta e le ha preso una mano nelle sue, in un’ultima dimostrazione d’amore, mentre la figlia, affranta dal dolore, è stesa ai suoi piedi e gli stringe affettuosamente una gamba, posando il capo sul ginocchio, come per unirsi a lui nella sofferenza e nel contempo per confortarlo.

Nel piccolo ambiente poveramente arredato e riservato alle esequie, delimitato da una bassa parete di legno oltre cui si distingue appena un androne buio e disadorno, filtra dall’alto a sinistra un fascio di luce limpida e calda, che illumina magistralmente la scena, malinconica e commovente, le poche cose e i personaggi, disposti in un ordine preciso, quasi solenne, ponderato con l’ordine spaziale.

I gesti sono seri e significativi, come le espressioni dei volti dei sofferenti, soprattutto quella impressa sul volto del proscritto, sospeso in un angosciato sgomento, con lo sguardo fisso, rassegnato e disperato insieme.

Al tema storico antico, presumibilmente rapportato alla contemporaneità, corrisponde il tema della morte e una forte carica di sentimentalismo proprio del neoclassicismo. In questo caso i sentimenti sono quelli dell’amore e del dolore, della sofferenza e dell’affetto familiare, dell’ingiustizia e della sopraffazione. Ma il messaggio compressivo è come un monito, che invita fortemente alla riconciliazione, dopo i soprusi perpetrati iniquamente nel corso della rivoluzione.   


Pierre-Narcisse Guérin

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

(...) Nel 1799 uno dei migliori seguaci di David, P. N. Guérin, espose al Salon un quadro raffigurante Il ritorno di Marco Sesto: un romano che, esiliato da Silla, era ritornato per trovare la moglie morta e la figli annientata dal dolore. Gli émigrés che proprio allora erano rientrati in Francia videro naturalmente l’opera come un’allegoria della stessa condizione, anche se è assai dubbio che questa fosse stata l’intenzione di Guérin quando cominciò il quadro nel 1797. (...)  

Hugh Honour

Bibliografia essenziale:

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

 

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CARAVAGGIO E LE STORIE DI SAN MATTEO IN SAN LUIGI DEI FRANCESI


ANALISI DELLE OPERE

(...) Caravaggio ebbe l’incarico con la mediazione del cardinal Del Monte, per un compenso di 400 scudi, dei quali 50 versati a titolo di anticipo. Il 23 luglio 1599 venne stipulato il contratto, che prevedeva fossero dipinte due tele di grosso formato con due episodi della vita di San Matteo, da porsi sulle pareti laterali, mentre per l’altare si pensava sempre al San Matteo e l’Angelo di Jacob Cobaert, che era in realtà scultore di piccole statue in bronzo. Al contratto del 23 luglio, firmato dai due rettori, si aggiunse un secondo contratto del primo agosto dello stesso anno, firmato questo da tutta la confraternita. I due contratti, oltre alla somma stabilita come compenso per il pittore, fissarono anche il termine della consegna dei dipinti, che doveva avvenire entro l’anno. Ma l’elaboratezza dei soggetti provocò qualche mese di ritardo rispetto alla scadenza, e il saldo finale, con qualche difficoltà, da imputare alla scorrettezza degli amministratori, avvenne il 4 luglio del 1600. Il successo riscosso dai due quadri spinse i rettori ad assegnare al Caravaggio anche la pala d’altare con un San Matteo e l’Angelo, in sostituzione della brutta scultura, neppure ultimata, del Cobaert.

(...)

Vocazione di San Matteo (1599- 1600), olio su tela, cm. 322 x 340, San Luigi dei Francesi, Roma.

  

Vocazione di San Matteo

Il gran ciclo con le storie di San Matteo si apre con la Vocazione di San Matteo, dipinto per primo, tra il 1599 e il 1600. Per l’elaborazione dell’opera il pittore si attenne in larga parte a un promemoria lasciato dal cardinale Contarelli, il quale consigliava di comporre l’episodio col santo dentro un magazeno, o ver, salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et denari in atto d’haver riscosso qualche somma, chiamato all’apostolato dal Signore, che passa per strada con i suoi discepoli. Tutto ciò in aderenza ai vangeli di Luca, di Marco e dello stesso Matteo.La scena, perfettamente attualizzata, è ambientata nella semioscurità di uno stanzone disadorno, un casello daziario, indubbiamente, dove il publicano Matteo, seduto al suo banco, è intento a riscuotere denari, sotto lo sguardo interessato di un anziano contribuente. Accomodati intorno allo scrittoio − sul quale si vedono una borsa e un calamaio accanto ad un registro aperto − vi sono altri tre personaggi, i giovanissimi scagnozzi del gabelliere, indubbiamente, tutti in abiti moderni.

In questa comune sceneggiatura di vita seicentesca, compaiono inaspettati, e preceduti da un fascio di luce innaturale, il Cristo e San Pietro, discesi nel magazeno da un uscio posto in alto, sicuramente, dopo una breve rampa di scale, come stranamente provenienti da un’epoca lontana, da una differente realtà storica, come due stanchi e trasandati pellegrini. Dal tavolo due giovani bravi si volgono a guardare gli sconosciuti, nella totale indifferenza di un altro giovinastro che fissa avidamente il denaro che sta contando, quasi ne fosse soggiogato, insieme al vecchio tartassato, che si tiene gli occhiali sul naso. Il Cristo scruta in viso il pubblicano e lo indica con la mano destra, con un gesto che esprime distintamente la chiamata. Ma nondimeno Matteo, nel contempo, indica se stesso in segno di risposta. 

Per rafforzare la natura divina del Cristo il Caravaggio ricorre all’accorgimento di celarne quasi completamente la sagoma dietro quella di San Pietro, che pure indica il pubblicano. Le radiografie del dipinto, infatti, hanno mostrato che la figura dell’apostolo è stata aggiunta in un secondo momento. Tale accortezza è pensata per rimandare tutta l’attenzione del riguardante sui pochi tratti del volto e sulla mano del Redentore, sulla sua leggerissima aureola e sulla sua espressione imperativa.

La luce guizza sulla mano destra di Gesù e del discepolo Pietro, si sofferma sui loro volti di asceti, e rischiara la tavolata mondana, affaccendata nelle umane e transitorie evenienze. Ed è proprio la luce, concepita come una soprannaturale emanazione, che dà unità all’insieme, composto dai due gruppi di personaggi in forte contrasto. La discordanza tra le figure dei due spiritualisti, col loro abbigliamento umile e d’altri tempi, ma ancora alquanto solenni nella loro trascuratezza, e le figure laicali raccolte intorno al tavolo, coi loro costumi moderni e chiassosi, risulta difatti immediatamente evidente.

Appare quindi chiarissimo come l’antinomia divino -profano sia una chiave di lettura del dipinto: la vanità delle cose terrene che si arrende alla gloria della vita eterna: la salvazione che prevale sulla vacuità delle illusorie aspirazioni umane, rappresentate dal luccicore malvagio delle monete.

Ma non è tutto. Nella Vocazione il Caravaggio ci dà una sua spiegazione del miracolo, non inteso come guarigione prodigiosa, risurrezione dalla morte o liberazione dal demonio, ma, come ha già chiarito Roberto Longhi, di una vita che si cangia per un destino che sopravvieneCon l’attualizzazione della vicenda sacra, parallelamente, il pittore ci tiene anche a precisare che un tale miracolo può sempre accadere, giacché il Signore può presentarsi per soccorrerci in ogni istante della nostra esistenza, in ogni epoca. In questa mia aggiuntiva considerazione distinguo una chiara ed ulteriore accezione devozionale dell’opera.

Ritengo inoltre priva di qualsiasi logico presupposto l’esegesi che qualcuno ultimamente ha dato al dipinto, individuando, per un gioco di specchi, il futuro evangelista nella figura dell’avido giovanotto seduto a capotavola.In questa comune sceneggiatura di vita seicentesca, compaiono inaspettati, e preceduti da un fascio di luce innaturale, il Cristo e San Pietro, discesi nel magazeno da un uscio posto in alto, sicuramente, dopo una breve rampa di scale, come stranamente provenienti da un’epoca lontana, da una differente realtà storica, come due stanchi e trasandati pellegrini. Dal tavolo due giovani bravi si volgono a guardare gli sconosciuti, nella totale indifferenza di un altro giovinastro che fissa avidamente il denaro che sta contando, quasi ne fosse soggiogato, insieme al vecchio tartassato, che si tiene gli occhiali sul naso. Il Cristo scruta in viso il pubblicano e lo indica con la mano destra, con un gesto che esprime distintamente la chiamata. Ma nondimeno Matteo, nel contempo, indica se stesso in segno di risposta. 

Per rafforzare la natura divina del Cristo il Caravaggio ricorre all’accorgimento di celarne quasi completamente la sagoma dietro quella di San Pietro, che pure indica il pubblicano. Le radiografie del dipinto, infatti, hanno mostrato che la figura dell’apostolo è stata aggiunta in un secondo momento. Tale accortezza è pensata per rimandare tutta l’attenzione del riguardante sui pochi tratti del volto e sulla mano del Redentore, sulla sua leggerissima aureola e sulla sua espressione imperativa. La luce guizza sulla mano destra di Gesù e del discepolo Pietro, si sofferma sui loro volti di asceti, e rischiara la tavolata mondana, affaccendata nelle umane e transitorie evenienze. Ed è proprio la luce, concepita come una soprannaturale emanazione, che dà unità all’insieme, composto dai due gruppi di personaggi in forte contrasto.

La discordanza tra le figure dei due spiritualisti, col loro abbigliamento umile e d’altri tempi, ma ancora alquanto solenni nella loro trascuratezza, e le figure laicali raccolte intorno al tavolo, coi loro costumi moderni e chiassosi, risulta difatti immediatamente evidente. Appare quindi chiarissimo come l’antinomia divino -profano sia una chiave di lettura del dipinto: la vanità delle cose terrene che si arrende alla gloria della vita eterna: la salvazione che prevale sulla vacuità delle illusorie aspirazioni umane, rappresentate dal luccicore malvagio delle monete.

Ma non è tutto. Nella Vocazione il Caravaggio ci dà una sua spiegazione del miracolo, non inteso come guarigione prodigiosa, risurrezione dalla morte o liberazione dal demonio, ma, come ha già chiarito Roberto Longhi, di una vita che si cangia per un destino che sopravvieneCon l’attualizzazione della vicenda sacra, parallelamente, il pittore ci tiene anche a precisare che un tale miracolo può sempre accadere, giacché il Signore può presentarsi per soccorrerci in ogni istante della nostra esistenza, in ogni epoca. In questa mia aggiuntiva considerazione distinguo una chiara ed ulteriore accezione devozionale dell’opera.

Ritengo inoltre priva di qualsiasi logico presupposto l’esegesi che qualcuno ultimamente ha dato al dipinto, individuando, per un gioco di specchi, il futuro evangelista nella figura dell’avido giovanotto seduto a capotavola.

(...)

 

Martirio di San Matteo (1600), olio su tela, cm. 323 x 343, San Luigi dei Francesi, Roma.


 Martirio di San Matteo


Stando alla tradizione, San Matteo sarebbe morto in Etiopia, ove si era recato in predicazione e dove aveva convertito il re etiope Egippo, risuscitando miracolosamente la figlia Ifigenia.

Quando il re morì gli successe il fratello Itarco, il quale bramava di sposare Ifigenia, votatasi però alla castità. Itarco impose a San Matteo di convincere Ifigenia ad accettare la sua proposta di matrimonio. Ma il santo, durante la messa e alla presenza del sovrano, dichiarò solennemente che Ifigenia non poteva sciogliere il voto che la legava al Signore per unirsi al più mortale dei re. Tale affermazione suscitò la rabbia di Itarco, che spietatamente lo fece uccidere sull’altare da un proprio sicario. 

Secondo Roberto Longhi, il Martirio di San Matteo fu immaginato dal Caravaggio come un fattaccio, ove il santo è strappato all’altare e, già colpito dal carnefice al costato, giace in terra sotto la presa dell’assassino, che sta per sferrargli il colpo mortale.

Ma, in realtà, per l’elaborazione dell’opera il Merisi cercò di attenersi il più fedelmente possibile ad un promemoria lasciato dal cardinale Contarelli, il quale consigliava di comporre il luogo dell’azione lungo et largo quasi in forma di tempio; per l’altare consigliava ch’esso fosse in isola e che fosse elevato su gradini. Il santo poi doveva essere assassinato da un manipolo di soldati, mentre celebrava la messa tra una moltitudine di huomini et donne giovani, vecchi, putti d’ogni sorte in oratione, che inorridivano dinnanzi al terribile evento.

In questa tela, a detta di molti storici dell’arte, vi è qualche reminiscenza manierista, che però andrebbe spiegata nel solo e non sufficiente fatto di una composizione movimentata. La scena è ben impostata prospetticamente, in un tumultuoso succedersi di figure, nell’interno imprecisato e cavernoso di una chiesa.

I personaggi, che emergono dall’oscurità con grande drammaticità ed efficacia plastica, scandiscono la profondità dello spazio attraverso la loro grandezza, che decresce, dai neofiti nudi in primo piano fino all’ultima figura (un autoritratto dell’artista), tutti colpiti da un potente baleno di luce che squarcia l’oscurità dell’ambiente, penetrando dall’alto, diagonalmente, in modo quasi innaturale.

Sulla sinistra del dipinto vi è un folto gruppo di personaggi in abiti moderni, che si ritraggono allibiti (anche in questo dipinto la penosa vicenda è stata attualizzata), mentre alla destra, al di sopra dei catecumeni nudi, seduti sui bordi della vasca battesimale, spicca la figura del chierichetto, che fugge spaventato.

Al centro della composizione, disteso per terra davanti all’altare, vi è il santo, già ferito al petto. Con la sua mano aperta verso l’assassino, egli cerca quasi di placarne l’ira, infondendo in lui la grazia divina del perdono, che il carnefice riconosce per un momento. Ed esita a sferrare il colpo mortale al sacerdote, che non si dimena per evitarlo, ma lo attende consapevole. Da nessuno visto, sostenuto da una densa nube, un angelo si protende spericolatamente in giù e tende verso la mano aperta del religioso morente la palma del martirio, causando il lieve tremore della fiammella d’una candela posta sull’altare.

Le radiografie dell’opera hanno rivelato una travagliata elaborazione del soggetto, con tutta una serie di trasformazioni radicali che hanno fatto pensare a due diverse stesure, compresa quella definitiva, con ripensamenti e aggiustamenti derivanti da una difficoltà di gestazione di un tema che risultava complicato già nelle disposizioni del Contarelli. E la complessità del dipinto è stata velatamente sottointesa anche dal Bellori, che tra l’altro evidenziava, già al suo tempo, la problematicità di osservazione, sia del Martirio, quanto della Vocazione.

Infatti è assolutamente vero che i laterali della Contarelli si vedono malissimo, anche oggi, dato che la già angusta cappella è sbarrata e la posizione dalla quale i quadri possono essere ammirati non permette un’osservazione corretta e completa.

I critici moderni hanno sempre esaltato la concitazione drammatica del Martirio, si sono soffermati sulla brutalità della scena, ipotizzando un qualche possibile nesso con il supplizio riservato a Giordano Bruno. Io sono propenso ad escludere possibili connessioni dell’opera con la sorte terribile toccata al monaco nolano. La questione che l’episodio sacro sia interpretato con evidente brutalità è da collegarsi alla sola determinazione del pittore di volerlo rappresentare nel suo momento di più alta tensione psicologica e di forte tragicità. Ciò, sappiamo, è una costante fissa del Caravaggio che, anche in mancanza di uno spazio preciso, costruisce una situazione la più reale possibile, trasportando il sacrificio del santo nel contesto violento del suo tempo, in cui gravissimi fatti di sangue erano all’ordine del giorno.

Dando credito alla tesi del Calvesi, si potrebbe inoltre congetturare una correlazione con le vicende della Francia ugonotta, ove il santo è il simbolo della Chiesa ferita, che comunque concede il suo perdono.

Nel Martirio di San Matteo, l’ultima sorpresa è costituita dall’autoritratto del pittore nella figura più lontana, che tradisce nel volto una pietosa espressione di sofferenza, con la mano tesa in avanti, quasi a voler arrestare il triste evento. In una tale figurazione l’artista lombardo riassume il suo particolare stato d’animo di commozione e dolore per l’atroce fine riservata al martire, a testimoniare il valore anche devozionale del dipinto.


(...)

 

San Matteo e l’Angelo (1602), olio su tela, cm. 296,5 x 195, San Luigi dei Francesi, Roma.



San Matteo e l’Angelo


Il secondo San Matteo e l’Angelo, che sostituì il primo rimosso dai sacerdoti, anche non seguendo la tradizionale iconografia, fu ben accolto dagli stessi religiosi, i quali restarono ammirati di fronte alla classica compostezza e all’accattivante impostazione dell’opera.

Usò il Caravaggio ogni sforzo, per riuscire in questo secondo quadro: e nell’accomodare al naturale la figura del Santo, che scrive il Vangelo, egli la dispose con un ginocchio piegato sopra lo sgabello, e con le mani al tavolino, intingendo la penna nel calamaio sopra il libro. In questo atto volge la faccia dal lato sinistro verso l’Angelo, il quale sospeso su l’ali in aria, gli parla, e gli accenna, toccando con la destra l’indice della mano sinistra. Sembra l’Angelo lontano da color finto, e sta sospeso su l’ali verso il Santo, ignude le braccia, e ‘l petto, con lo svolazzo d’un velo bianco, che lo cinge nell’oscurità del campo (Bellori).

Qui la figura del santo − più vecchio che nel Martirio −, appare più ascetica e slanciata, stando egli in piedi e con un ginocchio poggiato su uno sgabello. Il personaggio ha effettivamente la fisionomia del beato, e nella sua espressione traspare un genuino sentimento di fede poiché, volgendo lo sguardo in alto verso l’angelo avvolto negli svolazzanti panneggi barocchi, ne trascrive pazientemente il divino racconto. L’angelo è cosa certamente rara nei dipinti del Caravaggio, infatti se ne trovano pochi. Pure se il tempo del Merisi fu caratterizzato da un grande ammasso d’angeli nell’arte: se ne fecero in ogni varietà, da quelli confusi tra le nuvole, che sembrano pur essi fatti d’aria ai putti che sembrano amorini eccetera. Il Caravaggio dipinse angeli soltanto quando fu costretto a farlo, ma li immaginò come creature molto più vicine a figure terrene che celesti, però bellissimi, rispondendo in questo modo ai suoi contemporanei immersi in un universo d’angeli, che anziché divino, spesso appare visionario e delirante. Tuttavia, per Lionello venturi, nel secondo San Matteo e l’Angelo, il Merisi adottò un’impostazione dell’immagine sicuramente molto più convenzionale, infatti annota:

… Per ingraziarsi i preti di San Luigi de’ Francesi rifece il San Matteo, che è tuttora sull’altare, ricorse alle proporzioni slanciate, alla posa serpentinata, all’angelo che scende dal cielo; ed evitò ogni incongruenza sociale, ma non fu vero di fronte a se stesso, e l’opera d’arte fu soltanto mediocre.


(...)


Copertina del saggio critico CARAVAGGIO E LE STORIE DI SAN MATTEO IN SAN LUIGI DEI FRANCESI di Giuseppe Lucio Fragnoli, edito da EDIZIONI EMMEGI, Castelforte (LT), 2018.


I testi soprariportati sono soltanto alcune parti tratte dal saggio critico CARAVAGGIO E LE STORIE DI SAN MATTEO IN SAN LUIGI DEI FRANCESI di Giuseppe Lucio Fragnoli. 



© GIUSEPPE LUCIO FRAGNOLI



BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: 

Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma: Mascardi, 1672. 

Bernard Berenson, Caravaggio, a cura di Luisa Vertova, Milano: Leonardo, 1994. 

Maurizio Calvesi, La realtà del Caravaggio, Torino: Einaudi, 1990.

Maurizio calvesi, Caravaggio, Art Dossier (aprile 1996), Firenze, Giunti.

Roberto Longhi, Caravaggio, a cura di Giovanni Previtali, Roma: Editori Riuniti, 1982.

Maurizio Marini, Caravaggio: Michelangelo Merisi da Caravaggio “pictor praestantissimus”, Roma: Newton Compton, 1987.


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