(...) Caravaggio ebbe l’incarico con la mediazione del cardinal Del Monte, per un compenso di 400 scudi, dei quali 50 versati a titolo di anticipo. Il 23 luglio 1599 venne stipulato il contratto, che prevedeva fossero dipinte due tele di grosso formato con due episodi della vita di San Matteo, da porsi sulle pareti laterali, mentre per l’altare si pensava sempre al San Matteo e l’Angelo di Jacob Cobaert, che era in realtà scultore di piccole statue in bronzo. Al contratto del 23 luglio, firmato dai due rettori, si aggiunse un secondo contratto del primo agosto dello stesso anno, firmato questo da tutta la confraternita. I due contratti, oltre alla somma stabilita come compenso per il pittore, fissarono anche il termine della consegna dei dipinti, che doveva avvenire entro l’anno. Ma l’elaboratezza dei soggetti provocò qualche mese di ritardo rispetto alla scadenza, e il saldo finale, con qualche difficoltà, da imputare alla scorrettezza degli amministratori, avvenne il 4 luglio del 1600. Il successo riscosso dai due quadri spinse i rettori ad assegnare al Caravaggio anche la pala d’altare con un San Matteo e l’Angelo, in sostituzione della brutta scultura, neppure ultimata, del Cobaert.
(...)
Vocazione di San Matteo (1599- 1600), olio su tela, cm. 322 x 340, San Luigi dei Francesi, Roma.
Vocazione di San Matteo
Il gran ciclo con le storie di
San Matteo si apre con la Vocazione di San Matteo, dipinto
per primo, tra il 1599 e il 1600. Per l’elaborazione dell’opera il pittore si
attenne in larga parte a un promemoria lasciato dal cardinale Contarelli, il
quale consigliava di comporre l’episodio col santo dentro un magazeno, o ver, salone ad uso di gabella con diverse robbe
che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et
denari in atto d’haver riscosso qualche somma, chiamato all’apostolato dal
Signore, che passa per strada con i suoi discepoli. Tutto ciò in aderenza ai
vangeli di Luca, di Marco e dello stesso Matteo.La scena, perfettamente attualizzata, è
ambientata nella semioscurità di uno stanzone disadorno, un casello daziario,
indubbiamente, dove il publicano Matteo, seduto al suo banco, è intento a riscuotere
denari, sotto lo sguardo interessato di un anziano contribuente. Accomodati
intorno allo scrittoio − sul quale si vedono una borsa e un calamaio accanto ad
un registro aperto − vi sono altri tre personaggi, i giovanissimi scagnozzi del
gabelliere, indubbiamente, tutti in abiti moderni.
In questa comune sceneggiatura di vita seicentesca, compaiono inaspettati, e preceduti da un fascio di luce innaturale, il Cristo e San Pietro, discesi nel magazeno da un uscio posto in alto, sicuramente, dopo una breve rampa di scale, come stranamente provenienti da un’epoca lontana, da una differente realtà storica, come due stanchi e trasandati pellegrini. Dal tavolo due giovani bravi si volgono a guardare gli sconosciuti, nella totale indifferenza di un altro giovinastro che fissa avidamente il denaro che sta contando, quasi ne fosse soggiogato, insieme al vecchio tartassato, che si tiene gli occhiali sul naso. Il Cristo scruta in viso il pubblicano e lo indica con la mano destra, con un gesto che esprime distintamente la chiamata. Ma nondimeno Matteo, nel contempo, indica se stesso in segno di risposta.
Per rafforzare la natura divina del Cristo
il Caravaggio ricorre all’accorgimento di celarne quasi completamente la sagoma
dietro quella di San Pietro, che pure indica il pubblicano. Le radiografie del
dipinto, infatti, hanno mostrato che la figura dell’apostolo è stata
aggiunta in un secondo momento. Tale accortezza è pensata per rimandare tutta
l’attenzione del riguardante sui pochi tratti del volto e sulla mano
del Redentore, sulla sua leggerissima aureola e sulla sua espressione
imperativa.
La luce guizza sulla mano destra di Gesù e del discepolo Pietro, si sofferma sui loro volti di asceti, e rischiara la tavolata mondana, affaccendata nelle umane e transitorie evenienze. Ed è proprio la luce, concepita come una soprannaturale emanazione, che dà unità all’insieme, composto dai due gruppi di personaggi in forte contrasto. La discordanza tra le figure dei due spiritualisti, col loro abbigliamento umile e d’altri tempi, ma ancora alquanto solenni nella loro trascuratezza, e le figure laicali raccolte intorno al tavolo, coi loro costumi moderni e chiassosi, risulta difatti immediatamente evidente.
Appare quindi chiarissimo come l’antinomia
divino -profano sia una
chiave di lettura del dipinto: la vanità delle cose terrene che si arrende alla
gloria della vita eterna: la salvazione che prevale sulla vacuità delle
illusorie aspirazioni umane, rappresentate dal luccicore malvagio delle monete.
Ma non è tutto. Nella Vocazione il Caravaggio ci dà una sua spiegazione del miracolo, non inteso come guarigione prodigiosa, risurrezione dalla morte o liberazione dal demonio, ma, come ha già chiarito Roberto Longhi, di una vita che si cangia per un destino che sopravviene. Con l’attualizzazione della vicenda sacra, parallelamente, il pittore ci tiene anche a precisare che un tale miracolo può sempre accadere, giacché il Signore può presentarsi per soccorrerci in ogni istante della nostra esistenza, in ogni epoca. In questa mia aggiuntiva considerazione distinguo una chiara ed ulteriore accezione devozionale dell’opera.
Ritengo inoltre priva di qualsiasi logico presupposto l’esegesi che qualcuno ultimamente ha dato al dipinto, individuando, per un gioco di specchi, il futuro evangelista nella figura dell’avido giovanotto seduto a capotavola.In questa comune sceneggiatura di vita seicentesca, compaiono inaspettati, e preceduti da un fascio di luce innaturale, il Cristo e San Pietro, discesi nel magazeno da un uscio posto in alto, sicuramente, dopo una breve rampa di scale, come stranamente provenienti da un’epoca lontana, da una differente realtà storica, come due stanchi e trasandati pellegrini. Dal tavolo due giovani bravi si volgono a guardare gli sconosciuti, nella totale indifferenza di un altro giovinastro che fissa avidamente il denaro che sta contando, quasi ne fosse soggiogato, insieme al vecchio tartassato, che si tiene gli occhiali sul naso. Il Cristo scruta in viso il pubblicano e lo indica con la mano destra, con un gesto che esprime distintamente la chiamata. Ma nondimeno Matteo, nel contempo, indica se stesso in segno di risposta.
Per rafforzare la natura divina del Cristo il Caravaggio ricorre all’accorgimento di celarne quasi completamente la sagoma dietro quella di San Pietro, che pure indica il pubblicano. Le radiografie del dipinto, infatti, hanno mostrato che la figura dell’apostolo è stata aggiunta in un secondo momento. Tale accortezza è pensata per rimandare tutta l’attenzione del riguardante sui pochi tratti del volto e sulla mano del Redentore, sulla sua leggerissima aureola e sulla sua espressione imperativa. La luce guizza sulla mano destra di Gesù e del discepolo Pietro, si sofferma sui loro volti di asceti, e rischiara la tavolata mondana, affaccendata nelle umane e transitorie evenienze. Ed è proprio la luce, concepita come una soprannaturale emanazione, che dà unità all’insieme, composto dai due gruppi di personaggi in forte contrasto.
La discordanza tra le figure dei due spiritualisti, col loro abbigliamento umile e d’altri tempi, ma ancora alquanto solenni nella loro trascuratezza, e le figure laicali raccolte intorno al tavolo, coi loro costumi moderni e chiassosi, risulta difatti immediatamente evidente. Appare quindi chiarissimo come l’antinomia divino -profano sia una chiave di lettura del dipinto: la vanità delle cose terrene che si arrende alla gloria della vita eterna: la salvazione che prevale sulla vacuità delle illusorie aspirazioni umane, rappresentate dal luccicore malvagio delle monete.
Ma non è tutto. Nella Vocazione il Caravaggio ci dà una sua spiegazione del miracolo, non inteso come guarigione prodigiosa, risurrezione dalla morte o liberazione dal demonio, ma, come ha già chiarito Roberto Longhi, di una vita che si cangia per un destino che sopravviene. Con l’attualizzazione della vicenda sacra, parallelamente, il pittore ci tiene anche a precisare che un tale miracolo può sempre accadere, giacché il Signore può presentarsi per soccorrerci in ogni istante della nostra esistenza, in ogni epoca. In questa mia aggiuntiva considerazione distinguo una chiara ed ulteriore accezione devozionale dell’opera.
Ritengo
inoltre priva di qualsiasi logico presupposto l’esegesi che qualcuno
ultimamente ha dato al dipinto, individuando, per un gioco di specchi, il futuro evangelista nella figura
dell’avido giovanotto seduto a capotavola.
(...)
Martirio di San Matteo (1600), olio su tela, cm. 323 x 343, San Luigi dei Francesi, Roma.
Martirio di San Matteo
Stando
alla tradizione, San Matteo sarebbe morto in Etiopia, ove si era recato in
predicazione e dove aveva convertito il re etiope Egippo, risuscitando
miracolosamente la figlia Ifigenia.
Quando il re morì gli successe il fratello Itarco, il quale bramava di sposare Ifigenia, votatasi però alla castità. Itarco impose a San Matteo di convincere Ifigenia ad accettare la sua proposta di matrimonio. Ma il santo, durante la messa e alla presenza del sovrano, dichiarò solennemente che Ifigenia non poteva sciogliere il voto che la legava al Signore per unirsi al più mortale dei re. Tale affermazione suscitò la rabbia di Itarco, che spietatamente lo fece uccidere sull’altare da un proprio sicario.
Secondo Roberto Longhi, il
Martirio di San Matteo fu immaginato
dal Caravaggio come un fattaccio, ove
il santo è strappato all’altare e, già colpito dal carnefice al costato, giace
in terra sotto la presa dell’assassino, che sta per sferrargli il colpo
mortale.
Ma, in realtà, per
l’elaborazione dell’opera il Merisi cercò di attenersi il più fedelmente
possibile ad un promemoria lasciato dal cardinale Contarelli, il quale consigliava
di comporre il luogo dell’azione lungo
et largo quasi in forma di tempio; per l’altare consigliava ch’esso
fosse in isola e
che fosse elevato su gradini. Il santo poi doveva essere assassinato da un
manipolo di soldati, mentre celebrava la messa tra una moltitudine di huomini et donne giovani, vecchi,
putti d’ogni sorte in oratione, che inorridivano dinnanzi al
terribile evento.
In questa tela, a detta di
molti storici dell’arte, vi è qualche reminiscenza manierista, che però
andrebbe spiegata nel solo e non sufficiente fatto di una composizione
movimentata. La scena è ben impostata prospetticamente, in un tumultuoso
succedersi di figure, nell’interno imprecisato e cavernoso di una chiesa.
I personaggi, che emergono
dall’oscurità con grande drammaticità ed efficacia plastica, scandiscono la
profondità dello spazio attraverso la loro grandezza, che decresce, dai neofiti
nudi in primo piano fino all’ultima figura (un autoritratto dell’artista), tutti
colpiti da un potente baleno di luce che squarcia l’oscurità dell’ambiente, penetrando
dall’alto, diagonalmente, in modo quasi innaturale.
Sulla sinistra del dipinto
vi è un folto gruppo di personaggi in abiti moderni, che si ritraggono allibiti
(anche in questo dipinto la penosa vicenda è stata attualizzata), mentre alla
destra, al di sopra dei catecumeni nudi, seduti sui bordi della vasca
battesimale, spicca la figura del chierichetto, che fugge spaventato.
Al centro della
composizione, disteso per terra davanti all’altare, vi è il santo, già
ferito al petto. Con la sua mano aperta verso l’assassino, egli cerca quasi di
placarne l’ira, infondendo in lui la grazia divina del perdono, che il
carnefice riconosce per un momento. Ed esita a sferrare il colpo mortale al sacerdote,
che non si dimena per evitarlo, ma lo attende consapevole. Da nessuno
visto, sostenuto da una densa nube, un angelo si protende spericolatamente in
giù e tende verso la mano aperta del religioso morente la palma del martirio,
causando il lieve tremore della fiammella d’una candela posta sull’altare.
Le radiografie dell’opera
hanno rivelato una travagliata elaborazione del soggetto, con tutta una serie
di trasformazioni radicali che hanno fatto pensare a due diverse stesure,
compresa quella definitiva, con ripensamenti e aggiustamenti derivanti da una
difficoltà di gestazione di un tema che risultava complicato già nelle
disposizioni del Contarelli. E la complessità del dipinto è stata velatamente
sottointesa anche dal Bellori, che tra l’altro evidenziava, già al suo tempo,
la problematicità di osservazione, sia del Martirio,
quanto della Vocazione.
Infatti è assolutamente
vero che i laterali della Contarelli si vedono malissimo, anche oggi, dato che
la già angusta cappella è sbarrata e la posizione dalla quale i quadri possono
essere ammirati non permette un’osservazione corretta e completa.
I critici moderni hanno
sempre esaltato la concitazione drammatica del Martirio, si sono soffermati sulla brutalità della scena, ipotizzando
un qualche possibile nesso con il supplizio riservato a Giordano Bruno. Io sono
propenso ad escludere possibili connessioni dell’opera con la sorte terribile
toccata al monaco nolano. La questione che l’episodio sacro sia interpretato
con evidente brutalità è da collegarsi alla sola determinazione del
pittore di volerlo rappresentare nel suo momento di più alta tensione
psicologica e di forte tragicità. Ciò, sappiamo, è una costante fissa
del Caravaggio che, anche in mancanza di uno spazio preciso, costruisce una situazione
la più reale possibile, trasportando il sacrificio del santo nel contesto violento del
suo tempo, in cui gravissimi fatti di sangue erano all’ordine del giorno.
Dando credito alla tesi
del Calvesi, si potrebbe inoltre congetturare una correlazione con le vicende
della Francia ugonotta, ove il santo è il simbolo della Chiesa ferita, che
comunque concede il suo perdono.
Nel Martirio di San Matteo, l’ultima sorpresa è costituita dall’autoritratto del pittore nella figura più lontana, che tradisce nel volto una pietosa espressione di sofferenza, con la mano tesa in avanti, quasi a voler arrestare il triste evento. In una tale figurazione l’artista lombardo riassume il suo particolare stato d’animo di commozione e dolore per l’atroce fine riservata al martire, a testimoniare il valore anche devozionale del dipinto.
(...)
San Matteo e l’Angelo (1602), olio su tela, cm. 296,5 x 195, San Luigi dei Francesi, Roma.
Il secondo San Matteo e l’Angelo, che sostituì il
primo rimosso dai sacerdoti, anche non seguendo la tradizionale iconografia, fu
ben accolto dagli stessi religiosi, i quali restarono ammirati di fronte alla classica compostezza e all’accattivante impostazione
dell’opera.
Usò il Caravaggio ogni sforzo, per riuscire in questo secondo quadro:
e nell’accomodare al naturale la figura del Santo, che scrive il Vangelo, egli
la dispose con un ginocchio piegato sopra lo sgabello, e con le mani al tavolino,
intingendo la penna nel calamaio sopra il libro. In questo atto volge la faccia
dal lato sinistro verso l’Angelo, il quale sospeso su l’ali in aria, gli parla,
e gli accenna, toccando con la destra l’indice della mano sinistra. Sembra l’Angelo
lontano da color finto, e sta sospeso su l’ali verso il Santo, ignude le
braccia, e ‘l petto, con lo svolazzo d’un velo bianco, che lo cinge nell’oscurità
del campo
(Bellori).
Qui la figura del santo − più vecchio che nel Martirio −, appare più ascetica e slanciata, stando egli in piedi e con un ginocchio poggiato su uno sgabello. Il personaggio ha effettivamente la fisionomia del beato, e nella sua espressione traspare un genuino sentimento di fede poiché, volgendo lo sguardo in alto verso l’angelo avvolto negli svolazzanti panneggi barocchi, ne trascrive pazientemente il divino racconto. L’angelo è cosa certamente rara nei dipinti del Caravaggio, infatti se ne trovano pochi. Pure se il tempo del Merisi fu caratterizzato da un grande ammasso d’angeli nell’arte: se ne fecero in ogni varietà, da quelli confusi tra le nuvole, che sembrano pur essi fatti d’aria ai putti che sembrano amorini eccetera. Il Caravaggio dipinse angeli soltanto quando fu costretto a farlo, ma li immaginò come creature molto più vicine a figure terrene che celesti, però bellissimi, rispondendo in questo modo ai suoi contemporanei immersi in un universo d’angeli, che anziché divino, spesso appare visionario e delirante. Tuttavia, per Lionello venturi, nel secondo San Matteo e l’Angelo, il Merisi adottò un’impostazione dell’immagine sicuramente molto più convenzionale, infatti annota:
… Per ingraziarsi i preti di San Luigi de’ Francesi rifece il San
Matteo, che è tuttora sull’altare, ricorse alle proporzioni slanciate, alla
posa serpentinata, all’angelo che scende dal cielo; ed evitò ogni incongruenza
sociale, ma non fu vero di fronte a se stesso, e l’opera d’arte fu soltanto
mediocre.
(...)
© GIUSEPPE LUCIO FRAGNOLI
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma: Mascardi, 1672.
Bernard Berenson, Caravaggio, a cura di Luisa Vertova, Milano: Leonardo, 1994.
Maurizio Calvesi, La realtà del Caravaggio, Torino: Einaudi, 1990.
Maurizio calvesi, Caravaggio, Art Dossier (aprile 1996), Firenze, Giunti.
Roberto Longhi, Caravaggio, a cura di Giovanni Previtali, Roma: Editori Riuniti, 1982.
Maurizio Marini, Caravaggio: Michelangelo Merisi da Caravaggio “pictor praestantissimus”, Roma: Newton Compton, 1987.
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