Artemisia Gentileschi (1593 -1656),
Giuditta e Oloferne (1612-1613, olio
su tela, 158 x 125.5 cm) Napoli, Museo di Capodimonte.
Artemisia Gentileschi (1593 -1656),
Giuditta e Oloferne (1620, olio su
tela, 199 x 162.5 cm) Firenze, Galleria degli Uffizi.
COMMENTO
CRITICO DELL’OPERA
La Giuditta
che decapita Oloferne napoletana precede (1612 -13) la Giuditta
degli Uffizi, che in effetti è una replica pressoché identica, variata in pochi
e secondari elementi. Il quadro di Capodimonte è quindi quello a cui mi sembra più
corretto riferirmi, in quanto originale rispetto al successivo rifacimento.
Alcuni moderni studiosi, nel commentare dell’opera, evidenziano subito come
essa fu dipinta appena dopo la conclusione del noto processo per stupro – ai
danni di Artemisia – intentato dal padre dell’artista, Orazio Gentileschi,
contro il collega Agostino Tassi, e che quindi vi si distinguono dei riflessi
autobiografici. Io, molto modestamente, ritengo limitativa una tale lettura, che
svaluta certamente la straordinarietà del dipinto e le qualità pittoriche dell’autrice.
Importante è, invece, la conoscenza da parte della Gentileschi del Caravaggio e
dei cosiddetti caravaggeschi, abituati alla rappresentazione cruda e persino truculenta
di questo tipo di soggetti sacri. Difatti vi sono evidenti analogie tra la Giuditta
di cui stiamo trattando e quelle del Caravaggio – quella della Galleria d’Arte
Antica di Roma e quella conosciuta tramite copia di Louis Finson –.
Ma passiamo
alla descrizione e all’analisi stilistica del dipinto. Artemisia ha
interpretato l’episodio sacro, narrato nel Libro di Giuditta con molta
libertà, allestendo una scena di assoluta crudezza e di forte effetto
drammatico, inserendovi l’ancella che partecipa all’azione violenta. Ma che, nella
narrazione biblica, aspetta fuori della sontuosa tenda del generale assiro, pronta
a fuggire via con la sua padrona dopo il compimento del misfatto.
Le tre
figure, Oloferne e le donne, occupano quasi per intero la superficie dipinta, cui
manca ogni riferimento allo spazio reale, immerso nell’oscurità. L’unico
elemento riconducibile al racconto di riferimento è costituito dal letto, in
una logica perfettamente caravaggesca, ove lo spazio e le particolarità del luogo
vengono sostituiti dalla macchina scenica realizzata coi soli personaggi
e, in questo caso specifico, e per forza di cose, dagli spessi materassi del
letto.
L’avvenente
Giuditta ha appena preso la scimitarra del guerriero appesa al baldacchino del
letto, l’ha impugnata con forza e coraggio e si è avvicinata al suo nemico
dormiente, ebbro e appagato, seguita dalla sua ancella.
Ora, con l’aiuto della sua giovane fantesca, sta sgozzando il despota che minaccia il suo popolo, portando a compimento il suo audace e superiore proposito. È questa l’immagine fissata per l’eternità dall’artista, quella dell’eroina vestita con gli abiti del suo tempo, che crudelmente uccide l’uomo che ha sedotto, in preda ormai all’ubriachezza. Oloferne si dimena vanamente, tenta di sottrarsi disperatamente alla morte. Il suo volto si deforma in un’espressione di strazio e di impotenza, con gli occhi già persi nel vuoto, mentre dal suo collo fuoriescono fiotti di sangue che lordano il suo prezioso giaciglio. In uno spasmo estremo cerca di liberarsi dalla pressione dell’ancella, anch’essa fredda e risoluta. L’assassinio si sta compiendo nell’orrore e nello sprezzo delle donne, con una luce tagliente e sinistra che colpisce le carnefici e lo scannato, che squarcia l’oscurità e plasma le masse materiche e carnose, proveniente in modo quasi innaturale da sinistra, ma dal basso, come il lume di una lampada a olio posata in terra, una luce di tragedia, in cui si percepisce una soprannaturale terribilità.
IL LIBRO DI GIUDITTA.
La
storia di Giuditta è narrata in un libro della Bibbia a lei interamente
dedicato. Si tratta però di un libro teologico, non storico, in cui la
protagonista incarna l’intero popolo d’Israele salvato da Dio, seppure per mano
umana. Giuditta, animata da una grande fede nel Signore, restò vedova del
marito Menasse, morto a causa di una insolazione.
Nel
racconto biblico si dice: «Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona,
inoltre suo marito Menasse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave,
armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Ma nessuno poteva dire
una parola maligna al suo riguardo, perché temeva molto Dio.»
Ebbene,
la città di Betulia era assediata dall’esercito di Oloferne, generale di
Nabucodonosor, con gli abitanti stremati dalla fame e dalla sete, rassegnati a
capitolare. Giuditta si offrì allora di salvarli, recandosi nell’accampamento
nemico in compagnia di un’ancella, con lo scopo di sedurre e uccidere il comandante
degli assiri, spacciandosi per traditrice del suo popolo e pronta a mettersi al
servizio del nemico. Entrata nelle grazie del generale, che l’aveva accolta e
ospitata per tre giorni, dato che la bramava dal primo istante che l’aveva
vista, Giuditta il quarto giorno, quando si fece buio, riuscì a restare da sola
con Oloferne nella tenda del guerriero, con lui buttato sul divano, ubriaco
fradicio, sotto un baldacchino intessuto di porpora, d’oro e di gemme.
Nella
Bibbia è scritto: «Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del
capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostandosi al letto,
afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore Dio
d’Israele, in questo momento.” E con tutta la forza di cui era capace lo colpì
due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù
dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò
la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei
viveri e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera;
attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte
verso Betulia e giunsero alle porte della città.»
Bene,
dell’intera e lunga narrazione, che fa parte delle quattro salvazioni
d’Israele, l’artista sceglie il momento più crudele e drammatico, il momento in
cui l’assassinio si sta consumando, pur se per una nobile ragione e per
l’inoppugnabile volontà di Dio.
LA GIUDITTA
del CARAVAGGIO.
Michelangelo Merisi detto il
Caravaggio (1571-1610), Giuditta e
Oloferne (1599, olio su tela, 145 x 195 cm) Roma, Galleria d’Arte Antica.
L’eroina ebraica è in piedi, quasi al centro della scena, e sta scannando il generale ubriaco fradicio con la sua stessa scimitarra. Siamo al primo colpo fatale che recide il collo, da cui sgorga un abbondante fiotto di sangue. Oloferne si dimena convulsamente mentre sul suo volto gli si imprime una disperata maschera di terrore, con l’urlo disperato strozzato in gola e con gli occhi vitrei rivolti verso la carnefice. Giuditta impugna con forza l’arma del delitto con la mano destra, mentre afferra per i capelli la sua vittima con la sinistra. I suoi lineamenti sono tirati, i suoi occhi sono fissi sulla contorsione e sul grido soffocato di Oloferne, in uno strisciante compiacimento che esclude la pietà. Al suo fianco la vecchia serva assiste all’uccisione con gli occhi pieni d’odio, in un ghigno sdegnoso, reso persino malvagio dalla sua bruttezza. L’oscurità, che avvolge l’interno della tenda del generale, unita al fascio di luce irreale che proviene da sinistra, quasi orizzontalmente, crea un forte senso di volume di cose e personaggi, riverberando sul corpetto bianco dell’assassina, della cuffia della vecchia e sugli incarnati, realizzando un senso di orizzontalità bilanciato da tre larghe zone di colore. È una luce irreale, come sempre in Caravaggio, una sorta di lampo improvviso che rischiara sinistramente la scena, alludendo anche all’intervento divino che infonde forza e coraggio nell’animo della bella giustiziera. Giuditta ha una bellezza vera, per niente ideale, propria di molte fanciulle nel fiore degli anni. Piuttosto la vecchia appare di una bruttezza costruita, caricaturale, sgradevole.
IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE
DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.
©
G. LUCIO FRAGNOLI
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