Pagine

giovedì 17 novembre 2022

IL RITORNO DI MARCO SESTO (Le retour de Marcus Sextus) di Pierre-Narcisse Guérin

 

Pierre-Narcisse Guérin (Parigi, 1774 – Roma, 1883), Il ritorno di Marco Sesto (Le retour de Marcus Sextus), firmato e datato Guérin F an 7, 1799 - olio su tela - 217x243 cm, Musée du Louvre, Parigi. 

ANALISI DELL’OPERA

Esposto con grande successo al salon del 1799, Il ritorno di Marco Sesto era così presentato nel catalogo:Marco Sesto, sfuggito alle proscrizioni di Silla, al suo ritorno trova la figlia in lacrime al capezzale della moglie morta”. In realtà il caso rappresentato, quello di un patrizio romano esiliato dal dittatore Silla che ritorna alla sua dimora e trova la moglie morta e la figlia distrutta dal dolore, è del tutto inventato. Si tratterebbe, secondo alcuni studiosi, soltanto di un acuto accorgimento dell’autore per rappresentare nella storia antica un fatto a lui contemporaneo, ossia la condizione degli émigrés, i cittadini emigrati dal 1789 in poi nei paesi vicini, principalmente per sfuggire alle violenze e alle tensioni causate dalla rivoluzione, che proprio allora facevano ritorno in patria.

A interpretare in tal modo il dipinto di Guérin fu innanzitutto il pubblico del tempo, che accorse in massa per ammirare il quadro, e che vide nel personaggio dell’abbattuto Marco Sesto l’emigrato francese appena ritornato, spogliato dei propri beni e deprivato dell’affetto dei familiari morti ammazzati, così come vide il sanguinario Robespierre dietro la spietata figura del dispotico Silla. Con una tale interpretazione la questione fu appassionatamente sostenuta da molti intellettuali e su alcuni giornali da vari articolisti. Questo a dimostrazione del generale favore riscosso dal Ritorno di Marco Sesto che Guérin, ammiratore e leale antagonista di David ripropone al Concorso Decennale del 1812.

Le retour de Marcus Sextus è un dipinto autenticamente neoclassico, per lo stile aulico, per la visione ideale ed estetizzante, per il messaggio in esso contenuto. L’esule creato da Guérin, Marco Sesto, un patrizio, sicuramente, provato dalle sofferenze patite nel duro esilio infertogli dal tiranno ha appena fatto ritorno nella sua domus, impoverita, spogliata d’ogni ornamento. Ha trovato la moglie morta, con l’incarnato illividito e avvolta in un lenzuolo. Si è seduto compostamente sul letto dove è adagiata la morta e le ha preso una mano nelle sue, in un’ultima dimostrazione d’amore, mentre la figlia, affranta dal dolore, è stesa ai suoi piedi e gli stringe affettuosamente una gamba, posando il capo sul ginocchio, come per unirsi a lui nella sofferenza e nel contempo per confortarlo.

Nel piccolo ambiente poveramente arredato e riservato alle esequie, delimitato da una bassa parete di legno oltre cui si distingue appena un androne buio e disadorno, filtra dall’alto a sinistra un fascio di luce limpida e calda, che illumina magistralmente la scena, malinconica e commovente, le poche cose e i personaggi, disposti in un ordine preciso, quasi solenne, ponderato con l’ordine spaziale.

I gesti sono seri e significativi, come le espressioni dei volti dei sofferenti, soprattutto quella impressa sul volto del proscritto, sospeso in un angosciato sgomento, con lo sguardo fisso, rassegnato e disperato insieme.

Al tema storico antico, presumibilmente rapportato alla contemporaneità, corrisponde il tema della morte e una forte carica di sentimentalismo proprio del neoclassicismo. In questo caso i sentimenti sono quelli dell’amore e del dolore, della sofferenza e dell’affetto familiare, dell’ingiustizia e della sopraffazione. Ma il messaggio compressivo è come un monito, che invita fortemente alla riconciliazione, dopo i soprusi perpetrati iniquamente nel corso della rivoluzione.  

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

(...) Nel 1799 uno dei migliori seguaci di David, P. N. Guérin, espose al Salon un quadro raffigurante Il ritorno di Marco Sesto: un romano che, esiliato da Silla, era ritornato per trovare la moglie morta e la figli annientata dal dolore. Gli émigrés che proprio allora erano rientrati in Francia videro naturalmente l’opera come un’allegoria della stessa condizione, anche se è assai dubbio che questa fosse stata l’intenzione di Guérin quando cominciò il quadro nel 1797. (...)  

Hugh Honour

Bibliografia essenziale:

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

L’ODALISQUE À L’ESCLAVE (ODALISCA CON SCHIAVA) - 1842 - di Jean-Auguste-Dominique INGRES

 

Jean-Auguste-Dominique Ingres, L’odalisque à l’eslave (1842 - olio su tela - cm 76x105), Walters Art Museum, Baltimora (Stati Uniti).

 Lettura dell’opera

L'opera è una replica del dipinto omonimo del 1839, oggi conservato al Fogg Art Museum di Cambridge, eseguita  dal maestro nel 1842 con la collaborazione degli allievi Paul e Hippolyte Flandrin. Siamo all’interno di un ambiente di una dimora orientale aperta su un lussureggiante giardino con una vasca centrale, fontanelle e giochi dacqua, ove si intravedono appena alcuni altri personaggi che si deliziano nell'ozio. L’ambientazione, che ricalca in larga parte quella del dipinto del ’39, molto verosimilmente è ripresa da miniature persiane in possesso dell'artista. 

Un’odalisca, dal corpo flessuoso e immerso in un bagno di luce, è adagiata a terra in primo piano, su un tappeto a motivi geometrici, in una postura voluttuosa, con la testa poggiata su cuscini di seta e con le gambe avvolte da un leggero lenzuolo. La “venere esotica” ha posato su un copriletto damascato il suo ventaglio di piume di struzzo, accanto a un bruciaprofumi, e volge lo sguardo ammaliatore verso il volto della suonatrice, in un segreto e languido pensiero.

La musicante, in posizione più arretrata rispetto alla fascinosa ottomana, anche lei seduta sul tappeto, in un atteggiamento trasognato e leggermente lascivo, è vestita vagamente alla turca con panni di seta e un turbante. Oltre una balaustra che divide in due l’ambiente si scorge la figura di un eunuco che vigila discreto sulle donne.

Ogni dettaglio del dipinto evidenzia il carattere erotizzante del raffinato contesto orientale, reso con precisione fiamminga e con l’uso di una luce morbida e diffusa.

Si capisce come, quello di Ingres sia un oriente di sogno, lontano e misterioso, in cui è possibile appagare qualsiasi fantasia. È un oriente in cui vengono evocate situazioni di sofisticato erotismo, in una propria e particolare concezione della bellezza ideale, fatta di morbida e plasmabile corporeità, riconducibile a modelli generalmente rinascimentali.  


Jean-Auguste-Dominique Ingres, L’odalisque à l’eslave (firmato e datato 1839 - olio su tela - cm 72x100), Fogg Art Museum, Cambridge (Stati Uniti). 


Jean-Auguste-DominiqueAutoritratto.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande odalisca (1814 - olio su tela - cm 86x162), 

Parigi, Museo del Louvre.


Ingres, come ha scritto Giulio Carlo Argan, “È stato l’ultimo degli italianizzanti ma, più degli antichi studiava Raffaello, Bronzino, Poussin. Non è stato un neo-classico, del Neo-classicismo non accettava né la tendenza rivoluzionaria, davidiana, né la conservatrice, canoviana. Tra il suo ideale e l’ideale romantico di Delacroix v’era un contrasto che divenne ostinata, serrata polemica. Non aveva interessi ideologici e politici(...) Il soggetto, classico o romantico che fosse, non lo interessava, concepiva l’arte come pura forma(...) Per lui, dunque, il bello o la forma non è nella cosa in sé, ma nella relazione tra le cose. Questo insieme di relazioni sarà chiaro quando tutte le componenti della forma (linea, chiaroscuro, colore, luce) formeranno un tutto unitario, una sintesi.”

(…) «Non ci sono in questa figura (La Grande odalisca, n. d. a.) né ossa, né muscoli, né sangue, né vita, né rilievo, nulla infine di ciò che costituisce l’imitazione dal vero. La carnagione è grigia e monotona, non c’è neppure, a propriamente parlare, alcuna parte veramente saliente, tanto la luce è piatta, senza arte e senza cura.» (…)

C. P. Landon, Salon de 1819, in Annales du Musée.

 «Secondo noi, uno degli aspetti che innanzitutto distinguono il talento di Ingres, è l’amore per le donne. Il suo libertinaggio è serio, pieno di convinzione. Ingres non appare mai tanto a proprio agio ed efficiente come quando impegna il suo genio con le grazie di una giovane beltà. Muscoli, pieghe della carne, ombre delle fossette, ondulazioni della pelle: non manca nulla.» (…)

C. Baudelaire

 «”Sono un Gallo ma non di quelli che hanno saccheggiato Roma.” Fedele a se stesso fino all’ultimo, Ingres è l’artista che porta lo spirito del Neoclassicismo oltre l’età napoleonica, interpretando anche i temi più romantici in chiave classicheggiante. Il BAGNO TURCO esprime la sua capacità straordinaria di cogliere il reale in termini di pura pittura e di forma ideale. Le sue bagnanti e odalische sono figure ispirate a Raffaello, ma rese con una maggiore attenzione ai valori di superficie, alla luminosità intrinseca dei colori.»

F. Zeri 

© G. LUCIO FRAGNOLI

Vita in breve di Ingres         

Jean-Auguste-Dominique Ingres nasce a Montauban il 20 agosto del 1870. Figlio maggiore del pittore Jean-Marie-Joseph, è scolaro di David, a Parigi dal 1797.

Nel 1801 vince il Prix de Rome con il dipinto Achille e gli inviati di Agamennone. L’anno successivo apre un atelier nell’ex convento dei Cappuccini, giungendo presto ad una notorietà che gli permetterà di eseguire nel 1804 il ritratto di Napoleone I console e due anni dopo Napoleone in trono.

Nel 1810 risiede e lavora stabilmente a Roma e nel 1813 sposa Madeleine Chapelle. In un periodo che va fino al 1914 dipinge opere di grande effetto come il Sogno di OssianRaffaello e la FornarinaPaolo e Francesca e la Grande odalisca. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, lavora per una committenza ridotta e meno facoltosa.

Nel 1819 invia Ruggero e Angelica e la Grande Odalisca al Salon, riscuotendo giudizi poco favorevoli dalla critica.

Nel 1820 si trasferisce a Firenze e nel 1823 è eletto membro corrispondente dell’Accadémie des Beaux-Arts di Parigi. Dal 1824 è a Parigi e l’anno seguente vi apre uno studio in vie Visconti, ricevendo la Legion d’Onore e venendo anche eletto membro dell’Accadémie des Beaux-Arts.

Nel 1827 dipinge l’Apoteosi di Omero.

Nel 1834 Ingres è di nuovo a Roma come direttore dell’Accademia di Francia.

Nel 1841 ritorna a Parigi.

Nel 1849 muore la moglie, ma l’artista si risposa, due anni dopo, con Delphine Ramel. All’Esposizione universale del 1855 espone 43 dipinti in una sala a lui esclusivamente dedicata. Nel 1862 è nominato senatore.

Il 1867, alla sua morte, viene allestita una grande mostra in suo onore all’École des Beaux-Arts.

Bibliografia:

Annalisa ZanniI Gigli dell’ArteIngres, 1990, Cantini Editore, Borgo S. Croce, Firenze.

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Piero Adorno, L’arte italianaDal Settecento ai nostri giorni Vol. 3, 1994, D’Anna, Firenze.

Giorgio Cricco e Francesco Di Teodoro, Itinerario nell’arte Vol. 4°, Versione Arancione, Dal Barocco al Postimpressionismo, 2021, Zanichelli, Bologna.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

F. Zeri, Cento Dipinti, IngresBagno turco, 1998, Rizzoli, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 


lunedì 14 novembre 2022

IL BAGNO TURCO di Jean-Auguste-Dominique INGRES

 

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bagno turco (1859 – 1863 olio su tela applicata su tavola firmato e datato: J. Ingres Pinxit MDCCLXII Aetatis LXXXII –, cm 108 di diametro), Musée du Louvre, Parigi.

Il dipinto, di formato rettangolare, fu iniziato prima del 1856 e completato soltanto nel 1859, per essere venduto al principe Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte (1822-1891) detto Plon-Plon, figlio di Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone Bonaparte. Ma appena l’anno appresso Bagno turco fu restituito all’autore, in cambio di un autoritratto di Ingres ventiquattrenne, dato che la moglie di Giuseppe Carlo, Maria Clotilde di Savoia, trovava l’opera scandalosa. Nel 1862 il pittore modificò il formato del quadro, da rettangolare a tondo, e nel 1864 lo vendette, per la cifra di 20.000 franchi, a Khalil Bey, ambasciatore turco a Parigi, che aveva una discreta collezione di nudi femminili. Dall’ambasciatore turco il quadro passò nelle mani di un noto collezionista e in seguito in quelle del principe de Broglie, per essere donato infine al Louvre, nel 1911, dagli Amici del Museo.

Lady Montague

Ingres non era mai stato in oriente, nell’oriente ottomano cui l’immagine si riferisce, ma si era avvalso di varie fonti ispiratrici, letterarie e iconografiche. La principale è senza dubbio l’opera dell’aristocratica poetessa e scrittrice Lady Mary Wortley Montague,  Letters of Lady Mary Wortley Montague (1800) tradotta e pubblicata in lingua francese nel 1805, col titolo Les lettres de Lady Montague, ambassatrice d’Angleterre à la Porte Ottomane, nella quale la scrittrice, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, descrive gli sconosciuti contesti dei bagni turchi della città o la realtà delle donne segregate nei ginecei delle nobili dimore mussulmane. Oltre alle lettere di Lady Montague, l’artista aveva pure attinto alle Cent estampes qui representént différentes nation du Levant Paris (1714-15) che lui possedeva, o alle molte incisioni o stampe che corredavano altri testi sull’oriente allora in circolazione.

Fotografia di Charles Marville (1813-1879) del 7 ottobre del 1858, che documenta la forma (rettangolare) iniziale del quadro

Nelle sue Letters, Lady Mary Wortley Montague descrive un bagno turco pieno di avvenenti donne nude, in atteggiamenti diversi, “alcune che chiacchieravano, altre indaffarate; alcune che prendevano il caffè o il sorbetto, altre lascivamente adagiate sui cuscini”.    

 

LETTURA DELLOPERA

Nel formato circolare e definitivo dell’opera l’artista immagina l’interno di un bagno turco affollato di opulente e oziose femmine nude. Che si tratti di un bagno ottomano ce lo spiega il titolo del quadro ma ce lo fa capire soprattutto lo spazio dipinto ove si rilassano le odalische, che consiste in un ampio salone dalle pareti di un verdognolo slavato, quasi muffoso, rappresentato in prospettiva frontale, con un punto di fuga abbastanza alto, come se la scena fosse osservata stando in piedi, dentro l’ambiente, al di qua del basso tavolino con le tazzine per il caffè e coi vaselli degli unguenti e dei profumi.

Al centro dell’ampio vano, dall’aria profumata e calda, c’è la vasca da bagno, stretta, ma lunga, presumibilmente, infossata nella pavimentazione verdolina e bianchiccia. Tutt’intorno alla vasca sono stesi tappeti ocra e amaranto e sono sistemati soffici divani porporini e cuscini setosi. Sulla parete di fondo, adombrata, quasi umidiccia, è scavata una nicchia con una grossa anfora smaltata e un portale di gusto arabo, che immette in un corridoio. Nel muro laterale, visto di scorcio, pure è ricavata una nicchia, ma vuota, priva di ornamenti.

All’interno di una tale e ben precisata ambientazione orientaleggiante, arricchita dal suddetto e minuto tavolino con graziose tazzine e boccette messo in primissimo piano, Ingres dispone i personaggi, tutti femminili, partendo dalla suonatrice di balalaika messa di spalle in primo piano, chiaramente ripresa dalla Baigneuse Valpinçon. Alla destra della musicante, sempre in primo piano, c’è una donna assopita che si copre gli occhi con una mano, di cui si vedono, però, soltanto la testa e le braccia. Sopra di lei un’altra formosa femmina si abbandona trasognata su un cuscino. Alle spalle della sognatrice altre due donne si abbracciano morbosamente, fissando la strumentista e ascoltando le note da lei prodotte. Dietro di loro una donna con le braccia conserte si fa profumare i capelli da una sua ancella, sotto lo sguardo di una serva paziente.

Al centro della sala una donna si sta immergendo nella vasca, mentre un’altra danza al ritmo di un tamburello suonato da una musicante nera, e un’altra donna in turbante si sta rivestendo, mentre lascia il bagno turco. In fondo all’ampia sala si affolla un gruppo di prosperose donne in posture impudiche e provocanti, dai gesti lenti e dagli sguardi illanguiditi. Tra di esse spicca la figura di una donna che posa un bicchiere da cui ha appena bevuto, dietro di lei si vede un’altra femmina che porta uno stuzzichino alla bocca.   

La luce, calda e ovattata, proviene dall’alto a sinistra e illumina il gruppo in primo piano, mentre appare più diffusa e tenue la luce che illumina il gruppo delle figure in secondo piano, contribuendo a creare una scena pervasa da grande sensualità. È uno spaccato intrigante e segreto di un oriente ottomano mai visto, ma soltanto immaginato dal pittore, in una libera e compiaciuta interpretazione delle informazioni a sua disposizione, piuttosto reinventato secondo la sua verace passione per le donne, secondo le sue voglie di insospettato voyeur e di inguaribile libertino. Bagno Turco è quindi il manifesto di un estetizzante erotismo e della bellezza carnale, di una bellezza femminile tutta ingresiana. 

Lo stile di Ingres appare come una perfetta combinazione di forma e volume, definiti da un tenue contrasto chiaroscurale e un contorno pulito e coerentemente modellato in un’idea di sintesi tra vero e ideale.   

Nel quadro si riconoscono Delphine Ramel, seconda moglie del pittore, nel personaggio col cappello, e Madeleine Chapelle, prima moglie di Ingres, nella donna distesa all’indietro con l’orecchino di perla.

Baigneuse Valpinçon

Ingres, come ha scritto Giulio Carlo Argan, “È stato l’ultimo degli italianizzanti ma, più degli antichi studiava Raffaello, Bronzino, Poussin. Non è stato un neo-classico, del Neo-classicismo non accettava né la tendenza rivoluzionaria, davidiana, né la conservatrice, canoviana. Tra il suo ideale e l’ideale romantico di Delacroix v’era un contrasto che divenne ostinata, serrata polemica. Non aveva interessi ideologici e politici(...) Il soggetto, classico o romantico che fosse, non lo interessava, concepiva l’arte come pura forma(...) Per lui, dunque, il bello o la forma non è nella cosa in sé, ma nella relazione tra le cose. Questo insieme di relazioni sarà chiaro quando tutte le componenti della forma (linea, chiaroscuro, colore, luce) formeranno un tutto unitario, una sintesi.”


(…) «Non ci sono in questa figura (La Grande odalisca, n. d. a.) né ossa, né muscoli, né sangue, né vita, né rilievo, nulla infine di ciò che costituisce l’imitazione dal vero. La carnagione è grigia e monotona, non c’è neppure, a propriamente parlare, alcuna parte veramente saliente, tanto la luce è piatta, senza arte e senza cura.» (…)

C. P. Landon, Salon de 1819, in Annales du Musée.

 «Secondo noi, uno degli aspetti che innanzitutto distinguono il talento di Ingres, è l’amore per le donne. Il suo libertinaggio è serio, pieno di convinzione. Ingres non appare mai tanto a proprio agio ed efficiente come quando impegna il suo genio con le grazie di una giovane beltà. Muscoli, pieghe della carne, ombre delle fossette, ondulazioni della pelle: non manca nulla.» (…)

C. Baudelaire

© G. LUCIO FRAGNOLI

                                                         

Vita in breve di Ingres         

Jean-Auguste-Dominique Ingres nasce a Montauban il 20 agosto del 1870. Figlio maggiore del pittore Jean-Marie-Joseph, è scolaro di David, a Parigi dal 1797.

Nel 1801 vince il Prix de Rome con il dipinto Achille e gli inviati di Agamennone. L’anno successivo apre un atelier nell’ex convento dei Cappuccini, giungendo presto ad una notorietà che gli permetterà di eseguire nel 1804 il ritratto di Napoleone I console e due anni dopo Napoleone in trono.

Nel 1810 risiede e lavora stabilmente a Roma e nel 1813 sposa Madeleine Chapelle. In un periodo che va fino al 1914 dipinge opere di grande effetto come il Sogno di Ossian, Raffaello e la Fornarina, Paolo e Francesca e la Grande odalisca. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, lavora per una committenza ridotta e meno facoltosa.

Nel 1819 invia Ruggero e Angelica e la Grande Odalisca al Salon, riscuotendo giudizi poco favorevoli dalla critica.

Nel 1820 si trasferisce a Firenze e nel 1823 è eletto membro corrispondente dell’Accadémie des Beaux-Arts di Parigi. Dal 1824 è a Parigi e l’anno seguente vi apre uno studio in vie Visconti, ricevendo la Legion d’Onore e venendo anche eletto membro dell’Accadémie des Beaux-Arts.

Nel 1827 dipinge l’Apoteosi di Omero.

Nel 1834 Ingres è di nuovo a Roma come direttore dell’Accademia di Francia.

Nel 1841 ritorna a Parigi.

Nel 1849 muore la moglie, ma l’artista si risposa, due anni dopo, con Delphine Ramel. All’Esposizione universale del 1855 espone 43 dipinti in una sala a lui esclusivamente dedicata. Nel 1862 è nominato senatore.

Il 1867, alla sua morte, viene allestita una grande mostra in suo onore all’École des Beaux-Arts.

Bibliografia:

Annalisa Zanni, I Gigli dell’Arte, Ingres, 1990, Cantini Editore, Borgo S. Croce, Firenze.

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni Vol. 3, 1994, D’Anna, Firenze.

Giorgio Cricco e Francesco Di Teodoro, Itinerario nell’arte Vol. 4°, Versione Arancione, Dal Barocco al Postimpressionismo, 2021, Zanichelli, Bologna.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

F. Zeri, Cento Dipinti, Ingres, Bagno turco, 1998, Rizzoli, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 


martedì 1 novembre 2022

APOTEOSI DI OMERO di Jean-Auguste-Dominique Ingres

 

Di Jean-Auguste-Dominique Ingres, Apoteosi di Omero (firmato e datato 1827 - olio su tela - 386x515 cm), Musée du Louvre, Parigi.

ANALISI DELL’OPERA 

Il gigantesco dipinto fu commissionato per il soffitto della nona sala del museo Carlo X del Louvre, dedicata ai ritrovamenti etruschi ed egizi. Il soggetto era stato quindi realizzato, insieme ad aggiuntive decorazioni grecizzanti, per quella specifica collocazione, e non per la sistemazione odierna. Per un lungo periodo, però, Apoteosi di Omero fu sostituito nell’anzidetto ambiente da una replica, giacché l’originale era stato rimosso nel 1855 ed era esposto al Musée du Luxembourg. Fu riportato al Louvre soltanto nel 1874. Esposto in seguito al Salon, suscitò ammirazione anche nella cerchia degli artisti romantici, per la qualità pittorica e la complessa elaborazione del soggetto.

Quella che lo stesso Ingres giudica la più importante tela da lui concepita, cita vagamente, nell’impostazione generale, i raffaelleschi Il Parnaso e La scuola di Atene, in una rappresentazione imponente e magniloquente insieme, nonché manifestamente celebrativa del maggiore cantore epico dell’antichità.

Omero, contegnoso e solenne nell’aspetto, è seduto su un seggio posizionato su un podio, poggiato a sua volta sullo stilobate di un tempio a lui dedicato, alla fine di un breve crepidoma, e occupa il centro della composizione. Alle sue spalle si erge un tempio periptero, esastilo in ordine ionico, il cui frontone, che si staglia contro un cielo sereno e luminoso, è ispirato a un dettaglio di un monumento in onore dell’imperatore romano Antonino Pio, con l’aquila di Zeus che si appresta a portare in volo il vate greco tra gli dei dell’Olimpo.   

Una Vittoria alata, sospesa nell’aria sta incoronando il cantore cieco, che ai suoi piedi ha le figure allegoriche dell’Iliade e dell’Odissea, sedute sul terzo scalino, l’una dando le spalle all’altra. L’Iliade, vestita di un peplo rosso, e l’Odissea, avvolta in un mantello verde, sono riprese dalle figure di sibille nella volta michelangiolesca della Sistina. Disposti in modo bilanciato, quasi simmetricamente, intorno al personaggio di omero si affollano i maestri più eccelsi d’ogni tempo, che gli rendono omaggio. In alto, con l’eccezione di Michelangelo e Raffaello, ci sono i grandi talenti antichi, in basso i moderni. L’imponente dipinto, infatti, altro non è che la celebrazione degli uomini di genio, della sublimità e superiorità dell’arte su ogni attività umana: è, in fondo, un omaggio del pittore ai più straordinari creatori d’ogni tempo, primo tra tutti il rimatore arcaico, vissuto nel IX secolo a. C., secondo Erotodo.

Cosicché alla destra di Omero, in alto, si riconoscono, tra gli altri, Orazio e Virgilio, Sofocle e il succitato Erotodo, Apelle, che tiene per mano Raffaello, e offre al più grande dei poeti i pennelli e la tavolozza; in basso, ci sono, tra gli alti, Dante, Poussin e Corneille. Alla sinistra di Omero, in alto, invece, si riconoscono, oltre che Michelangelo, Aristotele e altri, in posizione preminente Fidia, che offre lo scalpello e il mazzuolo, Pindaro che offre la sua lira, Alessandro Magno che offre un cofanetto con dentro le opere omeriche. Sotto di loro si vedono, tra gli altri, Molière, Boileau e Longino.        

Di Jean-Auguste-Dominique Ingres, Apoteosi di Omero, Particolare delle figure allegoriche dell’Iliade e dell’Odissea. Sull’alzata del gradino sottostante si può osservare un’iscrizione in greco che così si può tradurre: Se Omero è un dio, che lo si onori tra gli dei, se non è un dio, che sia considerato tale.

 

Ingres, come ha scritto Giulio Carlo Argan, “È stato l’ultimo degli italianizzanti ma, più degli antichi studiava Raffaello, Bronzino, Poussin. Non è stato un neo-classico, del Neo-classicismo non accettava né la tendenza rivoluzionaria, davidiana, né la conservatrice, canoviana. Tra il suo ideale e l’ideale romantico di Delacroix v’era un contrasto che divenne ostinata, serrata polemica. Non aveva interessi ideologici e politici(...) Il soggetto, classico o romantico che fosse, non lo interessava, concepiva l’arte come pura forma(...)”   


 

© G. LUCIO FRAGNOLI

 

 


Vita in breve di Ingres

Jean-Auguste-Dominique Ingres nasce a Montauban il 20 agosto del 1870. Figlio maggiore del pittore Jean-Marie-Joseph, è scolaro di David, a Parigi dal 1797.

Nel 1801 vince il Prix de Rome con il dipinto Achille e gli inviati di Agamennone. L’anno successivo apre un atelier nell’ex convento dei Cappuccini, giungendo presto ad una notorietà che gli permetterà di eseguire nel 1804 il ritratto di Napoleone I console e due anni dopo Napoleone in trono.

Nel 1810 risiede e lavora stabilmente a Roma e nel 1813 sposa Madeleine Chapelle. In un periodo che va fino al 1914 dipinge opere di grande effetto come il Sogno di Ossian, Raffaello e la Fornarina, Paolo e Francesca e la Grande odalisca. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, lavora per una committenza ridotta e meno facoltosa.

Nel 1819 invia Ruggero e Angelica e la Grande Odalisca al Salon, riscuotendo giudizi poco favorevoli dalla critica.

Nel 1820 si trasferisce a Firenze e nel 1823 è eletto membro corrispondente dell’Accadémie des Beaux-Arts di Parigi. Dal 1824 è a Parigi e l’anno seguente vi apre uno studio in vie Visconti, ricevendo la Legion d’Onore e venendo anche eletto membro dell’Accadémie des Beaux-Arts.

Nel 1827 dipinge l’Apoteosi di Omero.

Nel 1834 Ingres è di nuovo a Roma come direttore dell’Accademia di Francia.

Nel 1841 ritorna a Parigi.

Nel 1849 muore la moglie, ma l’artista si risposa, due anni dopo, con Delphine Ramel. All’Esposizione universale del 1855 espone 43 dipinti in una sala a lui esclusivamente dedicata. Nel 1862 è nominato senatore.

Il 1867, alla sua morte, viene allestita una grande mostra in suo onore all’École des Beaux-Arts.

 

Bibliografia:

Annalisa Zanni, I Gigli dell’Arte, Ingres, 1990, Cantini Editore, Borgo S. Croce, Firenze.

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni Vol. 3, 1994, D’Anna, Firenze.

Giorgio Cricco e Francesco Di Teodoro, Itinerario nell’arte Vol. 4°, Versione Arancione, Dal Barocco al Postimpressionismo, 2021, Zanichelli, Bologna.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

F. Zeri, Cento Dipinti, Ingres, Bagno turco, 1998, Rizzoli, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 


L'ORGOGLIO DEL PAGLIACCIO, il nuovo romanzo di G. Lucio Fragnoli

La vendetta.  Era l’unica possibilità che mi avevano lasciato gli “assassini” della mia anima e i “ladri” della mia pubblica onorabilità. An...