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giovedì 17 novembre 2022

IL RITORNO DI MARCO SESTO (Le retour de Marcus Sextus) di Pierre-Narcisse Guérin

 

Pierre-Narcisse Guérin (Parigi, 1774 – Roma, 1883), Il ritorno di Marco Sesto (Le retour de Marcus Sextus), firmato e datato Guérin F an 7, 1799 - olio su tela - 217x243 cm, Musée du Louvre, Parigi. 

ANALISI DELL’OPERA

Esposto con grande successo al salon del 1799, Il ritorno di Marco Sesto era così presentato nel catalogo:Marco Sesto, sfuggito alle proscrizioni di Silla, al suo ritorno trova la figlia in lacrime al capezzale della moglie morta”. In realtà il caso rappresentato, quello di un patrizio romano esiliato dal dittatore Silla che ritorna alla sua dimora e trova la moglie morta e la figlia distrutta dal dolore, è del tutto inventato. Si tratterebbe, secondo alcuni studiosi, soltanto di un acuto accorgimento dell’autore per rappresentare nella storia antica un fatto a lui contemporaneo, ossia la condizione degli émigrés, i cittadini emigrati dal 1789 in poi nei paesi vicini, principalmente per sfuggire alle violenze e alle tensioni causate dalla rivoluzione, che proprio allora facevano ritorno in patria.

A interpretare in tal modo il dipinto di Guérin fu innanzitutto il pubblico del tempo, che accorse in massa per ammirare il quadro, e che vide nel personaggio dell’abbattuto Marco Sesto l’emigrato francese appena ritornato, spogliato dei propri beni e deprivato dell’affetto dei familiari morti ammazzati, così come vide il sanguinario Robespierre dietro la spietata figura del dispotico Silla. Con una tale interpretazione la questione fu appassionatamente sostenuta da molti intellettuali e su alcuni giornali da vari articolisti. Questo a dimostrazione del generale favore riscosso dal Ritorno di Marco Sesto che Guérin, ammiratore e leale antagonista di David ripropone al Concorso Decennale del 1812.

Le retour de Marcus Sextus è un dipinto autenticamente neoclassico, per lo stile aulico, per la visione ideale ed estetizzante, per il messaggio in esso contenuto. L’esule creato da Guérin, Marco Sesto, un patrizio, sicuramente, provato dalle sofferenze patite nel duro esilio infertogli dal tiranno ha appena fatto ritorno nella sua domus, impoverita, spogliata d’ogni ornamento. Ha trovato la moglie morta, con l’incarnato illividito e avvolta in un lenzuolo. Si è seduto compostamente sul letto dove è adagiata la morta e le ha preso una mano nelle sue, in un’ultima dimostrazione d’amore, mentre la figlia, affranta dal dolore, è stesa ai suoi piedi e gli stringe affettuosamente una gamba, posando il capo sul ginocchio, come per unirsi a lui nella sofferenza e nel contempo per confortarlo.

Nel piccolo ambiente poveramente arredato e riservato alle esequie, delimitato da una bassa parete di legno oltre cui si distingue appena un androne buio e disadorno, filtra dall’alto a sinistra un fascio di luce limpida e calda, che illumina magistralmente la scena, malinconica e commovente, le poche cose e i personaggi, disposti in un ordine preciso, quasi solenne, ponderato con l’ordine spaziale.

I gesti sono seri e significativi, come le espressioni dei volti dei sofferenti, soprattutto quella impressa sul volto del proscritto, sospeso in un angosciato sgomento, con lo sguardo fisso, rassegnato e disperato insieme.

Al tema storico antico, presumibilmente rapportato alla contemporaneità, corrisponde il tema della morte e una forte carica di sentimentalismo proprio del neoclassicismo. In questo caso i sentimenti sono quelli dell’amore e del dolore, della sofferenza e dell’affetto familiare, dell’ingiustizia e della sopraffazione. Ma il messaggio compressivo è come un monito, che invita fortemente alla riconciliazione, dopo i soprusi perpetrati iniquamente nel corso della rivoluzione.   


Pierre-Narcisse Guérin

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

(...) Nel 1799 uno dei migliori seguaci di David, P. N. Guérin, espose al Salon un quadro raffigurante Il ritorno di Marco Sesto: un romano che, esiliato da Silla, era ritornato per trovare la moglie morta e la figli annientata dal dolore. Gli émigrés che proprio allora erano rientrati in Francia videro naturalmente l’opera come un’allegoria della stessa condizione, anche se è assai dubbio che questa fosse stata l’intenzione di Guérin quando cominciò il quadro nel 1797. (...)  

Hugh Honour

Bibliografia essenziale:

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

CARAVAGGIO E LE STORIE DI SAN MATTEO IN SAN LUIGI DEI FRANCESI


ANALISI DELLE OPERE

(...) Caravaggio ebbe l’incarico con la mediazione del cardinal Del Monte, per un compenso di 400 scudi, dei quali 50 versati a titolo di anticipo. Il 23 luglio 1599 venne stipulato il contratto, che prevedeva fossero dipinte due tele di grosso formato con due episodi della vita di San Matteo, da porsi sulle pareti laterali, mentre per l’altare si pensava sempre al San Matteo e l’Angelo di Jacob Cobaert, che era in realtà scultore di piccole statue in bronzo. Al contratto del 23 luglio, firmato dai due rettori, si aggiunse un secondo contratto del primo agosto dello stesso anno, firmato questo da tutta la confraternita. I due contratti, oltre alla somma stabilita come compenso per il pittore, fissarono anche il termine della consegna dei dipinti, che doveva avvenire entro l’anno. Ma l’elaboratezza dei soggetti provocò qualche mese di ritardo rispetto alla scadenza, e il saldo finale, con qualche difficoltà, da imputare alla scorrettezza degli amministratori, avvenne il 4 luglio del 1600. Il successo riscosso dai due quadri spinse i rettori ad assegnare al Caravaggio anche la pala d’altare con un San Matteo e l’Angelo, in sostituzione della brutta scultura, neppure ultimata, del Cobaert.

(...)

Vocazione di San Matteo (1599- 1600), olio su tela, cm. 322 x 340, San Luigi dei Francesi, Roma.

  

Vocazione di San Matteo

Il gran ciclo con le storie di San Matteo si apre con la Vocazione di San Matteo, dipinto per primo, tra il 1599 e il 1600. Per l’elaborazione dell’opera il pittore si attenne in larga parte a un promemoria lasciato dal cardinale Contarelli, il quale consigliava di comporre l’episodio col santo dentro un magazeno, o ver, salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et denari in atto d’haver riscosso qualche somma, chiamato all’apostolato dal Signore, che passa per strada con i suoi discepoli. Tutto ciò in aderenza ai vangeli di Luca, di Marco e dello stesso Matteo.La scena, perfettamente attualizzata, è ambientata nella semioscurità di uno stanzone disadorno, un casello daziario, indubbiamente, dove il publicano Matteo, seduto al suo banco, è intento a riscuotere denari, sotto lo sguardo interessato di un anziano contribuente. Accomodati intorno allo scrittoio − sul quale si vedono una borsa e un calamaio accanto ad un registro aperto − vi sono altri tre personaggi, i giovanissimi scagnozzi del gabelliere, indubbiamente, tutti in abiti moderni.

In questa comune sceneggiatura di vita seicentesca, compaiono inaspettati, e preceduti da un fascio di luce innaturale, il Cristo e San Pietro, discesi nel magazeno da un uscio posto in alto, sicuramente, dopo una breve rampa di scale, come stranamente provenienti da un’epoca lontana, da una differente realtà storica, come due stanchi e trasandati pellegrini. Dal tavolo due giovani bravi si volgono a guardare gli sconosciuti, nella totale indifferenza di un altro giovinastro che fissa avidamente il denaro che sta contando, quasi ne fosse soggiogato, insieme al vecchio tartassato, che si tiene gli occhiali sul naso. Il Cristo scruta in viso il pubblicano e lo indica con la mano destra, con un gesto che esprime distintamente la chiamata. Ma nondimeno Matteo, nel contempo, indica se stesso in segno di risposta. 

Per rafforzare la natura divina del Cristo il Caravaggio ricorre all’accorgimento di celarne quasi completamente la sagoma dietro quella di San Pietro, che pure indica il pubblicano. Le radiografie del dipinto, infatti, hanno mostrato che la figura dell’apostolo è stata aggiunta in un secondo momento. Tale accortezza è pensata per rimandare tutta l’attenzione del riguardante sui pochi tratti del volto e sulla mano del Redentore, sulla sua leggerissima aureola e sulla sua espressione imperativa.

La luce guizza sulla mano destra di Gesù e del discepolo Pietro, si sofferma sui loro volti di asceti, e rischiara la tavolata mondana, affaccendata nelle umane e transitorie evenienze. Ed è proprio la luce, concepita come una soprannaturale emanazione, che dà unità all’insieme, composto dai due gruppi di personaggi in forte contrasto. La discordanza tra le figure dei due spiritualisti, col loro abbigliamento umile e d’altri tempi, ma ancora alquanto solenni nella loro trascuratezza, e le figure laicali raccolte intorno al tavolo, coi loro costumi moderni e chiassosi, risulta difatti immediatamente evidente.

Appare quindi chiarissimo come l’antinomia divino -profano sia una chiave di lettura del dipinto: la vanità delle cose terrene che si arrende alla gloria della vita eterna: la salvazione che prevale sulla vacuità delle illusorie aspirazioni umane, rappresentate dal luccicore malvagio delle monete.

Ma non è tutto. Nella Vocazione il Caravaggio ci dà una sua spiegazione del miracolo, non inteso come guarigione prodigiosa, risurrezione dalla morte o liberazione dal demonio, ma, come ha già chiarito Roberto Longhi, di una vita che si cangia per un destino che sopravvieneCon l’attualizzazione della vicenda sacra, parallelamente, il pittore ci tiene anche a precisare che un tale miracolo può sempre accadere, giacché il Signore può presentarsi per soccorrerci in ogni istante della nostra esistenza, in ogni epoca. In questa mia aggiuntiva considerazione distinguo una chiara ed ulteriore accezione devozionale dell’opera.

Ritengo inoltre priva di qualsiasi logico presupposto l’esegesi che qualcuno ultimamente ha dato al dipinto, individuando, per un gioco di specchi, il futuro evangelista nella figura dell’avido giovanotto seduto a capotavola.In questa comune sceneggiatura di vita seicentesca, compaiono inaspettati, e preceduti da un fascio di luce innaturale, il Cristo e San Pietro, discesi nel magazeno da un uscio posto in alto, sicuramente, dopo una breve rampa di scale, come stranamente provenienti da un’epoca lontana, da una differente realtà storica, come due stanchi e trasandati pellegrini. Dal tavolo due giovani bravi si volgono a guardare gli sconosciuti, nella totale indifferenza di un altro giovinastro che fissa avidamente il denaro che sta contando, quasi ne fosse soggiogato, insieme al vecchio tartassato, che si tiene gli occhiali sul naso. Il Cristo scruta in viso il pubblicano e lo indica con la mano destra, con un gesto che esprime distintamente la chiamata. Ma nondimeno Matteo, nel contempo, indica se stesso in segno di risposta. 

Per rafforzare la natura divina del Cristo il Caravaggio ricorre all’accorgimento di celarne quasi completamente la sagoma dietro quella di San Pietro, che pure indica il pubblicano. Le radiografie del dipinto, infatti, hanno mostrato che la figura dell’apostolo è stata aggiunta in un secondo momento. Tale accortezza è pensata per rimandare tutta l’attenzione del riguardante sui pochi tratti del volto e sulla mano del Redentore, sulla sua leggerissima aureola e sulla sua espressione imperativa. La luce guizza sulla mano destra di Gesù e del discepolo Pietro, si sofferma sui loro volti di asceti, e rischiara la tavolata mondana, affaccendata nelle umane e transitorie evenienze. Ed è proprio la luce, concepita come una soprannaturale emanazione, che dà unità all’insieme, composto dai due gruppi di personaggi in forte contrasto.

La discordanza tra le figure dei due spiritualisti, col loro abbigliamento umile e d’altri tempi, ma ancora alquanto solenni nella loro trascuratezza, e le figure laicali raccolte intorno al tavolo, coi loro costumi moderni e chiassosi, risulta difatti immediatamente evidente. Appare quindi chiarissimo come l’antinomia divino -profano sia una chiave di lettura del dipinto: la vanità delle cose terrene che si arrende alla gloria della vita eterna: la salvazione che prevale sulla vacuità delle illusorie aspirazioni umane, rappresentate dal luccicore malvagio delle monete.

Ma non è tutto. Nella Vocazione il Caravaggio ci dà una sua spiegazione del miracolo, non inteso come guarigione prodigiosa, risurrezione dalla morte o liberazione dal demonio, ma, come ha già chiarito Roberto Longhi, di una vita che si cangia per un destino che sopravvieneCon l’attualizzazione della vicenda sacra, parallelamente, il pittore ci tiene anche a precisare che un tale miracolo può sempre accadere, giacché il Signore può presentarsi per soccorrerci in ogni istante della nostra esistenza, in ogni epoca. In questa mia aggiuntiva considerazione distinguo una chiara ed ulteriore accezione devozionale dell’opera.

Ritengo inoltre priva di qualsiasi logico presupposto l’esegesi che qualcuno ultimamente ha dato al dipinto, individuando, per un gioco di specchi, il futuro evangelista nella figura dell’avido giovanotto seduto a capotavola.

(...)

 

Martirio di San Matteo (1600), olio su tela, cm. 323 x 343, San Luigi dei Francesi, Roma.


 Martirio di San Matteo


Stando alla tradizione, San Matteo sarebbe morto in Etiopia, ove si era recato in predicazione e dove aveva convertito il re etiope Egippo, risuscitando miracolosamente la figlia Ifigenia.

Quando il re morì gli successe il fratello Itarco, il quale bramava di sposare Ifigenia, votatasi però alla castità. Itarco impose a San Matteo di convincere Ifigenia ad accettare la sua proposta di matrimonio. Ma il santo, durante la messa e alla presenza del sovrano, dichiarò solennemente che Ifigenia non poteva sciogliere il voto che la legava al Signore per unirsi al più mortale dei re. Tale affermazione suscitò la rabbia di Itarco, che spietatamente lo fece uccidere sull’altare da un proprio sicario. 

Secondo Roberto Longhi, il Martirio di San Matteo fu immaginato dal Caravaggio come un fattaccio, ove il santo è strappato all’altare e, già colpito dal carnefice al costato, giace in terra sotto la presa dell’assassino, che sta per sferrargli il colpo mortale.

Ma, in realtà, per l’elaborazione dell’opera il Merisi cercò di attenersi il più fedelmente possibile ad un promemoria lasciato dal cardinale Contarelli, il quale consigliava di comporre il luogo dell’azione lungo et largo quasi in forma di tempio; per l’altare consigliava ch’esso fosse in isola e che fosse elevato su gradini. Il santo poi doveva essere assassinato da un manipolo di soldati, mentre celebrava la messa tra una moltitudine di huomini et donne giovani, vecchi, putti d’ogni sorte in oratione, che inorridivano dinnanzi al terribile evento.

In questa tela, a detta di molti storici dell’arte, vi è qualche reminiscenza manierista, che però andrebbe spiegata nel solo e non sufficiente fatto di una composizione movimentata. La scena è ben impostata prospetticamente, in un tumultuoso succedersi di figure, nell’interno imprecisato e cavernoso di una chiesa.

I personaggi, che emergono dall’oscurità con grande drammaticità ed efficacia plastica, scandiscono la profondità dello spazio attraverso la loro grandezza, che decresce, dai neofiti nudi in primo piano fino all’ultima figura (un autoritratto dell’artista), tutti colpiti da un potente baleno di luce che squarcia l’oscurità dell’ambiente, penetrando dall’alto, diagonalmente, in modo quasi innaturale.

Sulla sinistra del dipinto vi è un folto gruppo di personaggi in abiti moderni, che si ritraggono allibiti (anche in questo dipinto la penosa vicenda è stata attualizzata), mentre alla destra, al di sopra dei catecumeni nudi, seduti sui bordi della vasca battesimale, spicca la figura del chierichetto, che fugge spaventato.

Al centro della composizione, disteso per terra davanti all’altare, vi è il santo, già ferito al petto. Con la sua mano aperta verso l’assassino, egli cerca quasi di placarne l’ira, infondendo in lui la grazia divina del perdono, che il carnefice riconosce per un momento. Ed esita a sferrare il colpo mortale al sacerdote, che non si dimena per evitarlo, ma lo attende consapevole. Da nessuno visto, sostenuto da una densa nube, un angelo si protende spericolatamente in giù e tende verso la mano aperta del religioso morente la palma del martirio, causando il lieve tremore della fiammella d’una candela posta sull’altare.

Le radiografie dell’opera hanno rivelato una travagliata elaborazione del soggetto, con tutta una serie di trasformazioni radicali che hanno fatto pensare a due diverse stesure, compresa quella definitiva, con ripensamenti e aggiustamenti derivanti da una difficoltà di gestazione di un tema che risultava complicato già nelle disposizioni del Contarelli. E la complessità del dipinto è stata velatamente sottointesa anche dal Bellori, che tra l’altro evidenziava, già al suo tempo, la problematicità di osservazione, sia del Martirio, quanto della Vocazione.

Infatti è assolutamente vero che i laterali della Contarelli si vedono malissimo, anche oggi, dato che la già angusta cappella è sbarrata e la posizione dalla quale i quadri possono essere ammirati non permette un’osservazione corretta e completa.

I critici moderni hanno sempre esaltato la concitazione drammatica del Martirio, si sono soffermati sulla brutalità della scena, ipotizzando un qualche possibile nesso con il supplizio riservato a Giordano Bruno. Io sono propenso ad escludere possibili connessioni dell’opera con la sorte terribile toccata al monaco nolano. La questione che l’episodio sacro sia interpretato con evidente brutalità è da collegarsi alla sola determinazione del pittore di volerlo rappresentare nel suo momento di più alta tensione psicologica e di forte tragicità. Ciò, sappiamo, è una costante fissa del Caravaggio che, anche in mancanza di uno spazio preciso, costruisce una situazione la più reale possibile, trasportando il sacrificio del santo nel contesto violento del suo tempo, in cui gravissimi fatti di sangue erano all’ordine del giorno.

Dando credito alla tesi del Calvesi, si potrebbe inoltre congetturare una correlazione con le vicende della Francia ugonotta, ove il santo è il simbolo della Chiesa ferita, che comunque concede il suo perdono.

Nel Martirio di San Matteo, l’ultima sorpresa è costituita dall’autoritratto del pittore nella figura più lontana, che tradisce nel volto una pietosa espressione di sofferenza, con la mano tesa in avanti, quasi a voler arrestare il triste evento. In una tale figurazione l’artista lombardo riassume il suo particolare stato d’animo di commozione e dolore per l’atroce fine riservata al martire, a testimoniare il valore anche devozionale del dipinto.


(...)

 

San Matteo e l’Angelo (1602), olio su tela, cm. 296,5 x 195, San Luigi dei Francesi, Roma.



San Matteo e l’Angelo


Il secondo San Matteo e l’Angelo, che sostituì il primo rimosso dai sacerdoti, anche non seguendo la tradizionale iconografia, fu ben accolto dagli stessi religiosi, i quali restarono ammirati di fronte alla classica compostezza e all’accattivante impostazione dell’opera.

Usò il Caravaggio ogni sforzo, per riuscire in questo secondo quadro: e nell’accomodare al naturale la figura del Santo, che scrive il Vangelo, egli la dispose con un ginocchio piegato sopra lo sgabello, e con le mani al tavolino, intingendo la penna nel calamaio sopra il libro. In questo atto volge la faccia dal lato sinistro verso l’Angelo, il quale sospeso su l’ali in aria, gli parla, e gli accenna, toccando con la destra l’indice della mano sinistra. Sembra l’Angelo lontano da color finto, e sta sospeso su l’ali verso il Santo, ignude le braccia, e ‘l petto, con lo svolazzo d’un velo bianco, che lo cinge nell’oscurità del campo (Bellori).

Qui la figura del santo − più vecchio che nel Martirio −, appare più ascetica e slanciata, stando egli in piedi e con un ginocchio poggiato su uno sgabello. Il personaggio ha effettivamente la fisionomia del beato, e nella sua espressione traspare un genuino sentimento di fede poiché, volgendo lo sguardo in alto verso l’angelo avvolto negli svolazzanti panneggi barocchi, ne trascrive pazientemente il divino racconto. L’angelo è cosa certamente rara nei dipinti del Caravaggio, infatti se ne trovano pochi. Pure se il tempo del Merisi fu caratterizzato da un grande ammasso d’angeli nell’arte: se ne fecero in ogni varietà, da quelli confusi tra le nuvole, che sembrano pur essi fatti d’aria ai putti che sembrano amorini eccetera. Il Caravaggio dipinse angeli soltanto quando fu costretto a farlo, ma li immaginò come creature molto più vicine a figure terrene che celesti, però bellissimi, rispondendo in questo modo ai suoi contemporanei immersi in un universo d’angeli, che anziché divino, spesso appare visionario e delirante. Tuttavia, per Lionello venturi, nel secondo San Matteo e l’Angelo, il Merisi adottò un’impostazione dell’immagine sicuramente molto più convenzionale, infatti annota:

… Per ingraziarsi i preti di San Luigi de’ Francesi rifece il San Matteo, che è tuttora sull’altare, ricorse alle proporzioni slanciate, alla posa serpentinata, all’angelo che scende dal cielo; ed evitò ogni incongruenza sociale, ma non fu vero di fronte a se stesso, e l’opera d’arte fu soltanto mediocre.


(...)


Copertina del saggio critico CARAVAGGIO E LE STORIE DI SAN MATTEO IN SAN LUIGI DEI FRANCESI di Giuseppe Lucio Fragnoli, edito da EDIZIONI EMMEGI, Castelforte (LT), 2018.


I testi soprariportati sono soltanto alcune parti tratte dal saggio critico CARAVAGGIO E LE STORIE DI SAN MATTEO IN SAN LUIGI DEI FRANCESI di Giuseppe Lucio Fragnoli. 



© GIUSEPPE LUCIO FRAGNOLI



BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: 

Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti moderni, Roma: Mascardi, 1672. 

Bernard Berenson, Caravaggio, a cura di Luisa Vertova, Milano: Leonardo, 1994. 

Maurizio Calvesi, La realtà del Caravaggio, Torino: Einaudi, 1990.

Maurizio calvesi, Caravaggio, Art Dossier (aprile 1996), Firenze, Giunti.

Roberto Longhi, Caravaggio, a cura di Giovanni Previtali, Roma: Editori Riuniti, 1982.

Maurizio Marini, Caravaggio: Michelangelo Merisi da Caravaggio “pictor praestantissimus”, Roma: Newton Compton, 1987.


L’ODALISQUE À L’ESCLAVE (ODALISCA CON SCHIAVA) - 1842 - di Jean-Auguste-Dominique INGRES

 

Jean-Auguste-Dominique Ingres, L’odalisque à l’eslave (1842 - olio su tela - cm 76x105), Walters Art Museum, Baltimora (Stati Uniti).

 Lettura dell’opera

L'opera è una replica del dipinto omonimo del 1839, oggi conservato al Fogg Art Museum di Cambridge, eseguita  dal maestro nel 1842 con la collaborazione degli allievi Paul e Hippolyte Flandrin. Siamo all’interno di un ambiente di una dimora orientale aperta su un lussureggiante giardino con una vasca centrale, fontanelle e giochi dacqua, ove si intravedono appena alcuni altri personaggi che si deliziano nell'ozio. L’ambientazione, che ricalca in larga parte quella del dipinto del ’39, molto verosimilmente è ripresa da miniature persiane in possesso dell'artista. 

Un’odalisca, dal corpo flessuoso e immerso in un bagno di luce, è adagiata a terra in primo piano, su un tappeto a motivi geometrici, in una postura voluttuosa, con la testa poggiata su cuscini di seta e con le gambe avvolte da un leggero lenzuolo. La “venere esotica” ha posato su un copriletto damascato il suo ventaglio di piume di struzzo, accanto a un bruciaprofumi, e volge lo sguardo ammaliatore verso il volto della suonatrice, in un segreto e languido pensiero.

La musicante, in posizione più arretrata rispetto alla fascinosa ottomana, anche lei seduta sul tappeto, in un atteggiamento trasognato e leggermente lascivo, è vestita vagamente alla turca con panni di seta e un turbante. Oltre una balaustra che divide in due l’ambiente si scorge la figura di un eunuco che vigila discreto sulle donne.

Ogni dettaglio del dipinto evidenzia il carattere erotizzante del raffinato contesto orientale, reso con precisione fiamminga e con l’uso di una luce morbida e diffusa.

Si capisce come, quello di Ingres sia un oriente di sogno, lontano e misterioso, in cui è possibile appagare qualsiasi fantasia. È un oriente in cui vengono evocate situazioni di sofisticato erotismo, in una propria e particolare concezione della bellezza ideale, fatta di morbida e plasmabile corporeità, riconducibile a modelli generalmente rinascimentali.  


Jean-Auguste-Dominique Ingres, L’odalisque à l’eslave (firmato e datato 1839 - olio su tela - cm 72x100), Fogg Art Museum, Cambridge (Stati Uniti). 


Jean-Auguste-DominiqueAutoritratto.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, La grande odalisca (1814 - olio su tela - cm 86x162), 

Parigi, Museo del Louvre.


Ingres, come ha scritto Giulio Carlo Argan, “È stato l’ultimo degli italianizzanti ma, più degli antichi studiava Raffaello, Bronzino, Poussin. Non è stato un neo-classico, del Neo-classicismo non accettava né la tendenza rivoluzionaria, davidiana, né la conservatrice, canoviana. Tra il suo ideale e l’ideale romantico di Delacroix v’era un contrasto che divenne ostinata, serrata polemica. Non aveva interessi ideologici e politici(...) Il soggetto, classico o romantico che fosse, non lo interessava, concepiva l’arte come pura forma(...) Per lui, dunque, il bello o la forma non è nella cosa in sé, ma nella relazione tra le cose. Questo insieme di relazioni sarà chiaro quando tutte le componenti della forma (linea, chiaroscuro, colore, luce) formeranno un tutto unitario, una sintesi.”

(…) «Non ci sono in questa figura (La Grande odalisca, n. d. a.) né ossa, né muscoli, né sangue, né vita, né rilievo, nulla infine di ciò che costituisce l’imitazione dal vero. La carnagione è grigia e monotona, non c’è neppure, a propriamente parlare, alcuna parte veramente saliente, tanto la luce è piatta, senza arte e senza cura.» (…)

C. P. Landon, Salon de 1819, in Annales du Musée.

 «Secondo noi, uno degli aspetti che innanzitutto distinguono il talento di Ingres, è l’amore per le donne. Il suo libertinaggio è serio, pieno di convinzione. Ingres non appare mai tanto a proprio agio ed efficiente come quando impegna il suo genio con le grazie di una giovane beltà. Muscoli, pieghe della carne, ombre delle fossette, ondulazioni della pelle: non manca nulla.» (…)

C. Baudelaire

 «”Sono un Gallo ma non di quelli che hanno saccheggiato Roma.” Fedele a se stesso fino all’ultimo, Ingres è l’artista che porta lo spirito del Neoclassicismo oltre l’età napoleonica, interpretando anche i temi più romantici in chiave classicheggiante. Il BAGNO TURCO esprime la sua capacità straordinaria di cogliere il reale in termini di pura pittura e di forma ideale. Le sue bagnanti e odalische sono figure ispirate a Raffaello, ma rese con una maggiore attenzione ai valori di superficie, alla luminosità intrinseca dei colori.»

F. Zeri 

© G. LUCIO FRAGNOLI

Vita in breve di Ingres         

Jean-Auguste-Dominique Ingres nasce a Montauban il 20 agosto del 1870. Figlio maggiore del pittore Jean-Marie-Joseph, è scolaro di David, a Parigi dal 1797.

Nel 1801 vince il Prix de Rome con il dipinto Achille e gli inviati di Agamennone. L’anno successivo apre un atelier nell’ex convento dei Cappuccini, giungendo presto ad una notorietà che gli permetterà di eseguire nel 1804 il ritratto di Napoleone I console e due anni dopo Napoleone in trono.

Nel 1810 risiede e lavora stabilmente a Roma e nel 1813 sposa Madeleine Chapelle. In un periodo che va fino al 1914 dipinge opere di grande effetto come il Sogno di OssianRaffaello e la FornarinaPaolo e Francesca e la Grande odalisca. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, lavora per una committenza ridotta e meno facoltosa.

Nel 1819 invia Ruggero e Angelica e la Grande Odalisca al Salon, riscuotendo giudizi poco favorevoli dalla critica.

Nel 1820 si trasferisce a Firenze e nel 1823 è eletto membro corrispondente dell’Accadémie des Beaux-Arts di Parigi. Dal 1824 è a Parigi e l’anno seguente vi apre uno studio in vie Visconti, ricevendo la Legion d’Onore e venendo anche eletto membro dell’Accadémie des Beaux-Arts.

Nel 1827 dipinge l’Apoteosi di Omero.

Nel 1834 Ingres è di nuovo a Roma come direttore dell’Accademia di Francia.

Nel 1841 ritorna a Parigi.

Nel 1849 muore la moglie, ma l’artista si risposa, due anni dopo, con Delphine Ramel. All’Esposizione universale del 1855 espone 43 dipinti in una sala a lui esclusivamente dedicata. Nel 1862 è nominato senatore.

Il 1867, alla sua morte, viene allestita una grande mostra in suo onore all’École des Beaux-Arts.

Bibliografia:

Annalisa ZanniI Gigli dell’ArteIngres, 1990, Cantini Editore, Borgo S. Croce, Firenze.

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Piero Adorno, L’arte italianaDal Settecento ai nostri giorni Vol. 3, 1994, D’Anna, Firenze.

Giorgio Cricco e Francesco Di Teodoro, Itinerario nell’arte Vol. 4°, Versione Arancione, Dal Barocco al Postimpressionismo, 2021, Zanichelli, Bologna.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

F. Zeri, Cento Dipinti, IngresBagno turco, 1998, Rizzoli, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 


lunedì 14 novembre 2022

IL BAGNO TURCO di Jean-Auguste-Dominique INGRES

 

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Bagno turco (1859 – 1863 olio su tela applicata su tavola firmato e datato: J. Ingres Pinxit MDCCLXII Aetatis LXXXII –, cm 108 di diametro), Musée du Louvre, Parigi.

Il dipinto, di formato rettangolare, fu iniziato prima del 1856 e completato soltanto nel 1859, per essere venduto al principe Napoleone Giuseppe Carlo Bonaparte (1822-1891) detto Plon-Plon, figlio di Girolamo Bonaparte, fratello minore di Napoleone Bonaparte. Ma appena l’anno appresso Bagno turco fu restituito all’autore, in cambio di un autoritratto di Ingres ventiquattrenne, dato che la moglie di Giuseppe Carlo, Maria Clotilde di Savoia, trovava l’opera scandalosa. Nel 1862 il pittore modificò il formato del quadro, da rettangolare a tondo, e nel 1864 lo vendette, per la cifra di 20.000 franchi, a Khalil Bey, ambasciatore turco a Parigi, che aveva una discreta collezione di nudi femminili. Dall’ambasciatore turco il quadro passò nelle mani di un noto collezionista e in seguito in quelle del principe de Broglie, per essere donato infine al Louvre, nel 1911, dagli Amici del Museo.

Lady Montague

Ingres non era mai stato in oriente, nell’oriente ottomano cui l’immagine si riferisce, ma si era avvalso di varie fonti ispiratrici, letterarie e iconografiche. La principale è senza dubbio l’opera dell’aristocratica poetessa e scrittrice Lady Mary Wortley Montague,  Letters of Lady Mary Wortley Montague (1800) tradotta e pubblicata in lingua francese nel 1805, col titolo Les lettres de Lady Montague, ambassatrice d’Angleterre à la Porte Ottomane, nella quale la scrittrice, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, descrive gli sconosciuti contesti dei bagni turchi della città o la realtà delle donne segregate nei ginecei delle nobili dimore mussulmane. Oltre alle lettere di Lady Montague, l’artista aveva pure attinto alle Cent estampes qui representént différentes nation du Levant Paris (1714-15) che lui possedeva, o alle molte incisioni o stampe che corredavano altri testi sull’oriente allora in circolazione.

Fotografia di Charles Marville (1813-1879) del 7 ottobre del 1858, che documenta la forma (rettangolare) iniziale del quadro

Nelle sue Letters, Lady Mary Wortley Montague descrive un bagno turco pieno di avvenenti donne nude, in atteggiamenti diversi, “alcune che chiacchieravano, altre indaffarate; alcune che prendevano il caffè o il sorbetto, altre lascivamente adagiate sui cuscini”.    

 

LETTURA DELLOPERA

Nel formato circolare e definitivo dell’opera l’artista immagina l’interno di un bagno turco affollato di opulente e oziose femmine nude. Che si tratti di un bagno ottomano ce lo spiega il titolo del quadro ma ce lo fa capire soprattutto lo spazio dipinto ove si rilassano le odalische, che consiste in un ampio salone dalle pareti di un verdognolo slavato, quasi muffoso, rappresentato in prospettiva frontale, con un punto di fuga abbastanza alto, come se la scena fosse osservata stando in piedi, dentro l’ambiente, al di qua del basso tavolino con le tazzine per il caffè e coi vaselli degli unguenti e dei profumi.

Al centro dell’ampio vano, dall’aria profumata e calda, c’è la vasca da bagno, stretta, ma lunga, presumibilmente, infossata nella pavimentazione verdolina e bianchiccia. Tutt’intorno alla vasca sono stesi tappeti ocra e amaranto e sono sistemati soffici divani porporini e cuscini setosi. Sulla parete di fondo, adombrata, quasi umidiccia, è scavata una nicchia con una grossa anfora smaltata e un portale di gusto arabo, che immette in un corridoio. Nel muro laterale, visto di scorcio, pure è ricavata una nicchia, ma vuota, priva di ornamenti.

All’interno di una tale e ben precisata ambientazione orientaleggiante, arricchita dal suddetto e minuto tavolino con graziose tazzine e boccette messo in primissimo piano, Ingres dispone i personaggi, tutti femminili, partendo dalla suonatrice di balalaika messa di spalle in primo piano, chiaramente ripresa dalla Baigneuse Valpinçon. Alla destra della musicante, sempre in primo piano, c’è una donna assopita che si copre gli occhi con una mano, di cui si vedono, però, soltanto la testa e le braccia. Sopra di lei un’altra formosa femmina si abbandona trasognata su un cuscino. Alle spalle della sognatrice altre due donne si abbracciano morbosamente, fissando la strumentista e ascoltando le note da lei prodotte. Dietro di loro una donna con le braccia conserte si fa profumare i capelli da una sua ancella, sotto lo sguardo di una serva paziente.

Al centro della sala una donna si sta immergendo nella vasca, mentre un’altra danza al ritmo di un tamburello suonato da una musicante nera, e un’altra donna in turbante si sta rivestendo, mentre lascia il bagno turco. In fondo all’ampia sala si affolla un gruppo di prosperose donne in posture impudiche e provocanti, dai gesti lenti e dagli sguardi illanguiditi. Tra di esse spicca la figura di una donna che posa un bicchiere da cui ha appena bevuto, dietro di lei si vede un’altra femmina che porta uno stuzzichino alla bocca.   

La luce, calda e ovattata, proviene dall’alto a sinistra e illumina il gruppo in primo piano, mentre appare più diffusa e tenue la luce che illumina il gruppo delle figure in secondo piano, contribuendo a creare una scena pervasa da grande sensualità. È uno spaccato intrigante e segreto di un oriente ottomano mai visto, ma soltanto immaginato dal pittore, in una libera e compiaciuta interpretazione delle informazioni a sua disposizione, piuttosto reinventato secondo la sua verace passione per le donne, secondo le sue voglie di insospettato voyeur e di inguaribile libertino. Bagno Turco è quindi il manifesto di un estetizzante erotismo e della bellezza carnale, di una bellezza femminile tutta ingresiana. 

Lo stile di Ingres appare come una perfetta combinazione di forma e volume, definiti da un tenue contrasto chiaroscurale e un contorno pulito e coerentemente modellato in un’idea di sintesi tra vero e ideale.   

Nel quadro si riconoscono Delphine Ramel, seconda moglie del pittore, nel personaggio col cappello, e Madeleine Chapelle, prima moglie di Ingres, nella donna distesa all’indietro con l’orecchino di perla.

Baigneuse Valpinçon

Ingres, come ha scritto Giulio Carlo Argan, “È stato l’ultimo degli italianizzanti ma, più degli antichi studiava Raffaello, Bronzino, Poussin. Non è stato un neo-classico, del Neo-classicismo non accettava né la tendenza rivoluzionaria, davidiana, né la conservatrice, canoviana. Tra il suo ideale e l’ideale romantico di Delacroix v’era un contrasto che divenne ostinata, serrata polemica. Non aveva interessi ideologici e politici(...) Il soggetto, classico o romantico che fosse, non lo interessava, concepiva l’arte come pura forma(...) Per lui, dunque, il bello o la forma non è nella cosa in sé, ma nella relazione tra le cose. Questo insieme di relazioni sarà chiaro quando tutte le componenti della forma (linea, chiaroscuro, colore, luce) formeranno un tutto unitario, una sintesi.”

 

(…) «Non ci sono in questa figura (La Grande odalisca, n. d. a.) né ossa, né muscoli, né sangue, né vita, né rilievo, nulla infine di ciò che costituisce l’imitazione dal vero. La carnagione è grigia e monotona, non c’è neppure, a propriamente parlare, alcuna parte veramente saliente, tanto la luce è piatta, senza arte e senza cura.» (…)

C. P. Landon, Salon de 1819, in Annales du Musée.

 «Secondo noi, uno degli aspetti che innanzitutto distinguono il talento di Ingres, è l’amore per le donne. Il suo libertinaggio è serio, pieno di convinzione. Ingres non appare mai tanto a proprio agio ed efficiente come quando impegna il suo genio con le grazie di una giovane beltà. Muscoli, pieghe della carne, ombre delle fossette, ondulazioni della pelle: non manca nulla.» (…)

C. Baudelaire

 «”Sono un Gallo ma non di quelli che hanno saccheggiato Roma.” Fedele a se stesso fino all’ultimo, Ingres è l’artista che porta lo spirito del Neoclassicismo oltre l’età napoleonica, interpretando anche i temi più romantici in chiave classicheggiante. Il BAGNO TURCO esprime la sua capacità straordinaria di cogliere il reale in termini di pura pittura e di forma ideale. Le sue bagnanti e odalische sono figure ispirate a Raffaello, ma rese con una maggiore attenzione ai valori di superficie, alla luminosità intrinseca dei colori.»

F. Zeri 

© G. LUCIO FRAGNOLI

                                                         

Vita in breve di Ingres         

Jean-Auguste-Dominique Ingres nasce a Montauban il 20 agosto del 1870. Figlio maggiore del pittore Jean-Marie-Joseph, è scolaro di David, a Parigi dal 1797.

Nel 1801 vince il Prix de Rome con il dipinto Achille e gli inviati di Agamennone. L’anno successivo apre un atelier nell’ex convento dei Cappuccini, giungendo presto ad una notorietà che gli permetterà di eseguire nel 1804 il ritratto di Napoleone I console e due anni dopo Napoleone in trono.

Nel 1810 risiede e lavora stabilmente a Roma e nel 1813 sposa Madeleine Chapelle. In un periodo che va fino al 1914 dipinge opere di grande effetto come il Sogno di Ossian, Raffaello e la Fornarina, Paolo e Francesca e la Grande odalisca. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, lavora per una committenza ridotta e meno facoltosa.

Nel 1819 invia Ruggero e Angelica e la Grande Odalisca al Salon, riscuotendo giudizi poco favorevoli dalla critica.

Nel 1820 si trasferisce a Firenze e nel 1823 è eletto membro corrispondente dell’Accadémie des Beaux-Arts di Parigi. Dal 1824 è a Parigi e l’anno seguente vi apre uno studio in vie Visconti, ricevendo la Legion d’Onore e venendo anche eletto membro dell’Accadémie des Beaux-Arts.

Nel 1827 dipinge l’Apoteosi di Omero.

Nel 1834 Ingres è di nuovo a Roma come direttore dell’Accademia di Francia.

Nel 1841 ritorna a Parigi.

Nel 1849 muore la moglie, ma l’artista si risposa, due anni dopo, con Delphine Ramel. All’Esposizione universale del 1855 espone 43 dipinti in una sala a lui esclusivamente dedicata. Nel 1862 è nominato senatore.

Il 1867, alla sua morte, viene allestita una grande mostra in suo onore all’École des Beaux-Arts.

Bibliografia:

Annalisa Zanni, I Gigli dell’Arte, Ingres, 1990, Cantini Editore, Borgo S. Croce, Firenze.

Hugh Honour, Neoclassicismo, 1980, Einaudi, Torino.

Piero Adorno, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni Vol. 3, 1994, D’Anna, Firenze.

Giorgio Cricco e Francesco Di Teodoro, Itinerario nell’arte Vol. 4°, Versione Arancione, Dal Barocco al Postimpressionismo, 2021, Zanichelli, Bologna.

G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

F. Zeri, Cento Dipinti, Ingres, Bagno turco, 1998, Rizzoli, Milano.

Autori Vari, Storia universale dell’arte. Il XX secolo,1991, De Agostini, Novara.

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