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giovedì 9 dicembre 2021

LA CANZONE DI LOLA, il thriller mozzafiato di G. LUCIO FRAGNOLI

In copertina: Lola, ready-made portrait, G. Lucio Fragnoli


 

LA CANZONE DI LOLA  - 370 pagine - Edizioni Emmegi s.r.l. 

ISBN 979122086241 


RECENSIONE DI ANDREA CONTE

Si intitola La canzone di Lola, l'avvincente romanzo pubblicato agli inizi di questo mese da Giuseppe Lucio Fragnoli, con Edizioni Emmegi di Castelforte e acquistabile in ebook sui maggiori store librari on line (Mondadoristore.it, IBS, Feltrinelli.it, eccetera). In realtà si tratta di una riedizione di un libro già pubblicato nel 2005, ma rivisto e ampliato, con una nuova impaginazione e una nuova grafica di copertina. La storia inizia da tre spietati e stranissimi omicidi, portati a termine in terra pontina, ma rimasti impuniti. Lo scrittore Gino Spirito, esperto di delitti e di altre questioni malavitose, se ne occupa per conto di un noto programma televisivo. 

Nel tentativo di ricostruire il mistero che li circonda, tra un’avventura sentimentale e l’altra, il criminologo e consulente redattore si imbatte però in una brutta vicenda, che finisce per incrociarsi pericolosamente con il suo amato lavoro e con la sua tranquilla vita di romanziere minore. Il pasticciaccio criminale e sanguinario all’italiana, un po’ come i western-spaghetti, si sviluppa tra Latina e Marina di Minturno, in uno scenario di luoghi esistenti che, per necessità narrative, sono stati talvolta trasformati dall’autore. Tra tutte le ambientazioni, la meglio riuscita è sicuramente quella della casa al mare del protagonista, situata in una fitta pineta, che in verità non esiste più da molto tempo. 

Così come sono tutti di completa invenzione i personaggi, principali e non, comparse comprese, tutti esclusivamente funzionali alla messinscena scrittoria e al messaggio complessivo racchiuso nel romanzo. Ne La canzone di Lola Fragnoli affronta, secondo una sua personalissima convinzione, il complicato tema della diversità, in una lunga narrazione che si dipana su due binari paralleli e differenti:  primo, la quotidiana commedia del protagonista, alla ricerca continua di un’avventura sentimentale e di una storia da raccontare; secondo, l’inesorabile tragedia che si compie intorno a lui, la storia dello spietato killer Lola, dai risvolti incredibili e crudeli insieme, rappresentata finanche in video da quel complesso di specialisti che chiamiamo banalmente informazione, in mondo ipocrita e falsificato. 

Non mancano, ovviamente, altri spunti che potranno far riflettere il lettore, come, per esempio, il mutato rapporto tra uo­mini e donne, che risente, come ogni altro fenomeno sociale, dei modelli imposti dai mezzi di comunicazione, della mag­giore libertà individuale, dello sconvolgimento dei costumi tradizionali e degli stili di vita. 


L'autore G. Lucio Fragnoli

Giuseppe Lucio Fragnoli è nato a Castelforte (LT) il 12 dicembre 1956. Laureato in Architettura, è docente e scrittore. Insegna Disegno e Storia dell’arte al Liceo Scientifico Statale L.B. Alberti di Minturno (LT). Ha pubblicato i romanzi: La festa dei cani (1999), Quell’ impicciatissima vicenda di donne diavoli e altre stranezze (2000), Miracolo al bar (2001), Ottocento (2002), Tutta colpa di Capuozzo (2002), Nero napoletano (2003), La canzone di Lola (2005), Una balorda faccenda di camorra rifacimento di Nero napoletano(2008), Edwige salvami (2010), La festa dei cani – rifacimento(2013), Il tempo magico – rifacimento di Miracolo al bar – (2017), La Dea Terra (2017), Noir napoletano – secondo rifacimento di Nero napoletano (2018), La Gialla Rosa del Papuk – rifacimento di Quell’impicciatissima vicenda di donne diavoli e altre stranezze  – (2019), Ottocento – rifacimento (2020), La festa dei cani – riedizione(2021), la raccolta di racconti Storie crudeli (2012) e il saggio critico Caravaggio e le Storie di San Matteo (2018). Ha pubblicato, inoltre, propri racconti nelle antologie Giallo Latino V Edizione, I Racconti di Sabaudia 2006, Racconto Latina 2006. Ha ottenuto vari riconoscimenti in importanti concorsi letterari.



Avevo visto Lola camminare con l’impalpabilità di un fantasma, lungo il viale deserto di una città sconosciuta e avvolta dalla nebbia della sera. L’ho vista poi salire su un tram svuotato e dai vetri appannati, che ha percorso un immenso quartiere spopolato, fino all’ultima fermata, dov’è scesa. Ha camminato ancora, con passo leggero, col vento che le accarezzava i capelli, lungo una stradina buia e silenziosa. Ha varcato un alto e lugubre portale, il portale di un cimitero, per arrestarsi infine davanti alla sua stessa tomba, illuminata dalle luminescenze deboli e tremolanti di alcuni ceri. Era scesa all’ultima fermata del tram della vita. Poi una tomba, oltre quella...  


mercoledì 24 novembre 2021

LA PRIMAVERA di BOTTICELLI, il quadro più misterioso del Rinascimento.



La Primavera (1482 ca.) - tempera su tavola (314 x 203 cm) – Firenze, Galleria degli Uffizi

 

ANALISI DELL’OPERA

La Primavera, eseguita intorno al 1482, fu molto probabilmente commissionata dal Magnifico come dono per le nozze del cugino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici con Semiramide Appiani, o direttamente dallo stesso Lorenzo di Pierfrancesco.

L’opera, che rispecchia l’altezza culturale del rinascimento fiorentino e la raffinatezza intellettuale dell’autore, è stata oggetto di varie letture e interpretazioni. Tra le quali, per un certo periodo, ha riscosso molto credito quella di Ernst Gömbrich, secondo cui La Primavera è ricavata da un passo de L’Asino d’oro, di Lucio Apulèio, dove il protagonista della storia, trasformato in asino, assiste a una rappresentazione del Giudizio di Paride in cui compaiono i personaggi del quadro botticelliano.

Secondo altri e, tanto per fare un altro esempio, la composizione sarebbe stata tratta da alcuni versi delle Stanze per la giostra del Poliziano, ispirati sempre al romanzo di Apulèio.

Di tutte quante le interpretazioni, io ritengo anche plausibile quella avanzata dal compianto professor Federico Zeri. Ossia che l’immagine sia stata desunta da un brano dell’opera in latino De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capèlla, che novella delle nozze tra Filologia e Mercurio e che la Primavera sarebbe la personificazione della retorica.

Si tratterebbe comunque di un quadro nuziale, ove alcuni storici dell’arte hanno identificato Lorenzo di Pierfrancesco in Mercurio e Semiramide Appiani nella figura centrale, la Castità, delle Grazie danzanti.

La scena si svolge in un giardino fiorito, contornato da aranci pieni di frutti, che evoca probabilmente il mitico giardino delle Esperiti, i cui pomi d’oro erano identificati nel rinascimento con le arance, pomi che ricordano non a caso quelli dello stemma dei Medici. Oltre i tronchi degli aranci, appena si intravede un luminoso paesaggio, che si estende un discreto effetto di profondità.

In una visione quasi bidimensionale, Botticelli colloca nove personaggi sapientemente disposti nello spazio del quadro intorno alla figura centrale di Venere, simbolo stesso della primavera e che, in questo caso, coincide anche con la Venus - Humanitas, emblema di ricercatezza e cultura, qualità queste di cui Lorenzo di Pierfrancesco era sicuramente sprovvisto.

La composizione, come ha scritto Giulio Carlo Argan, segue un andamento metrico e ritmato, assolutamente analogo a quello della poesia, e va letta da destra verso sinistra. Cala dall’alto, a destra della tela, emergendo tra i rami Zefiro, dall’aspetto azzurrognolo, che ghermisce la ninfa Clori, estatica sonnambula, e con il suo soffio la feconda, trasformandola in Flora, dea portatrice della Primavera, che avanza con passo balzante da lunghe pause ritmiche.

Al centro vi è Venere, nondimeno intesa in senso neoplatonico come divinità dell’amore spirituale che induce al bene, con alle spalle il mirto a lei sacro, simbolo del matrimonio, e l’alloro che allude a Lorenzo.

Sopra di lei il figlio Cupido, con gli occhi bendati, sta per scoccare una delle sue frecce stregate verso il gruppo delle Grazie danzanti (Thaìla, Aglàia, Eufròsine) , che simboleggiano la voluttà, la castità, e la bellezza (Voluptas, Castitas e Pulchritudo), ma anche l’amore che si dona, che si riceve e che si restituisce.

Esse, come ha scritto Roberto Longhi, sono riprese nell’alto dalla posa unica delle tre mani intrecciate, dopo esser state commentate per tutto il proprio sviluppo dalla fiamma marginale cadente dei panneggi di velo! Completa la composizione Mercurio, coi calzari alati e col pètaso del viaggiatore, il quale scaccia con il suo caduceo le nuvole della brutta stagione e dell’infelicità.

 

SULLO STILE DI BOTTICELLI

Nelle figure delle Grazie si colgono meglio che altrove gli elementi dello stile di Botticelli. Ed infatti, scrive Giulio Carlo Argan: Mai come qui è evidente, nella ritmica botticelliana, il ricordo di Agostino di Duccio: i moti di quei veli sembrano addirittura contorcersi, se non sul piano, in una profondità minima, come nei rilievi “neo-attici” di Rimini. E, come in quei rilievi, i corsi e ricorsi della linea tendono a sottilizzare la materia, a darle la sostanza imponderabile della luce: più precisamente a “farsi” luce e non a “ricevere” la luce. È attraverso quei ritmi lineari che le figure raggiungano una condizione perfetta, quasi teorica, di diafanità; e di fatto rimarginano i margini di maggior trasparenza dei veli. (…)

Per la prima volta, le figure non sono più definite da una sola linea, ma da più linee, tra le quali è impossibile stabilire quale veramente determini il contorno del corpo… Sullo stile di Botticelli, prima di Argan, Roberto Longhi aveva annotato: La sensualità malata di Botticelli – si è detto, e molto altro ancora: tutto ciò non è infine che il portato inevitabile della linea funzionale ritmica e null’altro; ed è probabilmente portato involontario, come sempre avviene per i puri pittori. L’affinamento ritmico di un’apparenza corporea invincibilmente vitale non può condurre che a questo eccezionalissimo risultato, il quale va perciò riportato e goduto – sempre nel suo carattere di espressione puramente figurativa…

 

SULLA COLLOCAZIONE DELL’OPERA

La collocazione originaria del dipinto era nel Palazzo in Via Larga, e solo successivamente fu trasferito in Villa di Castello, dove lo vide Giorgio Vasari, nel 1550, messo vicino alla Nascita di Venere. Il titolo con il quale è conosciuto il dipinto deriva proprio dalla notazione vasariana: Venere che le grazie la rifioriscono, denotando la Primavera. Nel 1853 il quadro si trovava alla Galleria dell’Accademia, per essere studiato dai giovani artisti della scuola. Nel 1919 venne definitivamente portato agli Uffizi.

 

IL GIARDINO DELLE ESPERITI

Le Espèriti, figlie della notte, sono tre: Espere, Egle, Erizia. Custodiscono con il serpente Ladone l’isola – giardino sita all’estremo occidente del mondo. Nel giardino cresce l’albero dei pomi d’oro.

 

LE GRAZIE O CARITI

Il nome di Cariti deriva da chairein, ossia rallegrarsi. Figlie di Giove ed Eurinome, esse erano: Aglaia (ornamento), Eufrosine (gioia) e Talia (pienezza). Da loro dipendeva la piacevolezza della vita e dei rapporti umani, legati alla gentilezza dei modi, alla buona conversazione ed alla raffinatezza di spirito. Per tutto ciò venivano sempre associate sia alla dea Afrodite, sia al dio Apollo. Il loro culto era diffuso specialmente ad Orcomene in Boezia, ma erano venerate in altre città greche. Chiamate col nome di Grazie dai romani, in origine venivano rappresentate vestite, poi ricoperte di veli ed infine nude.    

 

BIBLIOGRAFIA. Breve ma veridica storia della pittura italiana, Roberto Longhi, Sansoni; Dei e Miti, A. Morelli, Melita; Botticelli, Giulio Carlo Argan, SKIRA; Botticelli, Marco Albertario, Elemont Art; Vivere l’arte, Fumarco – Beltrame, Mondatori; Itinerario nell’arte, Cricco – Di Teodoro, Zanichelli; Figura, Bernini – Rota, Laterza; Cento Dipinti: La Primavera, Federico Zeri, Rizzoli.

© Giuseppe Lucio Fragnoli


domenica 24 ottobre 2021

IL TRIONFO DI VENERE di François Boucher

  

François Boucher (1703 -1770), Trionfo di Venere, 1740, olio su tela, 130 x 162 cm – Stoccolma, Museo Nazionale.

ANALISI DELL'OPERA

Il dipinto era di proprietà del conte Carl Gustaf Tessin, che lo aveva acquistato durante un soggiorno a Parigi, e che in seguito, per far fronte ai suoi problemi finanziari, vendette al re di Svezia.

Secondo la mitologia greca, da dea orientale della fecondità, si combina col culto di una antica divinità locale legata piuttosto alla terra. In Omero Afrodite è figlia di Zeus e di Dione. Per Esiodo la dea appartiene completamente al mondo greco. Infatti, egli racconta che Crono recise il membro del dio del Cielo, Urano, impegnato in un amplesso con la Terra.  Il fallo mozzato, galleggiando sulle onde si tramutò in candida spuma, da cui si generò la creatura divina.

Il dipinto contiene molti elementi della visione pittorica rococò francese; ossia, un senso di moto ampolloso e decorativo, e nondimeno vorticoso, la teatrale e scenografica disposizione dei personaggi, il colorismo tenue e luminoso, un evidente e gaia sensualità, la natura capricciosa e perfettamente coinvolta nella messinscena pittorica, ma anche permeata da un forte senso di grandiosità.

In un esuberante volteggio di amorini e nello svolazzo di un prezioso drappo, la dea Venere, coi capelli acconciati in una coroncina perlacea, è seduta su un trono galleggiante, su cui sono stese le proprie vesti e sulla cui base sono appollaiati dei bianchi gabbiani. Una naiade, sollevata verso di lei da un forzuto tritone, porge alla dea una fonda conchiglia argentea ricolma di collane di perle per adornarsi, mentre intorno al suo sontuoso piedistallo altre naiadi e amorini cavalcano grossi pesci e si sollazzano nel turbinio dei flutti schiumosi. Una di esse, distesa sulla schiena e cullata dalle onde si abbandona in un gesto licenzioso, mentre alle sue spalle un tritone apre – allusivamente, forse? – una conchiglia, e un altro soffia in un corno, evocandone il suono stridente nel fragore marino e in riverberi di altri suoni lontani, provenienti dal profondo paesaggio, mitico e impetuoso, che richiama alla mente luoghi arcaici e dominati da forze arcane. Si tratta di una rappresentazione della natura in una dimensione di sublimità, che anticipa gli immaginifici contesti ossianici poetati da James Mcpherson. Nella celebrazione della più bella tra le dee, Boucher ci esorta dunque alla ricerca dell’amore, del piacere e della felicità, o meglio, del diritto alla felicità. Tutto ciò ci fa capire come il Trionfo di Venere sia un quadro fondamentale per cogliere correttamente il senso veridico della pittura rococò, troppo snobbata oggigiorno nella nostra riduttiva idea – politicamente corretta – di modernità. Tale idea, o meglio, tale pregiudizio non ci permette di conoscere fino in fondo il XVIII secolo e i futuri sviluppi di molti temi romantici e persino di quelli troppo attuali. Va da sé che nel magico mondo della pittura tutto scorre in modo circolare con un ciclico ed eterno ritorno di temi, pensieri e visioni.       

VITA IN BREVE DI FRANCOIS BOUCHER

François Boucher nacque a Parigi nel 1703, figlio di un artigiano, ed ebbe come primo maestro François Lemoyne. A diciassette anni lavorò nella bottega dell’incisore Jean-François Cars, divenendo l’incisore delle opere di Antoine Watteau. Ottenne il premio dell’Accademia, nel 1723, esponendo anche un grande successo per la sua prima esposizione pubblica. Nel 1727 si recò in Italia, dove restò fino al 1731, per perfezionare la sua formazione. Nel 1734 fu ammesso all’Accademia. Dal 1740 espose regolarmente al Salon, guadagnandosi frattanto il titolo di decoratore capo della Reale accademia di Musica, dal 1744 al 1748. Nel 1765 fu nominato primo pittore, pur godendo da tempo di un alloggio al Louvre. Ma l’avversione degli intellettuali illuministi lo condannò all’emarginazione, portandolo alla tomba. Morì nel 1770.  

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.


© G. LUCIO FRAGNOLI


LA PORTA DI CALAIS – O the Roast Beef of Old England – di William Hogarth, un'astiosa satira dipinta


William Hogarth (1703 -1770), La Porta di Calais, 1748, olio su tela, 80 x 96 cm – Londra, Tate Britain.

 

ANALISI DELL'OPERA

La Porta di Calais o Il roastbeef della vecchia Inghilterra fu dipinto da William Hogarth dopo un viaggio a Parigi, fatto con altri amici artisti nel luglio del 1748, approfittando dell’armistizio che precedette la firma del Trattato di Aix-la-Chapelle, che pose fine alla guerra di successione austriaca, in cui Francia e Gran Bretagna erano schierate l’una contro l’altra. Di rientro dal viaggio, a Calais, mentre aspettava di imbarcarsi per l’Inghilterra, Hogarth stava disegnando la porta della zona portuale adornata dall’insegna inglese – dato che fino al 1558 quel sito era stato territorio britannico –, quando fu arrestato dalle guardie francesi con l’accusa di spionaggio e portato al cospetto del governatore. Trattenuto e interrogato, dimostrò, disegnando degli sbrigativi schizzi caricaturali, che era soltanto un artista. Cosicché fu così rilasciato. Poco tempo dopo il suo ritorno in patria Hogarth pensò di realizzare un quadro astioso e derisorio su quanto era gli era accaduto, cui seguì, un anno appresso, la stesura di un’incisione di identico soggetto.    

Nella scena, parecchio grottesca e dileggiante, pensata dal pittore e incisore, si vede, in posizione centrale, un garzone che imbraccia un controfiletto di manzo. Lo sta portando a una locanda inglese del porto, il Lion d'Argent, per essere cucinato, sotto gli occhi di un corpulento frate famelico, che ne desidererebbe mangiare a sazietà. Due soldati, dall’aspetto caricaturale, con le divise bisunte e lacere, stanno mangiando il rancio appena servito loro da due cucinieri, anch’essi brutti e malvestiti, con ai piedi degli zoccoli di legno. Stanno portando anche agli altri il loro pasto, una brodaglia melmosa e rancida. In primo piano, c’è un esule scozzese, certamente coinvolto nell’insurrezione giacobita del 1745. È seduto in terra, indebolito dalla misera gastronomia francese, una cipolla e una fetta di pane ammuffito. Dalla parte opposta delle monache dai lineamenti da streghe, accovacciate intorno a una cesta con dei pesci, pregano, rivolte verso la faccia disgustosa di una razza. E in ciò vi è quindi una chiara allusione al pesce che simboleggia il Cristo Figlio di Dio Salvatore. Dietro di esse e di una bancarella d’ortaggi si vede Hogarth che disegna il massiccio portale. Alle sue spalle, però, c’è un militare armato di alabarda che gli mette una mano sulla spalla e che di lì a poco lo arresterà. 

Oltre la grata sollevata della porta si vedono due preti e un chierichetto, presso una locanda che ha una colomba per insegna, che celebrano la messa, tra alcuni fedeli inginocchiati – in tutta la scena si allude, sicuramente, all’eucarestia –. Sulla croce posta alla sommità del muro di cinta del porto si vede un corvo, simbolo di eventi nefasti e infernali, in luogo della colomba della pace. Da tutto questo si evince il carattere anche alquanto blasfemo del dipinto, oltre che denigratorio dei francesi. Difatti, il titolo secondario, O, il roast beef della vecchia Inghilterra, è tratto da una ballata che afferma di come il cibo ha nobilitato i nostri cervelli e arricchito il nostro sangue e ha riso della Francia tutta vaporosa 

    Vita di Hogarth in breve

Hogarth nasce nel 1697 a Londra, il 1° novembre. Nel 1721 inizia la sua attività di incisore. Nel 1729 sposa Jane Thornhill. Nel 1731 dipinge il ciclo Carriera di una prostituta. Nel 1735 completa il ciclo Carriera di un libertino. Nel 1736 inizia a lavorare al ciclo dei Quattro tempi della giornata. Nel 1744 dipinge il ciclo Matrimonio alla moda. Nel 1745 dipinge il ciclo Matrimonio felice. Nel 1753 pubblica il saggio estetico Analisi della bellezza. Nel 1754 dipinge il ciclo Campagna elettorale. Nel 1757 è nominato consigliere dell’Accademia Imperiale di Germania e sopraintendente, in Inghilterra, delle opere di Sua Maestà. Nel 1764 muore, il 25 ottobre.


William Hogarth, Ritratto di Francis Dashwood 

Nel dipinto Francis Dashwood è rappresentato come un San Francesco in estasi. Ma come si vede è in adorazione di una dea Venere posta su una croce. Francis Dashwood fondò, nel 1755,  il famoso Hell-fire Club, oppure Monaci dell’abbazia di Medmenham. L’abbazia di Medmenham, precedentemente appartenente all’ordine cistercense, era sita sulle rive del Tamigi, dove gli adepti si divertivano con oscene parodie di riti religiosi, e con orge di ubriachezza e dissolutezza. Pare che anche Hogarth facesse parte di tale setta.

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© G. LUCIO FRAGNOLI

 


martedì 19 ottobre 2021

RAGAZZA COL TURBANTE o RAGAZZA CON ORECCHINO DI PERLA di Johannes Vermeer


Johannes Vermeer (1632 -1675), La ragazza con l’orecchino di perla, (1665), olio su tela, 44.5 x 39 cm – L’Aia, Mauritshuis.

Il quadro, oggi noto soprattutto col titolo di Ragazza con orecchino di perla, per via di una recente opera cinematografica dedicata all’autore, e piuttosto nominato come Ragazza con turbante, o per essere più precisi Mezzo busto (o testadi ragazza con turbante (o con perla all’orecchino) è firmato sul bordo superiore a sinistra della tela. Secondo alcuni la modella sarebbe l’ultima figlia di Vermeer, ma quest’ipotesi è dalla gran parte degli storici respinta. Il turbante indossato dalla ragazza, verosimilmente, faceva parte dei costumi turchi lasciati dall’autore alla sua morte. Risulta poco probabile che il dipinto fosse stato venduto all’asta allestita con le opere dello scomparso collezionista Jacob Abraham Dissius del 1696, come l’opera che recava la dicitura Busto in costume antico; estremamente artistico. In tempi successivi, nel 1882, il dipinto in questione comparve alla vendita Braam svoltasi ad Amsterdam, e fu acquistata per poco più di 2 fiorini da un acquirente registrato col nome di A. A. des Tombe, che nel 1903 lo donò al Mauritshuis  

ANALISI DELL’OPERA

Si tratta di un dipinto di piccolo formato che ritrae una ragazza dai tratti assai gentili su fondo scuro, che indossa una veste giallo senape dal colletto bianco e un turbante turchese giallo e azzurro, intonato all’abito, con un orecchino di perla all’orecchio, che le abbellisce il bel volto dalla pelle chiara. Il personaggio ha il corpo disposto di profilo, mentre il capo è volto di tre quarti. E guarda con un’espressione incolpevole, ma accattivante e vagamente indecifrabile, l’osservatore, in una posa del tutto naturale. L’immagine ha un taglio, dico tanto per farmi capire, fotografico, e riproduce l’essenziale – il volto della giovane agghindata all’orientale – in cui non vi è nessuna idea di spazio, solo uno sfondo buio, per isolare da ogni superflua entità il viso della misteriosa giovinetta, detta la gioconda del nord, per l’intrinseco magnetismo che la pervade, ma che comunque ha poco o nulla in comune alla Monna Lisa di Leonardo. Ecco dunque che l’unico elemento che resta a disposizione del maestro è la luce, la magica luce di Vermeer. È una luce morbida, calda, quella che fluisce quasi orizzontalmente verso la figura, la vera protagonista del dipinto. È una luce diffusa e naturale quella che le accarezza il viso, che sembra quasi risplendere di luce propria, così come sembrano brillare di luce propria le pupille e le tenere labbra color rosso ciliegio, come fossero gioielli, al pari della preziosa perla che le pende dall’orecchio, che vivificano la dolce donna in turbante. Una fusione di perle macinate, la definì un illustre critico, non proprio a torto.

  

 Johannes Vermeer (1632 -1675), La ragazza con l’orecchino di perla, particolare – L’Aia, Mauritshuis.

Ritratto di Johannes Vermeer.


Johannes Vermeer (1632 -1675), La ragazza con l’orecchino di perla con la sua cornice – L’Aia, Mauritshuis.

Johannes Vermeer, Ragazza con velo.

 L’Aia, Mauritshuis. 

VITA DI JOHANNES VERMEER

Johannes Vermeer nasce a Delft, nell’anno 1632. Nel 1653 sposa Catharina Bolnes, di ricca famiglia cattolica. Per poterla sposare l’artista si converte al cattolicesimo. Nello stesso anno è accettato nella ghilda dei pittori della città di Delft. Nel 1654 avviene la disastrosa esplosione della polveriera di Delft, che causa danni anche alla locanda del padre, che commercia anche quadri e che muore l’anno successivo. Nel 1657 Vermeer è in difficoltà economiche e deve servirsi di un prestito di 200 fiorini. Nel 1662 è eletto vice decano nella ghilda di San Luca. Nel 1670 muore la madre e il pittore eredita la locanda di famiglia. Nel 1672 scoppia la guerra d’Olanda. I francesi invadono i Paesi Bassi, dando luogo a saccheggi e devastazioni, ponendo fine a quella che gli storici chiamano età dell’oro della pittura fiamminga, in cui sono state prodotte più di 5 milioni di opere di vario genere. Nel 1675 Johannes Vermeer, in serie difficoltà economiche, muore, il 15 dicembre. Due anni dopo la morte dell’artista, sua moglie Catharina Bolnes ne ricorda le complicazioni degli ultimi anni di vita, scrivendo: “Nel corso della lunga e rovinosa guerra con la Francia, egli non solo non aveva potuto vendere i suoi quadri, ma per di più, con suo gran danno, i dipinti degli altri pittori che commerciava erano rimasti invenduti. Per via del grande carico dei figli [Vermeer aveva 11 figli], non avendo personali mezzi di fortuna, era caduto in un tale stato di ansietà e di decadimento che in un giorno, un giorno e mezzo era passato da uno stato di buona salute alla morte.”

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

SILVIA DANESI SQUARZINA, Vermeer, Giunti, Firenze,1990.

PIERO BIANCONI, Vermeer. Rizzoli, Milano,1996.


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© G. LUCIO FRAGNOLI

L’ODALISCA BRUNA di François Boucher

 François Boucher (1703 -1770), L’odalisca bruna, 1745, olio su tela, 53 x 64 cm – Parigi, Louvre.

ANALISI DELL'OPERA

Il dipinto rappresenta la moglie dell’artista in una posa inconsueta quanto originale, a pancia in sotto, sicuramente alquanto provocante. È una raffigurazione che rientra nel genere molto praticato dai pittori rococò, quello della scena galante, ossia di ordinari momenti di vita mondana di persone dell’alta società. A tale genere appartengono, per esempio, soggetti tipo dame alla toletta o impegnate in futili passatempi, allusive di intrighi sentimentali e di sotterfugi erotici, col coinvolgimento di mariti e amanti, come ne L’altalena di Jean-Honoré Fragonard. Era la trasposizione pittorica, in tutte le sue sfaccettature, di quella douceur de vivre che pervadeva il tempo del rococò, perfettamente espressa da Antoine Watteau in Pellegrinaggio a Citera, o Imbarco per Citera, due dipinti quasi identici, pervasi da una spensierata passionalità e leggerezza.

Nell’opera, la giovane donna – un’odalisca assai improbabile –, dalle lattee e morbide carni, è comodamente distesa a ventre in giù su un ammucchiamento di soffici cuscini e materassi, con le gambe aperte e col sederone in bella mostra. Con la candida sottoveste tirata sulla schiena, fissa il riguardante con un’espressione sottilmente compiaciuta e con malcelata malizia. L’avvenente e prosperosa femmina abbraccia mollemente un cuscino, mentre con una mano tiene gentilmente una collanina di perle. Una seconda collana di perle, una piuma purpurea e una ciocca di finti capelli biondi le tengono la capigliatura bruna raccolti sulla nuca, lasciando completamente scoperti il collo e il viso dai lineamenti delicati, impreziosito da un orecchino perlaceo a goccia che le pende dall’orecchio, dalle labbra color ciliegia e dagli occhi splendenti. 

Una luce vivida e diffusa inonda lo sfarzoso giaciglio e rifulge sul tenero incarnato, che cattura lo sguardo per l’effetto di vivezza e di un colorismo pulito e luminoso, sapientemente raffinato, dove le tinte chiare e calde ben si accordano col blu vellutato dell’enorme drappo che si stende come una armonica cascata dalla parete al materasso, in un effetto di scenografica e invitante alcova. Su un tavolinetto basso, dove l’artista ha posto la propria firma, sono poggiati un portagioie e una boccetta di essenze odorose, allusive alla pelle fresca e profumata, splendente e preziosa. 

Tutto riporta a un erotismo voluto e dichiarato, ove non traspare però una manifesta volgarità e viziosità, che restano garbatamente vinte dalla rara e tangibile bellezza e dalla soave carnalità della donna, dipinta magistralmente in un alone di stregata e stuzzicante seduzione, in un sincero invito al piacere e a godersi la vita.

François Boucher (1703 -1770), Ragazza distesa, o Odalisca bionda o Marie-Luise ‘O Murphy, 1751, olio su tela, 59 x 73,5 cm – Colonia, Wallraf-Richartz-Museum

Gustav Lundberg, Ritratto di François Boucher, 1741 olio su tela, Collezione privata.


VITA IN BREVE DI FRANCOIS BOUCHER

François Boucher nacque a Parigi nel 1703, figlio di un artigiano, ed ebbe come primo maestro François Lemoyne. A diciassette anni lavorò nella bottega dell’incisore Jean-François Cars, divenendo l’incisore delle opere di Antoine Watteau. Ottenne il premio dell’Accademia, nel 1723, esponendo anche un grande successo per la sua prima esposizione pubblica. Nel 1727 si recò in Italia, dove restò fino al 1731, per perfezionare la sua formazione. Nel 1734 fu ammesso all’Accademia. Dal 1740 espose regolarmente al Salon, guadagnandosi frattanto il titolo di decoratore capo della Reale accademia di Musica, dal 1744 al 1748. Nel 1765 fu nominato primo pittore, pur godendo da tempo di un alloggio al Louvre. Ma l’avversione degli intellettuali illuministi lo condannò all’emarginazione, portandolo alla tomba. Morì nel 1770.  

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI.  









© G. LUCIO FRAGNOLI


sabato 24 luglio 2021

FANCIULLE SULLA RIVA DEL MARE di PIERRE PUVIS DE CHAVANNES


Pierre Puvis de Chavannes (1824 -1898), Fanciulle in riva al mare (Jeunes filles au bord de la mer), 1879, olio su tela, 61 x 47 cm – Parigi, Museé d’Orsay.

Pierre Puvis de Chavannes, Fanciulle in riva al mare, Particolare.

Pierre Puvis de Chavannes è artista della sottrazione, della semplificazione, inventore di motivi che sembrano venire dal fondo eterno della tradizione. La poesia parnassiana, con l’evocazione di un’Ellade intesa come immagine di un passato innocente, è per lui esempio suggestivo. Il richiamo di una perduta età dell’oro si veste del sentimento di vaga malinconia che pervade le Egloghe virgiliane. Lecomte de Lisle ne individua la lontananza e Baudelaire canta “là tutto non è che ordine e bellezza/lusso, calma, voluttà”. Il repertorio arcadico, parnassiano, classicheggiante è convenzionale, ma per Puvis, maestro sapiente, maestro ingenuo, il soggetto è supporto di inquietudini e malinconie che additano una sensibilità nuova. La semplificazione armonica del ritmo, delle superfici dei volumi, delle relazioni cromatiche esprime inoltre la ricerca di una condizione umana che tende all’assoluto. Emerge l’originalità di tele fuori dal tempo, estraneo a ogni moda, ed è proprio la loro estraneità che può essere considerata tratto simbolista, insieme all’aspetto liberatorio della loro classicità. Un sogno dell’età dell’oro si realizza in casta astrattezza, in simbolica armonia tra figure e paesaggio. (Maria Teresa Benedetti, in Artedossier  

ANALISI DELL’OPERA

Fanciulle in riva al mare è sicuramente l’opera più conosciuta di Pierre Puvis de Chavannes. Si tratta di un quadro di piccole dimensioni – un capolavoro, ovviamente –, in cui l’artista rappresenta tre giovani donne in riva al mare, ma in una visione assolutamente idealizzata, dove i personaggi e lo spazio in cui essi sono disposti sono immaginati in una dimensione evocativa e sottilmente misteriosa.

Il luogo è definito in modo essenziale – mentale, soprattutto –: il mare blu appena increspato, con piccole onde che schiumano sulla battigia; il cielo tinto di grigio e venato di rosa, all’ora che precede il crepuscolo; una duna alta e obliqua, oltre la quale si scorge la piana riva sabbiosa.

Sul suolo renoso e arido spuntano qua e là delle esili piante selvatiche dai piccoli fiori bianchi, alcune delle quali sono rinsecchite, mentre nel cielo e sull’acqua volano gabbiani, appena visibili, che sembrano ombre di se stessi sospese nell’aria, senza alcun effetto di moto, in una parca e cerebrale rappresentazione della natura. È un paesaggio primitivo e mitico insieme, un paesaggio marino di un’epoca passata, letterario ed evocativo di partenze per gesta eroiche, di penose attese e di agognati ritorni.

Le tre giovani donne, dai chiari e morbidi incarnati, fanno parte di tale mondo mitologico e di una qualche storia ad esso legato. Una di loro è seduta in terra, in primo piano, col seno nudo, appoggiata col capo su un sasso che emerge dalla rena, in un’espressione di malinconia e in una postura di particolare garbo. Appena dietro di lei c’è la figura di una seconda giovane, distesa sulla sabbia, di cui si vede solo il busto, pure lei assorta e malinconica. Ma il personaggio che polarizza l’attenzione del riguardante è la fanciulla vista di spalle, statuaria e misteriosa, che si acconcia i capelli con le mani, in una postura composta e in una leggiadria di gesti. Le tre donne dal bacino e dalle gambe avvolte in bianchi panneggi, caste e sacrali come sacerdotesse, fascinose e languide come ninfe, rimandano alla classicità greca o, meglio, a una civiltà nobile e antica, all’epoca magica dei miti e delle leggende, al tempo della poesia e della bellezza.

Ma tutta l’immagine è una celebrazione estetizzante, in cui l’artista dosa e calcola perfettamente ogni elemento: il colorismo contenuto, quasi avaro, ma puro, di latente raffinatezza; un contorno delle forme femminili delicato e sintetico, di assoluto garbo e morbidezza disegnativa, che rimanda alla statuaria ellenistica e alquanto alla pulita linea ingresiana; un effetto combinato di bidimensionalità e profondità, la prima subito percepibile, la seconda di intellettiva sensazione; l’eliminazione del superfluo in un’idea di assoluto equilibrio. Non a caso Puvis de Chavannes influenzerà artisti come Matisse e soprattutto il Picasso del periodo blu.

Pierre Puvis de Chavannes

P. Puvis de Chavannes, Il Sacro Bosco caro alle arti e alle Muse, 1884, olio su tela, Washington, Philips Collection.  

IL SIMBOLISMO 

Il Simbolismo è dapprima un movimento letterario che nasce ufficialmente nel 1886, col Manifesto Simbolista di Jean Moréas, e che ha come punti di riferimento Baudelaire, Verlaine, Mallarmé. Tale corrente, che recupera molti degli ideali romantici, si oppone al materialismo e al razionalismo dell’epoca industriale, rivalutando la fantasia e l’immaginazione contro la noiosa realtà utilitaristica del tempo. Il mito, il mistero, il sogno, l’onirico, la suggestione, l’ideale, l’evocazione sono alla base della poetica surrealista. L’arte, afferma il pittore Redon, “allo stesso modo della musica si colloca nel mondo antico dell’indeterminato (...) Bisogna tentare di superare, illuminare o ampliare l’oggetto e innalzare lo spirito verso il turbamento dell’irresoluto e la sua deliziosa inquietudine”. Lo spiritualismo della pittura simbolista si contrappone quindi alla tendenza realistico-conoscitiva di Courbet e di Cézanne, recuperando l’idealismo formale di Ingres. Il Simbolismo, ha scritto Giulio Carlo Argan, “distingue il bello dagli aspetti visibili della natura, nella natura stessa ricercando però, sotto o sopra al di là di quegli aspetti, un bello che si rivela solo alle anime belle, agli artisti. Si ricollega così alla poetica del sublime, al deliberato arbitrio fantastico di Blake e di Füssli, alla trasfigurazione del paesaggio di Turner; e si raffina attraverso la sensitività allarmata, tra estasi e incubo, della poesia di Baudelaire e, per suo tramite, della prosa poetica di Poe.       

Il Simbolismo – ha scritto Piero Adorno – è principalmente una corrente letteraria che si oppone al naturalismo e che fa capo a poeti come Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, Villiers de l’Isle-Adam. Ad essi si accostano molti pittori postimpressionisti, nel tentativo di superare la rappresentazione dell’oggetto esterno, per sostituirla con l’espressione del proprio «io», sia pure sotto lo stimolo della realtà concreta. (...) Poiché la pittura è, almeno fino a quest’epoca, legata alla necessità di rappresentare qualcosa, essi cercano di liberarla dalla schiavitù dell’oggettivismo, eludendo volutamente le leggi tradizionali prospettico-volumetriche, creando accordi reciproci di linee e di colori ed emulando, per analogia, la libera e soggettiva concretizzazione dei suoni musicali. Canoni fondamentali del Simbolismo, sono, secondo la definizione che ne diede un critico: «l’ideismo» («espressione delle idee per mezzo delle forme»); la «sintesi» (per meglio suggerire l’evocazione, i simboli dovranno essere ridotti alla loro essenza); il «soggettivismo» («l’oggetto non sarà mai considerato in quanto tale, ma come segno dell’idea concepita dal soggetto»); «l’emotività»: il «decorativismo» (la pittura decorativa antica – egizia, greca, primitiva – era «soggettiva, sintetica, simbolista, idealista»).         


 Pierre Puvis de Chavannes, Il sogno.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

MARIA TERESA BENEDETTI, SimbolismoArtedossier, Giunti, Firenze, 2016.

PIERO ADORNO, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

AUTORI VARI, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

 

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© G. LUCIO FRAGNOLI

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