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martedì 13 luglio 2021

DUE DONNE TAHITIANE di PAUL GAUGUIN


Paul Gauguin (1848 -1903), Due tahitiane – 1899, olio su tela, 94 x 72.4 cm – New York, Metropolitan Museum of Art.

ANALISI DELL’OPERA

Due tahitiane o Due donne tahitiane (Two Tahitian Women) del Metropolitan Museum of Art di New York, conosciuto anche con un’altra bislacca intitolazione, I seni coi fiori rossi, è stato dipinto nel secondo periodo tahitiano, prima che Gauguin s’avventurasse alla volta delle isole Marchesi, a 1400 chilometri da Tahiti.

Si tratta della raffigurazione di due giovani donne indigene, ritratte fino alle ginocchia, che recano l’una un piatto ricolmo di frutti maturi, l’altra dei fiori rosa tenuti nelle mani giunte, come nell’atto di portarli in dono durante un tradizionale rituale a di offrirli a un gradito ospite. O mostrano soltanto i frutti della natura per impreziosire i loro corpi seminudi, come se i fiori rosei e le mature bacche vermiglie fossero preziosi gioielli e, nello stesso tempo, sacri donativi della prodiga madre terra. Delle due giovani, una occupa quasi il centro del dipinto, ed è ritratta frontalmente, sia nel corpo che nel viso. Mentre l’altra è disposta sulla desta. Pure il suo corpo è visto frontalmente, ma col volto raffigurato di tre quarti, in un sobrio e impercettibile atteggiamento d’intesa con la compagna. Le loro espressioni sono composte e serene, così come i loro corpi ambrati sono acerbi e statuari insieme, di una bellezza pura e primitiva, come fossero divinità sacrali di un mondo mitico e remoto, incorrotto e armonioso, mite e lussureggiante. E infatti lo sfondo indistinto, alle spalle delle bellissime dee tahitiane, evoca i colori di una natura incontaminata e di quella terra arcaica e lontana.   

Il dipinto ha un colorismo contenuto ma ben accordato, così come la luce plasma le figure, ben definite da una delicata linea di contorno, con contrasti minimi e un buon effetto plastico, in un complessivo senso di bidimensionalità dell’immagine. Bidimensionalità che non significa piattezza, giacché nei dipinti di Gauguin, vi è sempre una definizione corporea di cose e personaggi, perché la linea di contorno che li circoscrive non annulla mai la percezione del loro volume. Nel dipinto in questione, per esempio, le due figure femminili sono messe in primo piano; lo sfondo costituisce, invece, un secondo piano, privo però di profondità prospettica, dato che in esso si rappresenta molto concettualmente il paradisiaco contesto delle isole oceaniche.

Paul Gauguin, Manao tupapau (1892), olio su tela, 73x92 cm, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery.

Paul Gauguin, ... E l'oro dei loro corpi (1901); olio su tela, 67×76 cm, Parigi, Museo d’Orsay.

La casa di Gauguin a Tahiti

Gauguin si è creato da sé la propria leggenda: la leggenda dell’artista che si mette contro la società del proprio tempo e ne evade per ritrovare in una natura e tra genti non guaste dal progresso la condizione di autenticità e d’ingenuità primitive, quasi mitologiche, in cui può ancora sbocciare il fiore, orami esotico, della poesia, che il clima dell’Europa industriale uccide. (Giulio Carlo Argan)

Paul Gauguin, Autoritratto (1885), olio su tela, 65.2×54.3 cm, Fort Worth, Texas, Kimbell Art Museum.


SULLO STILE DI GAUGUIN

Gauguin intraprende la sua vera strada quando, lasciata Parigi, si reca in Bretagna, dove, a contatto con usi, costumi, gente, panorami severi e solenni, abbandona gradualmente la resa della realtà, per interpretarla liberamente esprimendosi attraverso linee e colori cui attribuisce un valore carico di significati. (...) Ma è soprattutto dal periodo bretone in poi che egli sviluppa sempre più questa concezione, affidandosi in modo particolare alla suggestione della linea e del colore. Si capisce perché apprezzasse e facesse sue, portandole innanzi, le idee del giovane pittore Émile Bernard (1868 – 1941), discutendo con il quale viene scoprendo l’importanza espressiva del colore piatto e del contorno, quasi in una ripresa degli smalti di Limoges, dai colori accostati e contenuti entro una bordatura metallica, la cloison (“divisione”), o delle vetrate medievali, i cui vetri colorati sono sostenuti e separati da quelli adiacenti per mezzo di cornicette di piombo che ne seguono le forme. Questa tecnica, detta cloisonnisme, dà ampia possibilità sia al colore (per la sua purezza non turbata da varianti tonali o chiaroscurali e per la sua prevalenza quantitativa), sia alla linea (per il suo andamento sinuoso), l’uno e l’altra irreali e quindi astratti, di provocare nello spettatore reazioni psicologiche.  Piero Adorno

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

PIERO ADORNO, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

CRICCO – DI TEODORO, Itinerario nell’arte, Vol. II, 2012, Zanichelli, Bologna.

AUTORI VARI, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

© G. LUCIO FRAGNOLI

sabato 10 luglio 2021

LA VISIONE DOPO IL SERMONE di PAUL GAUGUIN

 

Paul Gauguin (1848 -1903), La visione dopo il sermone (La lotta di Giacobbe e l’angelo) – 1888, olio su tela, 73 x 92 cm – Edimburgo, National Gallery of Scotland.

ANALISI DELL’OPERA

La visione dopo il sermone, fu dipinto da Paul Gauguin nel suo secondo soggiorno in Bretagna. L’artista vi aveva soggiornato la prima volta nell’estate 1886, prendendo alloggio alla pensione di Marie-Jeanne Gloanec, che era un vero e proprio ritrovo di artisti.

Dopo la disastrosa esperienza di Panama e della Martinica, ci ritornò per la seconda volta, nella primavera del 1888, sempre alloggiando dalla locandiera Marie-Jeanne Gloanec, dove conobbe il giovane pittore Émile Bernard (1868 – 1941), dal quale apprese lo stile del cloisonnisme da cloison (partizione, separazione) –, basato su zone di colore uniforme chiuse da una netta e composta linea di contorno. Tale stile Bernard lo aveva ripreso, oltre che dagli smalti di Limoges, soprattutto dalla tecnica di realizzazione delle vetrate gotiche, nelle quali i vetri colorati sono inseriti in intelaiature sigillate col piombo, che appaiono come spesse linee di disegno scure che chiudono i colori e li separano pertanto l’uno dall’altro. Gauguin sperimenta preso questo stile nel dipinto La visione dopo il sermone, avvalendosi anche dello studio delle stampe giapponesi, di cui Gauguin era appassionato. In esse prevale la ricerca di una linea disegnativa elegante e armonica, che circoscrive sempre il colore, non indebolito dalle ombre e dal chiaroscuro. La scelta della linea, la più fluida e armoniosa possibile, caratterizza quindi le immagini pittoriche giapponesi, che sono essenzialmente concettuali e rievocative rispetto alla realtà raffigurata. 

L’opera rappresenta la scena, affatto immaginaria, in cui alcune donne bretoni, dopo la messa, suggestionate dal sermone tenuto dal predicatore sull’episodio della Genesi in cui si narra della lotta di Giacobbe con l’angelo, uscite dalla chiesa, ancora suggestionate dall’omelia sacerdotale, si sorprendono di fronte alla visione dell’episodio biblico, che si concretizza prodigiosamente innanzi ai loro occhi, come per l’effetto della loro incrollabile e cristallina fede cristiana. Allora si estasiano, chinano il capo, raccogliendosi in preghiera, come se lo sconfinamento dal loro piccolo mondo reale e rurale a un altro, arcaico e soprannaturale, fosse del tutto attuabile. Cosicché l’immagine si compone di due situazioni: in basso e a sinistra, vi sono le donne bretoni, oranti, nei loro caratteristici costumi, di cui l’autore esalta la loro semplice devozione; in alto c’è la sovrumana lotta di Giacobbe contro l’angelo, che si svolge su un suolo rosso, oltre un tronco d’albero ricurvo, ripreso da una stampa giapponese. Che sembra dividere in due la narrazione pittorica. Da una parte il possibile, dall’altra l’impossibile.

Ne La visione dopo il sermone, sicuramente, l’immagine è organizzata su due piani principali, con un punto di vista molto alto, come in talune stampe nipponiche: un primo piano, quello delle figure; un secondo piano, quello della lotta (Genesi, 32 -23-31). Benché l’angelo non vuole sconfiggere Giacobbe (lo potrebbe fare agevolmente), ma vuole modificare la volontà ribelle di Giacobbe, per renderlo un vero figlio del Signore.

Nella rappresentazione dei personaggi il pittore inizia a utilizzare la linea di contorno, alquanto attenuata, delicata e semplificatrice; diviene in altro termine, sintetica, separando dal superfluo soltanto l’essenziale. All’interno della linea il colore è fitto e piatto, non descrittivo e mentale, privo di chiaroscuro e ombreggiature, con la materia pittorica stesa senza rilievo, livellata sul piano della tela.

In definitiva, quello di Paul Gauguin è uno stile molto elaborato, che si avvale di diverse scelte stilistiche, tenute insieme e armonizzate dalla grande sensibilità creativa dell’artista e dell’uomo insieme. La prima importante scelta stilistica di Gauguin riguarda il recupero della bidimensionalità dell’immagine, indispensabile a creare quel sofisticato senso simbolico e di astrazione che hanno tutte le sue opere. La bidimensionalità e dunque il principio primario della sua particolare visione, dentro cui si concretizzano tutti gli accorgimenti stilistici già osservati, e che è inutile ripetere – ma guai a parlare di tecnica, essa come diceva il grande Roberto Longhi, finisce dal droghiere, dove si comprano i colori –.  

 

Gauguin, Autoritratto.

Gauguin si è creato da sé la propria leggenda: la leggenda dell’artista che si mette contro la società del proprio tempo e ne evade per ritrovare in una natura e tra genti non guaste dal progresso la condizione di autenticità e d’ingenuità primitive, quasi mitologiche, in cui può ancora sbocciare il fiore, orami esotico, della poesia, che il clima dell’Europa industriale uccide. (Giulio Carlo Argan)


Eugène Delacroix, Giacobbe lotta con l’angelo (1854 - 1861), particolare, olio e cera su intonaco (751 x 485 cm.), Parigi, Chiesa di Saint-Sulpice.


Dalla GENESI (La lotta di Giacobbe con l’angelo)

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. 24Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. 25Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora26Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». 29Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». 32Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca. 33Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. (Genesi, 32 – 23 – 31).

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

PIERO ADORNO, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

CRICCO – DI TEODORO, Itinerario nell’arte, Vol. II, 2012, Zanichelli, Bologna.

AUTORI VARI, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 


© G. LUCIO FRAGNOLI

venerdì 9 luglio 2021

NASCITA DELLA MARINA MILITARE ITALIANA 1861- 2021, il bel saggio di CARLO ANDREA DI NITTO

 

Gaeta, un mondo di storia dentro le sue origini marinare

In questo periodo, occorre evidenziare il dato che riporta alla crescita della Marina Militare e soprattutto della flotta Duosiciliana e della tradizione inerente alla marineria napoletana.

Proprio, nel 160° anniversario della sua nascita, nello splendido bastione del quartiere medievale della Favorita di Gaeta, è stato presentato l’interessante libro dello studioso, Carlo Andrea Di Nitto. Il lavoro di ricerca si è basato sulle origini storiche e culturali, nell’ambito della città di Gaeta, offrendo ai lettori l’evoluzione del contesto militare, che ne determinò l’avvio e lo sviluppo anche attraverso l’elenco grafico degli stabilimenti, che furono protagonisti di queste movimentate fasi.

“Nascita della Marina Militare Italiana 1861- 2021” è il significativo titolo del saggio, che è stato presentato nell’illustre località del basso Lazio. Diversi gli argomenti presi in esame, e, considerata la novità delle tematiche, alla manifestazione hanno preso parte, Milena Mannucci, nel ruolo di conduttrice della riunione con l’editore Jason Forbus. Il 17 marzo di questo anno è ricorso il 160° anniversario di questi eventi che funsero da catalizzatori per la costituzione della Regia Marina, che successivamente prese il nome di Regia Marina Italiana.

Quale promotore dell’iniziativa di ricostruzione documentaristica, lo studioso Carlo Andrea Di Nitto, noto con lo pseudonimo di ‘Carandin’, da sempre cultore ed appassionato della storia locale. Da parte sua, la Marina Militare, in questi sedici decenni, ha rivestito un ruolo d’importante rilievo, anche secondo quanto sostenuto dall’editore Jason Forbus.

Tra gli argomenti trattati, le vicende storiche come l’assedio di Gaeta, avvenuto nell’anno 1860-61, ed inoltre le ricerche e studi sulle questioni navali, con argomenti legati alla marineria.  

Fin dal 2005, Andrea Di Nitto ha valorizzato le pubblicazioni relative alle vicende accadute, avvalendosi dello pseudonimo di Carandin, esprimendo così la volontà di raccontare la biografia di un marinaio originario di Gaeta, cresciuto in questo contesto.

Nel testo edito da AliRibelli, questo sentito interesse ha sollecitato l’autore a riaffermare il suo attaccamento nei confronti dell’origine gaetana, sostenendo perciò di amare “ la mia terra, le mie radici, di  amare l’Italia...

Mario Tieghi

IL CRISTO GIALLO (Le Christ jaune) di PAUL GAUGUIN

  

Paul Gauguin (1848 -1903), Il Cristo giallo (Le Christ jaune) – 1889, olio su tela, 92 x 73 cm – Buffalo, Albright-Knox Art Gallery.

Gauguin si è creato da sé la propria leggenda: la leggenda dell’artista che si mette contro la società del proprio tempo e ne evade per ritrovare in una natura e tra genti non guaste dal progresso la condizione di autenticità e d’ingenuità primitive, quasi mitologiche, in cui può ancora sbocciare il fiore, orami esotico, della poesia, che il clima dell’Europa industriale uccide(Giulio Carlo Argan)

ANALISI DELL’OPERA

Il Cristo giallo, fu dipinto da Paul Gauguin nel suo terzo soggiorno in Bretagna. L’artista vi aveva soggiornato la prima volta nell’estate 1886, prendendo alloggio alla pensione di Marie-Jeanne Gloanec, che era un vero e proprio ritrovo di artisti. Ci era ritornato per la seconda volta nella primavera del 1888, sempre alloggiando dalla locandiera Marie-Jeanne Gloanec, dove aveva conosciuto il giovane pittore Émile Bernard (1868 – 1941), dal quale aveva appreso lo stile del cloisonnisme  da cloison (partizione, separazione) –, basato su zone di colore uniforme chiuse da una netta e composta linea di contorno. Tale stile Bernard lo aveva ripreso, oltre che dagli smalti di Limoges, soprattutto dalla tecnica di realizzazione delle vetrate gotiche, nelle quali i vetri colorati sono inseriti in intelaiature di piombo, che appaiono come spesse linee di disegno scure che chiudono i colori e li separano pertanto l’uno dall’altro. Gauguin aveva acutamente sperimentato questo stile nel dipinto La visione dopo il sermone, avvalendosi anche dello studio delle stampe giapponesi, nelle quali prevale la ricerca di una linea disegnativa elegante e armonica, che circoscrive sempre il colore, non indebolito dalle ombre e dal chiaroscuro. La scelta della linea, la più fluida e armoniosa possibile, caratterizza quindi le immagini pittoriche giapponesi, che sono essenzialmente concettuali e rievocative rispetto alla realtà rappresentata.  

Nel 1889, dopo la conflittuale convivenza con Van Gogh ad Arles, Gauguin ritorna per la terza volta in Bretagna, preferendo la quiete del villaggio marino di Le Pouldu al viavai di Pont-Aven, dimorando nella locanda di Marie Henry, il Cabaret de la Plage, della quale usa la sala da pranzo come studio. In una lettera inviata alla moglie, considera, serenamente: Sono sulle rive del mare, in una pensione di pescatori, vivo come un contadino, soprannominato il selvaggio. È proprio in questo periodo che dipinge il quadro che esprime compiutamente il suo stile, ormai maturo, e la sua visione, Il Cristo giallo, firmato e datato.

L’opera rappresenta il momento in cui alcune contadine bretoni, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro nei campi, si raccolgono in preghiera intorno a un crocifisso, ripetendo un rito abituale, che il pittore ha certamente osservato varie volte. È l’ora dell’angelus, sicuramente, quello della sera, si capisce dal cielo venato dai colori del tramonto e percorso da lembi di nubi orizzontali, sottili e leggere.

Le contadine bretoni, nei loro abiti caratteristici, hanno il capo chino e le mani giunte. Stanno pregando intorno a un crocifisso messo lungo un viottolo tra i campi, una di loro è colta di spalle, un’altra frontalmente, un’altra ancora di profilo, evocando il gruppo delle pie donne, affranto ai piedi della croce con sopra Gesù morto, in una tangibile ripetizione dell’episodio di pietà. Su di loro si erge il crocifisso – per il quale Gauguin si ispira a un antico crocifisso ligneo conservato nella chiesa gotica di Trémalo, a poca distanza da Pont-Aven –, che appare leggermente dissimmetrico rispetto alla scena di cristiana devozione. Ma stranamente il Cristo di legno, inchiodato su una croce di legno, ha le membra dipinte di giallo, come la campagna circostante, ammantata dei colori della tarda primavera, tinta del colore del grano maturo, a indicare la schietta e incrollabile religiosità e l’amore per la propria terra della gente bretone. Tra le linee lievemente ondulate del paesaggio che si estende dietro il crocifisso e le contadine, si distingue una rada vegetazione d’un inconsueto color ocra o rosso, in una visione marcatamente antinaturalistica e simbolica, ovviamente. Ma anche spirituale. Io sono convinto che il forte impiego del giallo, stia a significare il colore del grano, e quindi il pane, che si associa al rosso delle chiome degli alberi, al colore rosso del vino, per alludere al corpo e al sangue di Gesù, al sacramento dell’eucarestia, in cui si attua la comunione dei fedeli col Cristo.

Nel Cristo giallo, fondamentalmente, l’immagine è organizzata su due piani principali: un primo piano, quello delle figure; un secondo piano, quello del paesaggio. Ma, dentro il paesaggio, poco lontano si vede un basso muro a secco, che un contadino sta scavalcando, per raggiungere altre due contadine che ritornano, come lui, verso le case.

Nella rappresentazione del crocifisso e dei personaggi il pittore utilizza un’accentuata linea di contorno, specialmente nella figura del Cristo, dal cui corpo la morte sembra aver cancellato i segni del supplizio subito – la ferita al costato, infatti, è appena percepibile –, per trasportarlo in una dimensione di non dolore e di sonno eterno. Nelle figure delle contadine la linea di contorno si attenua molto, ma diviene ancor più interessante, dato che diventa delicata e semplificatrice; diviene in altro termine, sintetica, separando dal superfluo soltanto l’essenziale. All’interno della linea il colore è fitto e piatto, non descrittivo e mentale, privo di chiaroscuro e ombreggiature, con la materia pittorica stesa senza rilievo, livellata sul piano della tela.

La rappresentazione del paesaggio è davvero interessante, chiaramente antinaturalistica e alquanto appiattita, in cui ogni elemento proprio della natura bretone è disegnato trascendendo la stessa, ripensato mentalmente e sostituito all’originale. Ogni forma naturale è in pratica modificata in una forma equivalente, ma prettamente concettuale, sintetica, per usare un termine già spiegato. Gauguin è importante per questo, anticipa l’utilizzo non descrittivo del colore, fattore di svolta dei fauves, e le forme di sintesi, anticipando almeno i principi generali del cubismo sintetico. Per di più ispira apertamente i simbolisti.  

In definitiva, quello di Paul Gauguin è uno stile molto elaborato, che si avvale di diverse scelte stilistiche, tenute insieme e armonizzate dalla grande sensibilità creativa dell’artista e dell’uomo insieme. La prima importante scelta stilistica di Gauguin riguarda il recupero della bidimensionalità dell’immagine, indispensabile a creare quel sofisticato senso simbolico e di astrazione che hanno tutte le sue opere. La bidimensionalità e dunque il principio primario della sua particolare visione, dentro cui si concretizzano tutti gli accorgimenti stilistici già osservati, e che è inutile ripetere – ma guai a parlare di tecnica, essa come diceva il grande Roberto Longhi, finisce dal droghiere, dove si comprano i colori –.   


Paul Gauguin, La visione dopo il sermone (1888), olio su tela (73 x 92 cm.), Edimburgo, National Gallery of Scotland.  

Paul Gauguin, Autoritratto

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: 

PIERO ADORNO, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

G. C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, Vol. 3°, 1993, Sansoni, Milano.

CRICCO – DI TEODORO, Itinerario nell’arte, Vol. II, 2012, Zanichelli, Bologna.

AUTORI VARI, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 


 


© G. LUCIO FRAGNOLI

 

martedì 6 luglio 2021

LA MEZZANA di JOHANNES VERMEER


Johannes Vermeer (1632 -1675), La mezzana, (1656), olio su tela, 143 x 130 cm – Dresda, Gemäldegalerie.

Il quadro è firmato e datato in basso a destra. Si tratta in fondo di una scena di genere, opera giovanile di Vermeer, nella quale c’è chi ha visto nella ragazza il ritratto della moglie dell’artista, chi altro ha ipotizzato il ritratto della suocera nell’anziana, chi infine ha congetturato un autoritratto nella figura del suonatore, per via dell’abito, molto simile a quello del personaggio del pittore nell’Atelier, o Arte della pittura. A me, di tutte queste supposizioni, la più probabile pare quella dell’autoritratto dell’autore nella figura del musico, per almeno due motivi: primo, perché non prende parte al mercimonio meretricioso, ma si limita ad accompagnare il giovanotto che sta sganciando la moneta; secondo, perché è l’unico personaggio che guarda fuori del quadro, verso l’osservatore, e brinda all’incontro amoroso: proprio come fa Rembrandt in un famoso suo autoritratto, nei panni del figliol prodigo in una locanda, con la moglie Saskia seduta sulle ginocchia che recita pure lei la propria parte. Questo, ovviamente, poco cambia nella lettura dell’opera. Catalogato come opera di Jacob Van der Meer di Ultrecht fino al 1862, faceva parte della collezione del conte Wallenstein fino al 1741, prima di essere spostato alla Gemäldegalerie. Il primo ad attribuire La mezzana a Vermeer fu Thoré Burger, nel 1860. L’attribuzione fu successivamente ampiamente condivisa da altri studiosi. 

ANALISI DELL’OPERA

L’opera, conosciuta coi titoli Dalla mezzana o La cortigiana o, più semplicemente, La mezzana, ci appare come una curiosa scena di genere – affrontata in vario modo da altri pittori –. Pure se potrebbe essere interpretata come una versione attualizzata del figliol prodigo in una locanda, pressappoco come la scena creata da Rembrandt. L’immagine ha un suo pregevole e voluto effetto teatrale, coi personaggi che occupano la scena, colti in espressioni differenti e sintomatiche, lasciando capire perfettamente cosa stanno combinando. Tra di essi, quello di fondamentale importanza, è l’anziana donna vestita interamente di nero, la mezzana, la quale ha combinato un incontro amoroso tra la ragazza dalla giacca gialla e il giovane dal cilindro piumato, con la complicità o soltanto col benestare del musicante col largo cappellone. Ma il protagonista della narrazione dipinta è certamente il giovanotto in cilindro e giacca rossa, un prodigo forestiero evidentemente, entrato nella locanda per dissetarsi e per svagarsi, per il quale la furba ruffiana ha organizzato la tresca con la sua protetta. Il forestiero, infatti, dagli occhi gentili di chi ha già tracannato qualche cervogia, mentre le palpeggia il seno, porge una moneta alla ragazza sorridente, dalle gote arrossate dalla bevanda, che apre condiscendente il palmo della mano destra. Il suo sguardo, ma anche quello del giovane, è fisso sul denaro, mentre stringe nella sinistra un calice con del liquore – del vino bollito insaporito con l’assenzio, forse, come s’usava allora –. L’amorazzo è bello che combinato, e alla ruffiana s’illuminano gli occhi in uno smorzato e malizioso ghigno. Cosicché pure il musicante, leva in alto il suo boccale di birra e brinda sorridente al sodalizio lussurioso. Come un teatrante, nel suo vistoso cappellone, guarda fuori dalla scena, e aspetta il plauso del pubblico, per la spassosa recita e per il lieto fine.     

I quattro – a questo punto è giusto dire – attori, sono sistemati in uno spazio poco precisato, definito soltanto da una disadorna parete alle loro spalle, messa a fare da quinta scenica, che termina dopo la figura femminile vestita di nero, oltre la quale si intuisce lo spazio indistinto di un altro vano. Il punto di vista coincide con gli occhi del liutista, ma un po’ spostato verso sinistra. I quattro personaggi sono in piedi, dietro uno spesso tappeto orientaleggiante poggiato su un ripiano, su cui è poggiato pure il mantello di pelliccia del forestiero, e che occupa la parte bassa del dipinto, per la metà quasi della tela. Nell’opera in questione non vediamo ancora il magistrale uso della luce e la perfetta definizione dello spazio, propri dello stile del maestro. Ma in compenso vi si riscontra una gaiezza narrativa, una rara vivezza espressiva e un colorismo assai vivace, che la rendono un capolavoro, sicuramente imprescindibile per la comprensione della pittura olandese seicentesca, detta anche del secolo d’oro.

Probabile ritratto di Johannes Vermeer.

 

Firma di Johannes Vermeer.

 

VITA DI JOHANNES VERMEER

Johannes Vermeer nasce a Delft, nell’anno 1632. Nel 1653 sposa Catharina Bolnes, di ricca famiglia cattolica. Per poterla sposare l’artista si converte al cattolicesimo. Nello stesso anno è accettato nella ghilda dei pittori della città di Delft. Nel 1654 avviene la disastrosa esplosione della polveriera di Delft, che causa danni anche alla locanda del padre, che commercia anche quadri e che muore l’anno successivo. Nel 1657 Vermeer è in difficoltà economiche e deve servirsi di un prestito di 200 fiorini. Nel 1662 è eletto vice decano nella ghilda di San Luca. Nel 1670 muore la madre e il pittore eredita la locanda di famiglia. Nel 1672 scoppia la guerra d’Olanda. I francesi invadono i Paesi Bassi, dando luogo a saccheggi e devastazioni, ponendo fine a quella che gli storici chiamano età dell’oro della pittura fiamminga, in cui sono state prodotte più di 5 milioni di opere di vario genere. Nel 1675 Johannes Vermeer, in serie difficoltà economiche, muore, il 15 dicembre. Due anni dopo la morte dell’artista, sua moglie Catharina Bolnes ne ricorda le complicazioni degli ultimi anni di vita, scrivendo: “Nel corso della lunga e rovinosa guerra con la Francia, egli non solo non aveva potuto vendere i suoi quadri, ma per di più, con suo gran danno, i dipinti degli altri pittori che commerciava erano rimasti invenduti. Per via del grande carico dei figli [Vermeer aveva 11 figli], non avendo personali mezzi di fortuna, era caduto in un tale stato di ansietà e di decadimento che in un giorno, un giorno e mezzo era passato da uno stato di buona salute alla morte.”

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

SILVIA DANESI SQUARZINA, Vermeer, Giunti, Firenze,1990.

PIERO BIANCONI, Vermeer. Rizzoli, Milano,1996.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

domenica 4 luglio 2021

L’ARTE DELLA PITTURA di JOHANNES VERMEER

 



Johannes Vermeer (1632 -1675), L'arte della pittura, (1662 – 1666), olio su tela, 120 x 100 cm – Vienna, Kunsthistorisches Museum.


Il quadro, oggi noto anche coi titoli Pittore e la sua musaAtelier, Allegoria della pittura, o Pittore al lavoro, e firmato sul bordo inferiore della carta geografica. Alla morte dell’autore esso rimase presso la vedova, Catharina Bolnes, che lo cedette a sua madre, Maria Thins, a garanzia di un debito di 1000 fiorini contratto dal maestro l’anno prima. Molto probabilmente, il dipinto fu poi venduto, per conto di Maria Thins, nel 1696, all’asta allestita con le opere dello scomparso collezionista Jacob Abraham DissiusAlla fine del Settecento figurava nella collezione del barone Gottfried van Swieten. Nel 1813 passò per 50 fiorini austriaci nella collezione del conte Czernin di Vienna, di cui fece parte fino al 1942, quando fu confiscato da Adolf Hitler. Nel 1946 fu restituito al Kunsthistorisches Museum, dove era già depositato prima della guerra.

 

ANALISI DELL’OPERA

L’opera, conosciuta con vari titoli, rappresenta un pittore al lavoro, nel chiuso del proprio atelier, il cui spazio è ben definito prospetticamente – col punto di vista centrale e interno all’ambiente –, di cui si percepisce un bell’effetto di profondità, soprattutto per il tendaggio in primo piano, fermato da una seggiola. Accorgimento, questo, utilizzato da Vermeer in altri dipinti come, per esempio, Signora che scrive, o Allegoria della fede

Secondo un’interpretazione ormai superata, il soggetto veniva identificato, in relazione all’agghindamento della modella, come una sorta di allegoria della Fama. Mentre oggi si riconosce pressoché universalmente che la giovane in posa, probabilmente la secondogenita dell’artista, rappresenti invece Clio, musa della storia. La giovane, coronata d’alloro, regge una tromba e il libro della storia, e volge lo sguardo verso il tavolo, su cui si trovano un quaderno, una testa di gesso con gli occhi cavi – la maschera di Talia, che allude evidentemente alla scultura –, un libro, quello di Polimnia. Tali oggetti sarebbero un chiaro riferimento alle sorelle mitiche di Clio, e costituirebbero, secondo lo storico Charles de Tolnay, una specie di paragone delle tre arti plastiche, in cui la pittura prevale, dato che è rappresentata proprio nel personaggio del pittore, lo stesso Johannes Vermeer, molto verosimilmente. Ma che sia o non sia un autoritratto, nulla cambia nel significato e nella straordinarietà dell’immagine. C’è da rimarcare, comunque, che all’asta del 1696, il quadro venne così menzionato: Ritratto di Vermeer in una stanza con vari accessorid’una bellezza raradipinto da egli stesso.

Il pittore, che dà le spalle allo spettatore, non è in abiti da lavoro, ma in abiti ordinari, ed è seduto davanti al cavalletto. Si serve del poggia-mano, seppure sia soltanto all’inizio del lavoro. Volge lo sguardo verso la modella, abbigliata come un’antica musa con un drappo azzurro, inondata della luce calda che entra da una finestra, nascosta dal tendone in primo piano. È una luce naturale, avvolgente, che invade e definisce lo spazio, che restituisce la percezione dell’aria, e si posa sulle cose e sui personaggi, animandoli, rendendoli veri. 

È la luce l’elemento vivificante dell’immagine, che si trasfigura dalla realtà senza perdere nulla di essa. Persino gli oggetti, attraverso la luce naturale di Vermeer, si percepiscono in tutte le loro qualità: sostanza materica, peso, volume, forma, colore. Cosicché della carta geografica appesa sulla parete di fondo, ne avvertiamo ogni minima particolarità, dalle esatte piegoline alla sottile superficie stampata, un po’ scolorita e sciupata dal tempo. Ecco, nella pittura di Vermeer si percepisce anche il senso del tempo. Nella sua visione l’essenza del reale è catturata in ogni aspetto: valori materici, luce, aria, spazio, tempo, forme, colore.    



VITA DI JOHANNES VERMEER

Johannes Vermeer nasce a Delft, nell’anno 1632. Nel 1653 sposa Catharina Bolnes, di ricca famiglia cattolica. Per poterla sposare l’artista si converte al cattolicesimo. Nello stesso anno è accettato nella ghilda dei pittori della città di Delft. Nel 1654 avviene la disastrosa esplosione della polveriera di Delft, che causa danni anche alla locanda del padre, che commercia anche quadri e che muore l’anno successivo. Nel 1657 Vermeer è in difficoltà economiche e deve servirsi di un prestito di 200 fiorini. Nel 1662 è eletto vice decano nella ghilda di San Luca. Nel 1670 muore la madre e il pittore eredita la locanda di famiglia. Nel 1672 scoppia la guerra d’Olanda. I francesi invadono i Paesi Bassi, dando luogo a saccheggi e devastazioni, ponendo fine a quella che gli storici chiamano età dell’oro della pittura fiamminga, in cui sono state prodotte più di cinque milioni di opere di vario genere. Nel 1675 Johannes Vermeer, in serie difficoltà economiche, muore, il 15 dicembre. Due anni dopo la morte dell’artista, sua moglie Catharina Bolnes ne ricorda le complicazioni degli ultimi anni di vita, scrivendo: “Nel corso della lunga e rovinosa guerra con la Francia, egli non solo non aveva potuto vendere i suoi quadri, ma per di più, con suo gran danno, i dipinti degli altri pittori che commerciava erano rimasti invenduti. Per via del grande carico dei figli [Vermeer aveva 11 figli], non avendo personali mezzi di fortuna, era caduto in un tale stato di ansietà e di decadimento che in un giorno, un giorno e mezzo era passato da uno stato di buona salute alla morte.”

 

I FALSI VERMEER 

Il pittore olandese Han Anthonius van Meegeren (1889 – 1947), particolarmente dotato, si specializzò nella contraffazione di Vermeer, riuscendo a spacciare per veri dei falsi da lui realizzati, tutti di soggetto sacro. Riuscì addirittura, con l’aiuto di un mercante d’arte, a vendere uno dei falsi da lui realizzati al generale nazista Herman Göring per 5 milioni di fiorini. Alla fine della seconda guerra mondiale, per i contatti avuti coi nazisti, Meegeren fu accusato di collaborazionismo. Per evitare una pena esemplare, fu costretto a rivelare la truffa dei falsi da lui architettata. 

Han Anthonius van Meegeren, L’incontro a Hemmaus (1936 -37), Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen   

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

SILVIA DANESI SQUARZINA, Vermeer, Giunti, Firenze,1990.

PIERO BIANCONI, Vermeer. Rizzoli, Milano,1996.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA CARATTERE ESCLUSIVAMENTE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AGLI STUDENTI E AGLI APPASSIONATI. 

 

© G. LUCIO FRAGNOLI

 

METROPOLIS, il grande trittico di OTTO DIX

 


Otto Dix (1891 -1969), Metropolis (trittico)– 1927-1928, tecnica mista su legno, pannello centrale 181 x 200 cm, panelli laterali 181 x100 – Stoccarda, Galerie der Stadt.


ANALISI DELL’OPERA

Metropolis, che può essere considerato il grande capolavoro di Otto Dix, è sicuramente l’opera più conosciuta dell’artista tedesco e anche quella che, per comune convincimento, meglio lo rappresenta. Si tratta di un trittico eseguito su tre pannelli di compensato, dei quali quello centrale (181 x 200 cm) è esattamente il doppio dei laterali (181 x100). Esso è conosciuto anche col titolo La grande città, dove la città evocata è Berlino. Siamo al tempo della Repubblica di Weimar – dal nome della città ove si riunì l’assemblea nazionale, nel 1918, che concepì una nuova costituzione –, dopo la scioccante sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, con le conseguenti umilianti condizioni imposte col successivo trattato di Versailles del 1919. Il nuovo stato liberale che ne nacque, dopo la disfatta della coalizione di governo alle elezioni del 1920, precipitò in una grave crisi politica, che non poté fronteggiare gli squilibri sociali e la crisi economica, favorendo l’ascesa al potere di Hitler, nel 1933.

Nel trittico Metropolis Otto Dix, su tre diverse riquadri lignei, realizza tre spaccati di vita berlinese, che vanno osservati e spiegati partendo da quello centrale. La prima scena di vita si svolge all’interno di un tipico cabaret, dove un’orchestra jazz sta eseguendo un brano sicuramente ritmato. Questo si desume dai movimenti sciolti degli strumentisti e dalle movenze convulse della coppia di ballerini che occupa il centro della pista, come pure da quelle della donna in piedi nella pista, che ballonzola da sola, seguendo il ritmo. Dietro di lei ci sono un gentiluomo con la sua signora seduti a un tavolo, che guardano verso l’orchestra, con espressioni affettate, meno coinvolti dal swing. In secondo piano si muove tutta una serie di vitaioli che partecipano compiaciuti all’allegra serata musicale. Lo spazio del locale è descritto da pochi elementi: le pareti rosse, il pavimento di parquet e un drappo broccato; bastevoli per far capire che si tratta di un locale alla moda, un posto per danarosi. Diversa, invece, è la descrizione dei personaggi, perfettamente studiata e minuziosa, attenta a far risaltare la loro provenienza sociale e il loro capriccioso edonismo, le loro eccentriche personalità. La figura femminile in piedi sulla pista è riccamente ingioiellata ed è vestita in modo assai ricercato, con un abitino corto e scollato, impreziosito di brillanti e una spilla di preziosi in forma di farfalla, cui si agganciano due svolazzi di stoffa a piegoline. Si corona la testa con un bizzarro ventaglio piumato, che meglio ne definisce l’iconografia di improbabile ed egocentrica menade dell’opulenta società. Intorno a lei, messa a far da perno della messinscena pittorica, ruotano tutti gli altri ricchi e spensierati gaudenti, rappresentati da Dix come caricature di sé stessi, lontani da una storia che si sta compiendo inesorabilmente, ma che sembra non appartenergli. Nella scena del ballo e dell’allegria l’artista tratteggia satiricamente già tutti i germi della decadenza.

Fuori tutto cambia, nello stesso preciso momento, nel corso della stessa dilettevole serata. In contemporaneità, infatti, nel pannello di sinistra, il pittore rappresenta un vicolo malfamato, un quartiere a luci rosse, gremito da prostitute scollacciate in cerca di clienti, mentre passa un soldato dalle gambe mutilate, contro cui s’avventa un cane. Si tratta di un reduce della Grande Guerra, l’immane disastro che ha sconvolto l’Europa, di cui ancora sopravvivono gli effetti infami. Una prostituta si volge verso di lui, in un atteggiamento derisorio. La guerra ha fatto di un uomo dignitoso una creatura mostruosa, oggetto di disprezzo. Un secondo uomo giace in terra nella comune indifferenza. È ubriaco, forse. O morto, addirittura, ma nessuno se ne cura.

Nel pannello di destra, la scena diventa del tutto surreale. Una sfilata di strani personaggi, tutti femminili, sale e scende per una scalinata allato di una quinta strampalata di elementi architettonici montati in modo illogico. Un mendicante dalle gambe mutilate e la faccia sfigurata, coperta da una maschera, è buttato in terra, nella insensibilità delle strane figure, delle quali alcune sono mascherate. Talune di esse guardano fuori del quadro, verso lo spettatore, incutendo un sottile senso di sgomento, per come sono grottesche e insieme raccapriccianti. Sembra un andirivieni da una torbida e peccaminosa festa in maschera. Nelle tipe mascherate e nelle strambe figuranti, Dix raffigura certamente un’umanità sordida e bestiale, allontanatasi dalla serietà della vita e dalla luce della ragione. La visione in Metropolis è straordinariamente espressionista, con scelti accenti realistici, e sconfinante in una melmoso surrealismo.



Otto Dix, Autoritratto (1942) 



Otto Dix, Metropolis, disegni preparatori dei panelli laterali.


LA NUOVA OGGETTIVITÀ 

Negli anni della Repubblica di Weimar (1918 -1933), operò in Germania un nuovo e variegato gruppo di artisti, che, dopo l’esposizione di Mannheim del 1925, fu riconosciuto come fortemente rappresentativo della nuova pittura con l’appellativo di Neue Sachlichkeit, traducibile in italiano con Nuova Oggettività. Gli artisti di spicco della Nuova Oggettività furono George Grosz, Otto Dix e Max Beckmann. 


Otto Dix,Trionfo della morte – 1954, tecnica mista su legno, 180 x 178 cm, Stoccarda, Galerie der Stadt.

VITA IN BREVE DI OTTO DIX 

Nato a Gera, nel 1891, Otto Dix studiò alla Scuola di Arti e Mestieri di Dresda. Combatté la Grande Guerra (1914 – 1918) i cui orrori lo colpirono profondamente, inducendolo ad assumere una posizione antimilitarista e pacifista. Negli anni che vanno dal 1918 e il 1922 partecipò al Nevembergruppe, un’associazione avanguardistica di artisti, e alla Fiera del dadaismo di Belino (1920). Dal 1925 fu uno dei grandi protagonisti della Neue Sachlichkeit, Nuova Oggettività. Fu professore, dal 1927, dell’Accademia di Dresda, da cui allontanato dai nazisti nel 1933, con la mortificante classificazione di artista degenerato. Trovò rifugio a Hommenhofen, sul lago di Costanza, dove dipinse principalmente paesaggi, fino al 1939, quando fu arrestato con l’accusa di aver preso parte a un attentato a Hitler. Partecipò anche alla seconda guerra mondiale, nel corso della quale fu fatto prigioniero dai francesi, che lo liberarono nel 1946. Si spense a Singen, nel 1969. 


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

 

PIERO ADORNO, L’arte italiana. Dal Settecento ai nostri giorni, Vol. 3. Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze,1994.

AUTORI VARI, Storia universale dell’arte. Il XX secolo. De Agostini, Novara,1991.

EVA KARCHER, Dix. Taschen, Monaco di Baviera,1991.

 

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© G. LUCIO FRAGNOLI

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