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mercoledì 24 novembre 2021

LA PRIMAVERA di BOTTICELLI, il quadro più misterioso del Rinascimento.



La Primavera (1482 ca.) - tempera su tavola (314 x 203 cm) – Firenze, Galleria degli Uffizi

 

ANALISI DELL’OPERA

La Primavera, eseguita intorno al 1482, fu molto probabilmente commissionata dal Magnifico come dono per le nozze del cugino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici con Semiramide Appiani, o direttamente dallo stesso Lorenzo di Pierfrancesco.

L’opera, che rispecchia l’altezza culturale del rinascimento fiorentino e la raffinatezza intellettuale dell’autore, è stata oggetto di varie letture e interpretazioni. Tra le quali, per un certo periodo, ha riscosso molto credito quella di Ernst Gömbrich, secondo cui La Primavera è ricavata da un passo de L’Asino d’oro, di Lucio Apulèio, dove il protagonista della storia, trasformato in asino, assiste a una rappresentazione del Giudizio di Paride in cui compaiono i personaggi del quadro botticelliano.

Secondo altri e, tanto per fare un altro esempio, la composizione sarebbe stata tratta da alcuni versi delle Stanze per la giostra del Poliziano, ispirati sempre al romanzo di Apulèio.

Di tutte quante le interpretazioni, io ritengo anche plausibile quella avanzata dal compianto professor Federico Zeri. Ossia che l’immagine sia stata desunta da un brano dell’opera in latino De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capèlla, che novella delle nozze tra Filologia e Mercurio e che la Primavera sarebbe la personificazione della retorica.

Si tratterebbe comunque di un quadro nuziale, ove alcuni storici dell’arte hanno identificato Lorenzo di Pierfrancesco in Mercurio e Semiramide Appiani nella figura centrale, la Castità, delle Grazie danzanti.

La scena si svolge in un giardino fiorito, contornato da aranci pieni di frutti, che evoca probabilmente il mitico giardino delle Esperiti, i cui pomi d’oro erano identificati nel rinascimento con le arance, pomi che ricordano non a caso quelli dello stemma dei Medici. Oltre i tronchi degli aranci, appena si intravede un luminoso paesaggio, che si estende un discreto effetto di profondità.

In una visione quasi bidimensionale, Botticelli colloca nove personaggi sapientemente disposti nello spazio del quadro intorno alla figura centrale di Venere, simbolo stesso della primavera e che, in questo caso, coincide anche con la Venus - Humanitas, emblema di ricercatezza e cultura, qualità queste di cui Lorenzo di Pierfrancesco era sicuramente sprovvisto.

La composizione, come ha scritto Giulio Carlo Argan, segue un andamento metrico e ritmato, assolutamente analogo a quello della poesia, e va letta da destra verso sinistra. Cala dall’alto, a destra della tela, emergendo tra i rami Zefiro, dall’aspetto azzurrognolo, che ghermisce la ninfa Clori, estatica sonnambula, e con il suo soffio la feconda, trasformandola in Flora, dea portatrice della Primavera, che avanza con passo balzante da lunghe pause ritmiche.

Al centro vi è Venere, nondimeno intesa in senso neoplatonico come divinità dell’amore spirituale che induce al bene, con alle spalle il mirto a lei sacro, simbolo del matrimonio, e l’alloro che allude a Lorenzo.

Sopra di lei il figlio Cupido, con gli occhi bendati, sta per scoccare una delle sue frecce stregate verso il gruppo delle Grazie danzanti (Thaìla, Aglàia, Eufròsine) , che simboleggiano la voluttà, la castità, e la bellezza (Voluptas, Castitas e Pulchritudo), ma anche l’amore che si dona, che si riceve e che si restituisce.

Esse, come ha scritto Roberto Longhi, sono riprese nell’alto dalla posa unica delle tre mani intrecciate, dopo esser state commentate per tutto il proprio sviluppo dalla fiamma marginale cadente dei panneggi di velo! Completa la composizione Mercurio, coi calzari alati e col pètaso del viaggiatore, il quale scaccia con il suo caduceo le nuvole della brutta stagione e dell’infelicità.

 

SULLO STILE DI BOTTICELLI

Nelle figure delle Grazie si colgono meglio che altrove gli elementi dello stile di Botticelli. Ed infatti, scrive Giulio Carlo Argan: Mai come qui è evidente, nella ritmica botticelliana, il ricordo di Agostino di Duccio: i moti di quei veli sembrano addirittura contorcersi, se non sul piano, in una profondità minima, come nei rilievi “neo-attici” di Rimini. E, come in quei rilievi, i corsi e ricorsi della linea tendono a sottilizzare la materia, a darle la sostanza imponderabile della luce: più precisamente a “farsi” luce e non a “ricevere” la luce. È attraverso quei ritmi lineari che le figure raggiungano una condizione perfetta, quasi teorica, di diafanità; e di fatto rimarginano i margini di maggior trasparenza dei veli. (…)

Per la prima volta, le figure non sono più definite da una sola linea, ma da più linee, tra le quali è impossibile stabilire quale veramente determini il contorno del corpo… Sullo stile di Botticelli, prima di Argan, Roberto Longhi aveva annotato: La sensualità malata di Botticelli – si è detto, e molto altro ancora: tutto ciò non è infine che il portato inevitabile della linea funzionale ritmica e null’altro; ed è probabilmente portato involontario, come sempre avviene per i puri pittori. L’affinamento ritmico di un’apparenza corporea invincibilmente vitale non può condurre che a questo eccezionalissimo risultato, il quale va perciò riportato e goduto – sempre nel suo carattere di espressione puramente figurativa…

 

SULLA COLLOCAZIONE DELL’OPERA

La collocazione originaria del dipinto era nel Palazzo in Via Larga, e solo successivamente fu trasferito in Villa di Castello, dove lo vide Giorgio Vasari, nel 1550, messo vicino alla Nascita di Venere. Il titolo con il quale è conosciuto il dipinto deriva proprio dalla notazione vasariana: Venere che le grazie la rifioriscono, denotando la Primavera. Nel 1853 il quadro si trovava alla Galleria dell’Accademia, per essere studiato dai giovani artisti della scuola. Nel 1919 venne definitivamente portato agli Uffizi.

 

IL GIARDINO DELLE ESPERITI

Le Espèriti, figlie della notte, sono tre: Espere, Egle, Erizia. Custodiscono con il serpente Ladone l’isola – giardino sita all’estremo occidente del mondo. Nel giardino cresce l’albero dei pomi d’oro.

 

LE GRAZIE O CARITI

Il nome di Cariti deriva da chairein, ossia rallegrarsi. Figlie di Giove ed Eurinome, esse erano: Aglaia (ornamento), Eufrosine (gioia) e Talia (pienezza). Da loro dipendeva la piacevolezza della vita e dei rapporti umani, legati alla gentilezza dei modi, alla buona conversazione ed alla raffinatezza di spirito. Per tutto ciò venivano sempre associate sia alla dea Afrodite, sia al dio Apollo. Il loro culto era diffuso specialmente ad Orcomene in Boezia, ma erano venerate in altre città greche. Chiamate col nome di Grazie dai romani, in origine venivano rappresentate vestite, poi ricoperte di veli ed infine nude.    

 

BIBLIOGRAFIA. Breve ma veridica storia della pittura italiana, Roberto Longhi, Sansoni; Dei e Miti, A. Morelli, Melita; Botticelli, Giulio Carlo Argan, SKIRA; Botticelli, Marco Albertario, Elemont Art; Vivere l’arte, Fumarco – Beltrame, Mondatori; Itinerario nell’arte, Cricco – Di Teodoro, Zanichelli; Figura, Bernini – Rota, Laterza; Cento Dipinti: La Primavera, Federico Zeri, Rizzoli.

© Giuseppe Lucio Fragnoli


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