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domenica 16 maggio 2021

LA FESTA DEI CANI, il divertentissimo romanzo di G. LUCIO FRAGNOLI pubblicato per la terza volta.


  

La copertina de La festa dei cani è in due colori (rosa e celeste) per le copie cartacee e solo celeste per ebook, acquistabile su Amazon , Mondadoristore.itlafeltrinelli.it libri, o su Rakuten Kobo e su altri siti.  

Per richiedere la copia cartacea o le magliette

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SINOSSI

La festa dei cani altro non è che la traduzione italiana di The Dogs Party, la blues band composta da Marcus, GiòRepsyMaddy e Bibbì, che sono i simpatici protagonisti della vicenda narrata. La storia si dipana in una provincia riconoscibile e per niente noiosa, che si estende da Sperlonga a Caserta, da Marina delle Palme a Fortecastello, il cui centro ideale è il Bar Mocambo, frequentato da personaggi goderecci e perfino troppo singolari. In tali contesti, ordinari e complessi insieme, talvolta suggestivi, si muovono i nostri bluesemen, intenti a realizzare il loro progetto musicale, non senza qualche scanzonato intervallo e alcuni antipatici intoppi, che riguardano soprattutto il chitarrista Repsy, sentimentalmente smarrito. Ma a ingarbugliare definitivamente le cose, se così si può dire, ci pensano le ragazze, Carla, Denise, Vittoria, Silvia, Patricia, bellissime, ovviamente, anche loro straordinarie protagoniste del romanzo. 


La maglietta de La festa dei cani è in due colori (nero e fucsia)


Postilla dell’autore

Ho pubblicato La festa dei cani per la terza volta, con la preziosa collaborazione di Rino Gagliardi, per Edizioni Emmegì di Castelforte (LT). Il fatto che Emmegì sia una casa editrice di Castelforte mi rende ancor più orgoglioso, perché sta a significare che nel nostro piccolo comune, situato all’estremo lembo meridionale del territorio pontino, non mancano persone di spiccate capacità imprenditoriali, oltre che di talento artistico.

Ma veniamo al libro, pubblicato in cartaceo e in ebook, acquistabile su Amazon o su Rakuten Kobo e su altri siti. Si tratta del primo romanzo che ho scritto, e quindi vi sono particolarmente affezionato. Mi fa pure piacere che i molti lettori che lo hanno letto ne sono rimasti entusiasti, compresi anche critici ed esperti.

Scrissi La Festa dei cani tra l’ottobre del 1997 e il dicembre del 1998. Nel mese di maggio del 1999 lo pubblicai – in gran parte a mie spese – con Arti Grafiche Caramanica di Minturno (LT), con l’apprezzabile collaborazione del compianto, buon Fernando Caramanica, che mi onoro di aver conosciuto e che ringrazio qui, adesso, di tutto cuore. La prefazione la scrisse la collega e amica Maria Cristina Calzibelli, che pure ricordo con affetto e ringrazio.

Il romanzo lo avevo sviluppato inaspettatamente, mentre lavoravo svogliatamente a un lungo e palloso saggio, della cui originalità non ero più convinto e di cui non voglio dire altro.

L’intenzione era quella di raccontare, divertendomi anche parecchio, una storia in cui fossero rappresentati ambienti e personaggi a me familiari, cercando di distruggere quell’insulsa immagine di arretratezza e monotonia ordinariamente appioppata ai piccoli centri di provincia. I fatti mi diedero certamente ragione. Il libro ebbe un discreto successo, suscitando interesse e curiosità, anche se il testo era un po’ acerbo, e occorreva certamente una rilettura più attenta e severa. Ma, d’altra parte, a me andava bene così. 

Fu allora che decisi di continuare con la narrativa, che mi aveva completamente catturato, dopo la mia prima dilettantesca esperienza di romanziere. Tanto che l’anno appresso pubblicai Quell’impicciatissima vicenda di donne diavoli e altre stranezze, con Maremmi Editori di Firenze, sempre con la prefazione di Maria Cristina Calzibelli.  Nel 2001 pubblicai Miracolo al bar, con Edizioni Emmegì di Castelforte (LT), con l’immancabile prefazione della professoressa Calzibelli, dando vita così a una trilogia di storie ambientate nella tanto snobbata provincia, tanto per completare la rassegna dei vari contesti e dei molteplici tipi umani.

Ero convinto che, anche in quelle che alcuni esperti considerano ambientazioni minori, potessero svilupparsi situazioni avvincenti e pregne di significati. Ritenevo, come ritengo tuttora, che non esistono le piccole e le grandi storie, ma soltanto le buone e le cattive storie. Quelle ben scritte e quelle scritte male.

Dopodiché continuai la mia avventura di narratore iniziando la trilogia – mai completata – sull’Ottocento e quella che soltanto io chiamo trilogia di città, inoltrandomi con un certo entusiasmo nel filone giallo-noir. Ma questo è tutto un altro discorso. 

Nel novembre del 2013 pubblicai nuovamente La festa dei cani, per la seconda volta, con postfazione di Michele Graziosetto, con Edizioni Emmegì di Castelforte, dell’amico Rino Gagliardi, che pure ringrazio moltissimo, per la sua assoluta disponibilità ad assecondare ogni mio progetto.

Tale nuova stampa la pensai soprattutto per soddisfare il desiderio di moltissimi lettori che non erano riusciti a leggere l’opera uscita nel ’99 per l’assoluta scarsità di copie rimaste in circolazione – io stesso ne possedevo soltanto una, malamente rovinata, tra l’altro –.

Tuttavia, nel preparare quella ristampa, attuai una rigorosa revisione del testo originario, cui seguì una radicale rielaborazione e reinvenzione della parte finale, con sostanziose aggiunte. Ne venne fuori quasi un nuovo romanzo, che poteva essere riletto con piacere anche da coloro che ne conoscevano la prima versione, trovandoci ovviamente delle sorprese. Anche in quel caso si registrò un accettabile consenso, specialmente tra i giovanissimi. Molto piacevole, tra le altre gratificanti manifestazioni, fu per me l’incontro che ebbi con gli studenti del Liceo Scientifico Teodosio Rossi di Priverno, in cui intervenne anche il Professor Michele Graziosetto e la Preside dellistituto Anna Maria Bilancia. Svolgemmo una interessantissima Lezione sullarte del romanzo.

Da allora sono trascorsi circa otto anni, ma La festa dei cani ha continuato ad appassionare i lettori. Con mia grande soddisfazione, naturalmente.

Così, qualche mese fa ho ripreso nuovamente a lavorare sul testo, senza però ravvisare la necessità di attuare alcuna variazione. Ho apportato soltanto qualche lieve, insignificante correzione, riscontrando gradevolmente che ormai non si poteva né aggiungere né togliere nemmeno una parola alla narrazione ultimamente definita. E comunque, visto il persistente interesse del pubblico per le spassose vicende dei Dogs Party e lo scarseggiare di copie disponibili, dopo previo accordo con l’amico editore Rino Gagliardi, ho deciso di riproporre il romanzo ai lettori per la terza volta.

Naturalmente si è cercato di migliorare tutto ciò che si poteva ancora migliorare: materiale e grafica di copertina, grana e colore della carta, impaginazione, dimensione e tipo dei caratteri, eccetera. Penso di aver avuto una buona idea e di aver fatto un buon lavoro. Alla prossima.    

2 maggio 2021 

G. Lucio Fragnoli

 

La copertina de La festa dei cani dell'edizione 2013.


 La copertina de La festa dei cani dell'edizione 1999.

POSTFAZIONE del Prof. Michele Graziosetto inclusa nell’edizione del 2013. 

La Festa dei cani ritorna all’attenzione dei lettori, con una pregevole edizione per i tipi di Edizioni Emmegì di Castelforte. Dopo tre lustri, l’Autore – Giuseppe Lucio Fragnoli – ha voluto rinnovarci il suo pensiero narrativo operando, sul precedente impianto, consistenti tagli e soprattutto modificando la conclusione, ma senza alterare l’ordito generale e senza sottrarci quell’aria di famiglia che ci era tanto piaciuta. E in qualche modo dobbiamo essergli grati per aver gelosamente conservato qua e là – della lingua – l’impasto vernacolare-dialettale che dà alla fabula lo specifico dell’appartenenza territoriale: il sud pontino double face con rimandi al romanesco e al napoletano. Il racconto, quindi, è il frutto di un articolato recupero dell’humus ambientale, che l’Autore vive con passione e – possiamo affermare – con divorante condivisione, per le sue tradizioni (che rischiano oggi di impallidire – se non scomparire – con il passare del tempo), per il sentimento genuino proprio della sua gente, per la profonda generosità dell’amicizia.

Ecco, quindi, secondo noi, la parola chiave – l’amicizia – che dà valore e senso al romanzo: un valore ormai in disuso o fortemente ridimensionato nella sua vasta gamma di riferimento. Non lo si sarebbe, infatti, potuto costruire questo romanzo senza il tenace legame tra quattro-cinque amici, intorno ai quali ruota un’intera comunità fatta di relazioni, di intrecci, di pettegolezzi, di invidie e di gesti generosi. Per di più quell’aria di famiglia non viene minimizzata in ossequio a una moda propria della globalizzazione, che tende a omologare tutti e tutto.

La comunità di Fortecastello, nei momenti di difficoltà, non ripudia neppure le sue tortuose strade della magia e delle fattucchiere, rispettate, secondo il dovuto, e consultate alla bisogna. In merito ai personaggi, abbiamo detto che si tratta di quattro industriosi cittadini, che, a margine delle rispettive attività, realizzano uno di quei sogni nel cassetto che sono poi il sale della vita: un complesso musicale di blues. Non c’è miglior modo che mettere insieme le volontà di ciascuno, oltre che la competenza, per realizzare una nuova storia, per dare sfogo a quella parte sommersa della vita che diversamente non riemergerebbe se non per caso e sporadicamente.

Il gruppo blues ha anche una sua etica: si considera un microcosmo sociale, quindi si dota di regole e di sanzioni inappellabili, nomina un presidente della band, ne stabilisce i rispettivi ruoli e definisce il ruolino di marcia delle prove con gli strumenti acquistati miracolosamente a Napoli con i soliti sistemi dell’arrangiarsi: assegni postdatati, parola d’onore, guardarsi negli occhi, tutte cose possibili in ambienti più o meno in odore di camorra. Il nome dei Dogs poi è vero messaggio: un simbolo autentico tra i tanti caratterizzati da opaca caducità. La compagine dei quattro amici della band – nella situazione in cui si trova – conduce proprio una vita da cani. Ma dato che la loro allegria è il leitmotiv dello stare insieme, il lessema finale non è poi tanto peregrino: festa dei cani. È una sorta di risposta alla vita grama che specularmente ci proietta la nuova società, contraddistinta da solitarie inquietudini e di altrettanto solitarie tristezze.

Quello che ci piace rimarcare in questo lavoro di Fragnoli è il tono dell’azione corale svolta dagli amici: le gioie dell’uno appartengono agli altri, la condivisione degli affetti è il mastice che li unisce, anzi ne rinsalda la forza nei momenti di debolezza e di estraniazione. Il caso emblematico riguarda proprio il protagonista del racconto: il prof Luca Marangoni: docente part time di giorno, bluesman o metallaro di notte, con incursioni artistico-critico-letterarie nei momenti di vera e autentica realizzazione. La vita accademica del nostro intellettuale, per dir così, si svolge in maniera impeccabile (basterebbe segnalarne la perizia nella scelta degli abiti e le sue incursioni in area francese): la mattina presso un prestigioso liceo classico, in cui il docente è apprezzato e stimato e anche amato non soltanto da qualche giovane insegnante (con aspirazioni al coniugio), ma dalle allieve (con speranze di aiutino culturale); la vita notturna, invece, rivela l’alter ego di Luca: veste in noir, secondo le mode più bislacche, associandosi ai suoi amici, alcuni dei quali filosofi approssimativi e commercianti sempre sull’orlo della crisi economica.

Le serate trascorse insieme sono accompagnate dalle più gustose chiacchierate all’aria aperta, in riva al mare – la riviera di Ulisse – oppure dalle più mirabolanti bevute al Mocambo o dalle plurime abbuffate pantagrueliche in qualche rustica o blasonata hostaria nei dintorni del paesello. Le giornate di Luca Marangoni sono l’intelaiatura, per così dire, del romanzo. Intorno a questo protagonista si svolgono, specularmente, due vicende: la prima relativa ai suoi numerosi amori (nessuno a buon fine, nel senso del finale coronamento “e vissero felici e contenti”); la seconda riguardante il rapporto con gli amici. Se le vicende diurne si snodano tra amori e amorazzi e tentativi di accalappiamenti (infatti, si parla... di cani) da parte di questa o quella giovane intraprendente, quelle notturne fanno registrare un’umanità narrativa più pregnante, fors’anche perché l’occhio pietoso dell’Autore è veramente attratto da questi tipi di paesi nella cui anima c’è la sua storia più intima e più direttamente vissuta.

Il romanzo, quindi, segnala nella figura del protagonista Luca una sorta di dimidiazione e/o di trapasso epocale: da un lato, un’esistenza piccolo-medio borghese, con i suoi riti e le sue staticità; dall’altro, il nuovo mondo dei giovani o non più giovani, con famiglie spesso in crisi e incapaci o impossibilitati a crearne una nuova. Il buio diventa la nuova forma di vita srotolata per lunghe ore tra le strade, nei ritrovi o nei luoghi dove si beve e spesso si eccede. Non si registra nelle pagine di Fragnoli il tenero tepore della famiglia, con le sue piccole-grandi gioie; né si colgono i ritmi di un tempo ormai perduto per sempre. Il buio diventa lo stile della nuova civiltà, il topos, l’allegoria ultima, dove emergono più spesso l’illegalità e la violenza, dove per l’operosa volontà dei Dogs – o di coloro come loro - non c’è spazio oppure se lo si percepisce è soltanto un pallido spiraglio, perché non c’è più margine per i meriti, per i sacrifici sudati e per le riconosciute competenze.

Infatti, nella nuova stagione della società buia tutto si può comprare o sottrarre proditoriamente. È la nuova tribù metropolitana che segna e denota lo stacco e lo scacco – anche antropologico – con quella delle regole e del buon senso e del rispetto per l’altro. Forse anche in questa ottica andrebbero comprese le lunghe bevute dei Dogs o le tantissime sigarette spente e riaccese come a sottolineare la grama esistenza del nuovo mondo. L’amicizia perciò diventa una sorta di talismano.

Lo stare assieme di questi giovani, quasi avvinghiati dai loro comuni destini in qualche modo li salva e li recupera alla vita. Così come accade quando Eva e Loredana, ambigue figure della notte, ritrovano l’amico Repsy, alias Luca, in riva al mare, malamente ferito da quattro pallottole sparategli da camorristi per saldare uno sgarbo patito dal loro capo clan, il Duca, per via del tradimento della sua femmina. Il ritmo narrativo di Fragnoli si adegua – con sinuosa fragranza - alle molteplici identità sociali e culturali dei personaggi, ne delinea le storie con rapidi flash back e ne colora. attraverso le tinte chiaroscurali del linguaggio, gli eccessi della prorompente vitalità o degli intimi turbamenti.

Il fatto che Fragnoli abbia rivisitato il suo antico romanzo sta a significare che il lavoro di scavo per un addetto al mestiere dello scrivere è inesauribile. Vale infatti sempre il criterio della conquista quotidiana di nuove forme e nuovi modelli che possano essere riutilizzati per aggiornare i propri riferimenti esistenziali e filosofici. Questo divenire diacronico è il segno tangibile che una scrittura non risulta mai definitiva ed è sempre suscettibile di aperture, purché lo spartito permetta le vibrazioni di una musica che coinvolga e riesca a farci emozionare.


Articolo su LATINA OGGI del 5 novembre 2014


Il gruppo blues THE DOGS PARTY , protagonisti de La festa dei cani


L'autore in veste di chitarrista.






domenica 9 maggio 2021

GIUDITTA E OLOFERNE di GUSTAV KLIMT

 

Gustav Klimt (1862-1918), Giuditta – Judit und Holofernes – (1901, olio su tela, 82 x 42 cm) Vienna, Österreichische Galerie.

 DESCRIZIONE DELL’OPERA

L’immagine è inserita all’interno di una ricercata cornice dorata con inciso il titolo dell’opera e progettata in funzione del soggetto raffigurato.  

L’eroina biblica è rappresentata frontalmente, semisvestita, con un incarnato tenue e vellutato, con un seno e il ventre e il braccio scoperto. Il volto, dalla pronunciata mandibola, dal naso e dalle labbra sottili e morbosamente dischiuse, dalle sopracciglia folte e dagli occhi socchiusi e languidi, trasuda ancora l’eccitazione per il crimine appena compiuto, anche se per un nobile fine.

Un pregiato abito ingemmato e ornato con vistose finiture d’oro le cade sulle spalle. Le cinge il collo un ricco e spesso collier d’oro, lavorato secondo l’attuale e raffinato stile Art Nouveau, come per dimostrare la sua condizione di donna ricca e influente. Giuditta posa la sua mano sul capo mozzato del generale assiro, da lei brutalmente assassinato nell’incoscienza dell’ubriachezza, come un evidente segno di dominazione.

Della testa tagliata di Oloferne, messa in basso a destra della tela, si vede solo una metà, dipinta in monocromia, come un particolare imprescindibile della narrazione. Pochi tratti bastano per definire l’oppressore. Che però è assolutamente secondario nell’impostazione compositiva, giacché è la carnale vedova che occupa la scena, col sensualismo emanato dal suo corpo, con la sua espressione impudica di seduttrice, stupenda e intrigante, sanguinaria e spregiudicata, sprezzante e soddisfatta del delitto appena commesso. Cosicché Giuditta ci appare più come una figura di donna maledettamente fatale, dotata di un magnetismo potente, cui si è destinati a soccombere, che giustiziera biblica.

Alle spalle della conturbante femmina vi è un inusuale paesaggio appiattito, stilizzato e monocromo, con alberi e palmizi in oro, semplificati con tratti spessi ed essenziali che rimandano a una vaga idea di ornamentazione medievaleggiante. Lo strano contesto di natura astratta e impreziosita si staglia contro uno sfondo scuro, come i ricciuti capelli della donna.

Tuttavia, solo il suo corpo emerge dalla bidimensionalità del dipinto, accentuata tra l’altro dalle zone auree e dal pignolo decorativismo. Difatti, bidimensionalità e decorativismo sono, insieme ad altre colte citazioni, gli elementi cardine dello stile di Klimt, in una visione erudita ed estremamente raffinata, espressione stessa di una società prestigiosa ed esigente, frutto della magnificenza dell’impero austroungarico, prima della disastrosa decadenza.

 

LA VICENDA BIBLICA

La singolare storia di Giuditta è narrata in un libro della Bibbia a lei interamente dedicato. Si tratta però di un libro teologico, non storico, in cui la protagonista incarna l’intero popolo d’Israele salvato da Dio, seppure per mano umana. Giuditta, animata da una grande fede nel Signore, restò vedova del marito Menasse, morto a causa di una insolazione.

Nella Bibbia si dice: «Era bella d’aspetto e molto avvenente nella persona, inoltre suo marito Menasse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni ed essa era rimasta padrona di tutto. Ma nessuno poteva dire una parola maligna al suo riguardo, perché temeva molto Dio.»

Ebbene, la città di Betulia era assediata dall’esercito di Oloferne, generale di Nabucodonosor, con gli abitanti stremati dalla fame e dalla sete, rassegnati a capitolare. Giuditta si offrì allora di salvarli, recandosi nell’accampamento nemico in compagnia di un’ancella, con lo scopo di sedurre e uccidere il comandante degli assiri, spacciandosi per traditrice del suo popolo e pronta a mettersi al servizio del nemico. Entrata nelle grazie del generale, che l’aveva accolta e ospitata per tre giorni, dato che la bramava dal primo istante che l’aveva vista, Giuditta il quarto giorno, quando si fece buio, riuscì a restare da sola con Oloferne nella tenda del guerriero, con lui buttato sul divano, ubriaco fradicio, sotto un baldacchino intessuto di porpora, d’oro e di gemme.

Sempre nella Bibbia è scritto: «Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostandosi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento.” E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella, la quale la mise nella bisaccia dei viveri e uscirono tutt’e due, secondo il loro uso, per la preghiera; attraversarono il campo, fecero un giro nella valle, poi salirono sul monte verso Betulia e giunsero alle porte della città.»

Bene, dell’intera e lunga narrazione, che fa parte delle quattro salvazioni d’Israele, l’artista viennese sceglie il momento meno cruento e drammatico, il momento successivo all’assassinio, in perfetta aderenza alla cultura estetica della Vienna imperiale del tempo.


 GIUDITTA II

Klimt nel 1909 dipinse una seconda versione di Giuditta, che lui stesso a volte confondeva con la spietata e ammaliante figura di Salomè. Che, sappiamo, chiese ad Erode la testa del Battista, per compiacere la madre Erodiade, adultera consorte di Erode Filippo e amante dello stesso Erode. Ebbene, il secondo dipinto, sicuramente di minore intensità, in effetti ci fa pensare più a Salomè che a Giuditta, per via anche della postura e dell’ondeggiamento delle vesti del personaggio principale, che sembra diabolicamente danzare, semisvestita, intorno al macabro trofeo del capo reciso dell’ultimo profeta.   


Gustav Klimt (1862-1918), Giuditta II – Salomè – (1909, olio su tela, 178 x 45 cm) Venezia, Galleria d’Arte Moderna.

 

IL PECCATO

Un’opera precedente a Giuditta, che ne anticipa sostanzialmente l’impostazione, è Il Peccato di Franz Von Stuck, in cui l’impudica e androgina figura femminile, emerge appena dalle tenebre del male.

“Immaginiamo la linea sottile che porta verso il male, quello che Van Stuck rappresenta come peccato, un Peccato attraente assai, con questa virago dai capelli così lunghi da giungere al pube e dove la serpe del male appare fatale quanto lei stessa. Occhi brillanti e penetranti, rialzati dalle squame che appaiono come pietre preziose.” (Philippe Daverio, ne Il Secolo lungo della modernità.)   

Franz Von Stuck, Il Peccato, (1893, olio su tela, 95 x 60 cm) Berlino, Staatlische Museen, Nationalgalerie.


VITA DI GUSTAV KLIMT IN BREVE

Gustav Klimt nacque a Baumgarten il 14 luglio del 1862. Frequentò una scuola d’arte professionale (la Kunstgewerbeschule) anziché l’accademia. Il successo arrivò presto e, nel 1897, divenne il maggior esponente della Wiener Secession, movimento artistico antiaccademico, versione austriaca della corrente Art Nouveau. Fu anche attivo collaboratore con Ver Sacrum, rivista collegata alla Secessione. Nel 1905 lasciò la Secessione fondando una nuova associazione di artisti, la Kunstschau, ma restando sempre al centro della vita culturale viennese. Morì il 6 febbraio del 1918.

 

IL POST SOPRA RIPORTATO HA ESCLUSIVO CARATTERE DIVULGATIVO E DIDATTICO, DESTINATO PERTANTO AI MIEI ALLIEVI (DELLA CLASSE 5E DEL LICEO "ALBERTI" DI MINTURNO -LT-), AGLI APPASSIONATI E AGLI STUDENTI TUTTI. 

© G. LUCIO FRAGNOLI 

L'ORGOGLIO DEL PAGLIACCIO, il nuovo romanzo di G. Lucio Fragnoli

La vendetta.  Era l’unica possibilità che mi avevano lasciato gli “assassini” della mia anima e i “ladri” della mia pubblica onorabilità. An...